LA COMPAGNIA DEI PENSIERI (Giuseppe Basile, Artestampa Ed., 2024)

E’ stato finalmente pubblicato il romanzo di Giuseppe Basile, fondatore della nostra associazione Geophonìe, redattore e autore: s’intitola “La compagnia dei pensieri”, suo esordio nella pura narrativa.

“E’ giunto il momento di annunciarlo” –  ha scritto su Facebook :  “dopo tanti ripensamenti, attese, correzioni, letture e riletture, è stato pubblicato da Artestampa Edizioni di Modena, romanzo in nove racconti. I due saggi di critica musicale da me pubblicati (nel 2007 e nel 2016) mi avevano distolto e allontanato dalla scrittura di queste storie a cui già mi dedicavo anni prima, tralasciate e riprese più volte, ma che mi erano sempre rimaste in mente. E alla fine, il loro tempo è arrivato”.

Artestampa lo ha presentato mercoledì 3 luglio alle ore 18.30 a Modena, nel teatro retrostante il cortile del Tempio, in Viale Dei Caduti In Guerra.
“La Compagnia Dei Pensieri è una storia di storie che in questi anni si sono tra loro intrecciate e confuse, storie comuni e speciali di vita emiliana, di luoghi mutevoli, e di persone in transito” – ha spiegato Giuseppe.
La presentazione, condotta da Serena Arbizzi, nota giornalista della Gazzetta di Reggio, ha fatto registrare un notevole afflusso di pubblico.
Nella stessa giornata il giornalista Francesco Natale del quotidiano Notizie di Carpi (https://www.notiziecarpi.it/2024/07/02/intervista-giuseppe-basile/), visti i contenuti e l’ambientazione del romanzo,  ha voluto dedicarvi un approfondimento con una breve intervista all’autore.  “Il romanzo esplora il tema dello smarrimento e della ricerca di un equilibrio tra passato e futuro: il volume offre una prospettiva affascinante sulla complessità dell’esistenza umana e sulle sfumature dell’identità” – scrive Francesco Natale.

Serena Arbizzi e Giuseppe Basile, 03.07.2024, Modena, Teatro Tempio

 

Il protagonista de “La compagnia dei pensieri” è Arturo, un avvocato, proprio come te. Perché hai voluto che il protagonista svolgesse la tua stessa professione? 

Perché il libro è composto da nove racconti, alcuni dei quali sono in parte autobiografici. Sapevo che questa scelta mi avrebbe “esposto”, ma in fondo quando si decide di scrivere un libro di narrativa è normale che chi conosce l’autore riesca a cogliere riferimenti legati alla sua vita, al suo contesto e alle sue esperienze. Non è un problema, è un effetto limitato che il libro produce nella cerchia dei conoscenti, ma il lettore anonimo e disinteressato ai tratti più personali dell’autore non subisce questo condizionamento nell’interpretazione dei fatti, mancandogli una conoscenza pregressa con il soggetto narrante. Ciò che conta, secondo me, è che il lettore possa riconoscersi, ritrovarsi nei contenuti che l’autore vorrebbe trasmettere.

 

Anche lo sfondo è un posto a te noto: Modena…

Il libro è ambientato a Modena, ma anche molto a Bologna, è un libro descrittivo di atmosfere emiliane, di stili di vita e rapporti umani che caratterizzano questi luoghi in cui vivo dal 1986. Sono profondamente legato a questo territorio, me ne innamorai perdutamente quando ero a Bologna all’università negli anni 80, furono anni di formazione per me che hanno inciso in modo determinante sulle mie scelte di vita, e direi proprio sul mio essere, sulla mia essenza di persona. Adoro i pioppi, i silenzi padani, gli spazi verdi, anche la nebbia, l’odore della terra afosa. L’Emilia è il mio posto.

Veniamo al titolo. In una società che vive a ritmi sempre più frenetici, abbiamo ancora il tempo di pensare?

Abbiamo sempre il tempo di pensare, perchè i pensieri sono l’unica cosa che non ci abbandona mai. Anzi, proprio perchè la vita è sempre più performante, frenetica, complessa, i pensieri sono il nostro rifugio parallelo, sono un mondo, fatto di ricordi, elaborazioni, distrazioni, fantasie. Viviamo la realtà complessa che ci circonda lasciandoci accompagnare dai pensieri che segretamente coltiviamo nella nostra interiorità. Viviamo in due mondi contemporaneamente, quello reale e tangibile, e quello interiore che è astratto, immaginifico, ma che contiene una parte importantissima di noi.

 

Il naufragare nei pensieri può essere pericoloso?

Il naufragare nei pensieri può essere pericoloso, certo.
Naufragare è un’esperienza innegabilmente grave. Ma crogiolarsi nei pensieri, coltivarli, alimentarli in modo sano e non morboso è un’esperienza salvifica, è un momento creativo. I pensieri sono una ricchezza, bisogna proteggerli, custodirli, talvolta esporli, senza lasciarsi risucchiare nel mondo della surrealtà, tutto proprio, quello che ci fa perdere i legami col reale.

Nel corso della presentazione si sono discussi i temi centrali dell’opera narrativa di Giuseppe Basile che efficacemente descrive l’Emilia-Romagna di oggi, “sempre più popolata da un’umanità in transito, sfuggente e ondivaga, sospesa in un pendolarismo tra luoghi e affetti, passato e presente, stili di vita e storie personali che si snodano in questa nuova strana Italia della flessibilità, ove tutto sembra normale, e in cui ti fanno credere che viaggiare per lavoro ogni giorno, trasferirsi da una città all’altra, sia un segno evoluto dei tempi, anzichè una disgrazia familiare”.

“La compagnia dei pensieri” è la fotografia di una Modena “vista dagli altri”, ha spiegato l’autore, una storia di vita emiliana, tra Modena, Bologna e i grandi spazi della pianura padana, i pioppi, il Po e i suoi colori, luoghi che fanno da sfondo al “divenire” delle umane esperienze che i nove racconti esplorano ed espongono da una visuale originale e per molti aspetti inedita.

Il libro è reperibile presso la sede di Artestampa Edizioni (Via Ciro Menotti), ed on line, attraverso il sito web dell’editrice
https://www.artestampaedizioni.it/prodotto/la-compagnia-dei-pensieri/
e on line anche sui siti
www.geophonie.it
www.amazon.it

 

 

 

 

PINHDAR. ODE ALL’ESSERE

Pinhdar

Ode all’essere.
I Pinhdar, da Milano, tornano con un nuovo album nel 2024 e rilasciano al pubblico ben tre singoli prima dell’uscita dell’album “A sparkle on the dark water”.

L’avventura degli italianissimi Pinhdar sorvola il territorio enigmatico dell’essere creando con il loro sound uno strato sottile, lucente e resistente da cui ammirare la bellezza umana e difenderla.
La musicalità di Cecilia (voce) e di Max (strumenti) confina con delicatezza verso dolore e rinascita, e il percorso diventa avvincente perché conduce con partecipazione alla rinascita, superando gli inevitabili ostacoli.
Inizierei a parlare del loro secondo singolo ( “Little Light ) pubblicato il 23 Febbraio del 2024,  realizzato in video con un gruppo di talentuosi artisti che accompagnano il viaggiatore in un avvitamento sensuale grazie a un gruppo di danzatori. Bellissimo incontro fra la chitarra di Max e le tastiere che salgono di vigore e di passione. La voce di Cecilia, eterea e trasparente, indica ad occhi chiusi una nuova visione a cui affidarsi,  ove ritrovare la giusta direzione. L’incedere della chitarra di Max avviluppata alle tastiere è davvero avvincente,  ricorda da molto vicino le piano sequenze da colonna sonora.
Un gran bel brano e un gran bel video.

Il primo singolo ( “Humans” )  pubblicato il 19 Gennaio 2024, viene realizzato in video da una coppia di danzatori con l’aiuto della visual artist Telavaya Reynolds, in un bianco/nero che enfatizza il sound confidando in un passo certo e costante. Il tutto arriva in un finale struggente e di commovente nostalgia. La voce di Cecilia ancora una volta accondiscendente al ricamo sonoro di Max segue con pause e sussurri le evoluzioni delle due anime danzanti.
Con tenacia e ardore il destino sarà liberatorio. Un brano che pulsa di linfa celeste.

Il terzo singolo ( “Frozen Roses” ), del 15 Marzo 2024 diretto ed animato da Marco Molinelli, acconsente a un ritmo trip hop elegantissimo che ti abbandona a sogni di grande speranza. Le scene si avvicinano alle fotografie di Richard Tuschman, dove il solo pensarlo aiuta a visitare nei nostri ricordi i momenti più segreti. Rose ghiacciate e intimi pensieri, insieme a scoprire in chiaro la nuova direzione.

Come scrive Michael Azzerad, “ la nostra band potrebbe essere la tua vita” , si possono trovare analogie di sentimenti e di passione nella musica che per caso ascolti mentre una stazione radio la emette da un negozio di fiori.  “ A sparkle on the dark water “ potrebbe essere un riflesso che proviene dalla solita fontana che si affianca durante il solito cammino pomeridiano. Quel bagliore illumina un nostro momento poco chiaro ed ecco che fermarsi per valutare dove siamo può solo far bene.

L’intero lavoro dei Pinhdar rovista nella pura essenza della vita tirandoci per la giacca ad ascoltare e a cogliere i semi della bellezza dimenticati.

Guarda i video su youtube:

Frosen Roses
Little Light
Humans

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Dove acquistare i biglietti

Marcello Nitti © Geophonìe
9 Aprile 2024
diritti riservati.

 

So Real (Peter Gabriel Tribute Band), Cotignola (RA), 24.02.2024, Beer Garden

Total Recall, Reggio Emilia, 28.01.2024, Binario 49

In2TheSound, 13.08.2023, Grottaglie (Taranto), Cinzella Festival

15 anni di Geophonìe

La nostra piccola associazione compie 15 anni. Era stata costituita il 28 maggio 2007, a Taranto, fra sei soci fondatori. Nel corso del 2008 iniziò a progettare la sua iniziale attività, ma solo nel 2009, concludendo la realizzazione del proprio sito web, inaugurò quella che è poi divenuta la sua sede virtuale, il suo luogo-contenitore.

Il numero dei soci nell’arco di questi quindici anni trascorsi, è oscillato tra i sei e i dodici: l’idea originaria era quella del “consorzio tra autori”, dell’associazione costituita per avvalersi di servizi comuni e gestire direttamente, come un editore, i propri lavori creativi, ma era anche quella di sviluppare un progetto di conservazione, catalogazione, custodia di materiali audio amatoriali.

Negli anni successivi alla sua costituzione, Geophonìe in realtà si è poi  rivelata, almeno sinora, più funzionale ad  accumulare preferibilmente tipologie di materiali diversi rispetto ai live audio: recensioni, stampa d’archivio, riflessioni, reportage fotografici amatoriali o professionali, narrativa e storie private, per lo più correlate all’arte e alla musica, ma non solo. Le collezioni fotografiche, soprattutto, hanno preso il sopravvento tra i vari reperti, ma anche le storie personali, storie brevi, pensieri vaganti racchiusi in un post, esperimenti editoriali coltivati sulle strade della propria interiorità, pillole di vita.

La più importante acquisizione di Geophonìe certamente è stata, in questi anni, quella del collezionista Lucio Schiazza: oltre 15.000 immagini di una Taranto d’epoca ricercate e collezionate da una persona meravigliosa che partendo dai suoi ricordi di bambino ha ricostruito un luogo che dal dopoguerra non ha mai più rivisto, indagando sulle trasformazioni poi avvenute. Ha raccolto immagini di ogni tipo, alla ricerca della Taranto passata e di quella ai giorni nostri. Un lavoro sbalorditivo, un safari fotografico pazzesco, realizzato in modo amatoriale, anche con errori tipici di chi non sa, di chi non conosce la Taranto di oggi e magari conserva un ricordo pure inesatto di quella di ieri, ma che ha il pregio di essere talmente esteso da essere qualificabile come un vero e proprio “archivio”, forse unico nel suo genere. Il nostro sito non ce la farà ad esporre sul web questa mole sterminata di immagini, troppo estesa, ma la nostra Associazione la custodirà, per sempre, curando di lasciarla anche a chi ci sostituirà, quando Geophonìe dovrà prima o poi passare la mano.

Anche i nostri rari esperimenti editoriali (“80 New Sound New Wave” nel 2007; “Adrian Borland & The Sound nel 2016”) hanno rappresentato per noi un momento di grande soddisfazione e  consapevolezza per aver centrato l’obiettivo dell’avvenuto “salvataggio” di storie sociali e individuali in campo artistico, altrimenti perdute.Come pure si è rivelata salvifica la realizzazione, in campo narrativo, dell’opera letteraria di Carlo Amico (“Dolceamaro, Poesie, Raccolte e Saggi”, nel 2014), una pubblicazione che ci ha riempito di onore e gratitudine per la fiducia riposta in noi.

Le fotocronache di tanti  eventi live italiani realizzate da Giuseppe Basile, hobbystiche ma utili per valore documentale, hanno superato agli inizi di questo 2024 le duemila immagini e rappresentano una collezione che ci risulta molto viva e consultata, specie dalle band di provincia, dagli artisti “off”, quelli che nessuno si prende la briga di documentare valorizzandone il ricordo, sia degli eventi, che di quei loro percorsi umani e professionali spesso condotti con tanta caparbietà e passione su palchi di ogni tipo, anche in luoghi improbabili, ove però la magia dell’arte musicale e il brivido della performance si propagano, insinuandosi nei mecanismi emotivi di chi capisce, conosce, e sa apprezzare. Serate normali, che diventano speciali. Momenti di vera passione musicale, scevri da ogni inquinamento prodotto dalle esigenze del business e dello show biz ortodosso, momenti di pura musica e libertà.

Abbiamo poi preso in carico un altro progetto di recupero, salvataggio e custodia, legato alla Stampa d’Archivio, a tracce giornalistiche meritevoli di essere accorpate in temi specifici.

E abbiamo infine, e finalmente, forse raggiunto un primo step di un’opera ciclopica, la più complessa da condurre: quella della sistemazione e riordino dell’archivio fotografico professionale di Marcello Nitti, con l’avvio di una prima iniziale esposizione, anche in versione e-commerce, di alcuni dei suoi più recenti temi fotografici sviluppati: lavori di altissima arte fotografica e  rivoluzionaria tecnica, per cui andiamo fieri.

Si tratta di un work-in-progress ancora ai primi passi, ci impegnerà a lungo, ma che qualcuno dovrà pur realizzare, è l’opera di salvataggio e valorizzazione per noi più importante tra quelle sinora messe in campo: si spazia dai lavori di arte fotografica recenti, ed ora da noi presi in esame con precedenza su altri, a quelli di fotografia documentaristica (Musica, Street-Art  e Land) meno recenti, per i quali tutto è ancora da fare, chissà, forse nei prossimi quindici anni della nostra Associazione che qualcosa ad oggi sinora ci ha già dato e altro ancora ci darà. Ce ne vorrà, ma ce la faremo.

24.02.2024 © Geophonìe

 

I concerti del Tursport, stili di vita e società degli anni Ottanta

Rivive in un libro documentaristico l’era della musica new wave a Taranto e nella provincia italiana.

Ancora oggi, in effetti, quando un qualsiasi ragazzo vissuto a Taranto negli anni ’80 sente proferire la parola “Tursport”, automaticamente pensa ai concerti e alla musica new wave, nonostante siano trascorsi oltre vent’anni. E la sera dei Simple Minds se la ricordano tutti.

Corriere del Giorno
03.07.2007

Lo hanno intitolato semplicemente: “80, New Sound, New Wave”, ma il sottotitolo rivela propositi sociologici e voglia di revival: “Vita, musica ed eventi nella provincia italiana degli anni ’80”.

L’idea è stata coltivata per anni da Giuseppe Basile, tarantino trapiantato ormai da vent’anni in Emilia Romagna, avvocato e cultore di rock e sociologia musicale. Ha raccolto fotografie, registrazioni, filmati e interviste rievocativi di una stagione che proprio a Taranto aveva prodotto dei frutti inattesi, ma che poi venne archiviata in fretta.

“Noi non abbiamo mai avuto una cultura della conservazione dei nostri ricordi”, dice l’avv. Basile, “anzi, spesso tendiamo a sminuire e svalutare anche le cose belle che tante volte realizziamo. Dal 1982 al 1987 il Tursport di Taranto fu un luogo di autentica cultura e promozione musicale come Taranto non aveva mai avuto e una stagione così non si è più ripetuta”.

Il volume si incentra infatti sulle storia legate ai concerti che si tennero in quegli anni al Tursport, alcuni dei quali sono rimasti nella memoria collettiva come eventi mitici, rappresentativi di un’epoca, della giovinezza, di atmosfere sociali e locali. A distanza di 25 anni, negli ambienti degli appassionati di musica e non solo, si parla ancora del passaggio da Taranto anche le cose belle dei Simple Minds, degli Ultravox, dei New Order, di Siouxsie, e sono in molti quelli che nel libro rievocano episodi, storie e testimonianze di quella permanenza.

“Fu un momento particolarmente felice per la musica a Taranto” – dice Marcello Nitti, promoter di quei concerti al Tursport e oggi coautore del libro – “perché si riuscì a trarre vantaggio dalla necessità che alcune piccole agenzie musicali emergenti manifestavano in quegli anni: c’era una nuova scena musicale da promuovere e da lanciare, e i promoter andavano alla ricerca di un nuovo pubblico, ma anche di nuovi spazi, specie in provincia”.

7 Luglio 1983. I Simple Minds. Apoteosi new wave nella Taranto degli anni ’80.
C’era il mondo quella sera al Tursport. E i nostri musicisti di allora, veri o presunti, erano tutti lì, sotto il palco, a respirare l’aria magica di quella nuova scena artistica. Oggi molti di loro non suonano più, eppure durante gli anni ’80 era frequente incontrarli nei club locali, nei pub, nelle rassegne estive, ai concerti di “Taranto e il Mare” della Villa Peripato, o in giro per l’Italia. Parliamo dei Panama Studios, dei Central Unit, dei Vena, Koramina, Garden Sinclair, Haver Macht.
C’è chi ricorda i Lilith, o The Act, c’è chi favoleggia sui loro raduni al Teatro Verdi di via Pupino, all’Arena Artiglieria, o addirittura a Pordenone per un meeting
punk-new wave tra le band locali di Taranto e del Friuli. Altri tempi. Sembra passato un secolo, eppure per qualcuno sembra ieri.

La musica di quegli anni è stata raccontata dai protagonisti della scena locale jonica con una tale intensità da farne rievocare quasi il profumo: segno, questo, dimostrativo di una passione autentica. Ancora oggi, in effetti, quando un qualsiasi ragazzo vissuto a Taranto negli anni ’80 sente proferire la parola “Tursport”, automaticamente pensa ai concerti e alla musica new wave, nonostante siano trascorsi oltre vent’anni. E la sera dei Simple Minds se la ricordano tutti: persino chi non lì riuscì a vedere: ci fu chi non fece in tempo a guadagnare l’ingresso, chi restò fuori dai cancelli del palazzetto di San Vito, stracolmo e avvolto da un caldo torrido di quelli che non dimentichi più. Quella musica ha imperversato a Taranto sino ad oggi, sulle spiagge, nelle discoteche: un tormentone.

Jim Kerr, il leader della band, era giovanissimo. I ragazzi del Tursport si contesero i suoi autografi, lo travolsero di affetto e passione, c’è chi narra persino di qualche prosperosa groupie locale che riuscì a intrufolarsi nei camerini, ma il vero colpo lo fece Claudio Frascella, giornalista navigato negli ambienti musicali
e oggi direttore di Publiradio. Sequestrò la macchina fotografica a Marcello Nitti, anch’egli giovanissimo e timoroso di osare troppo, la puntò contro Jim Kerr, gli mise il “Corriere del Giorno” in mano e scattò la foto che ha fatto epoca. “La macchina fotografica e la pellicola sono di Marcello, ma lo scatto è il mio. Pretendo che lo si dica!” , dice oggi Frascella.

Quella sera al Tursport i ragazzi di Taranto assistettero un evento che sprigionava ottimismo nel futuro, slanci sociali e propositi di riscatto. Sembrava
che una nuova città fosse pronta a decollare, una Taranto moderna, con la voglia di diventare grande, capace di realizzare grandi eventi, musicali,
artistici, ma non solo. Fu una sensazione che si perpetuò ancora per qualche tempo, anche quando nell’anno successivo vedemmo arrivare gli Ultravox sempre al Tursport. Titoli a tutta pagina, interviste, grandi Mercedes innanzi all’Hotel Delfino e una folla da stadio ad attenderli. Taranto fu la sede prescelta
dai manager come prima data di una tournee europea che poi consacrò la band ai vertici internazionali.

Quando però la loro musica si consolidò e si affermò sui mercati internazionali la new wave ormai era divenuta un fenomeno commerciale di largo consumo e non c’era più bisogno di una “provincia sperimentale”, di banchi di prova e ribalte di periferia (quali erano quelle che i manager dell’epoca ricercavano, anche dalle nostre parti). La new wave aveva ormai superato, e brillantemente, la prova del fuoco, quella degli esordi nei piccoli centri e tornò nei binari più
collaudati e confortevoli delle grandi aree metropolitane. Non c’era più bisogno di arrivare sino a Taranto per promuovere certi artisti. Ormai la new wave si vendeva da sola. E in quel momento anche i nostri sogni di gloria si mostrarono per ciò che realmente erano, effimere speranze di una città alla ricerca di nuovi orizzonti.

“Oggi le agenzie non rispondono più neppure alle E Mail che inviamo”, dice Marcello Nitti, che saltuariamente ancora ci prova a realizzare eventi musicali dalle nostre parti (ultimo è stato quello dei Tuxedomoon lo scorso anno al Palamazzola). Ma va anche detto che se da una parte manca una certa  disponibilità dei grandi promoters, dall’altra vi è anche una città in cui le persone come Rocco Ture sono sempre più rare. Se il Tursport rappresentò
un centro di aggregazione musicale (oltre che sportivo) lo si doveva anche a una lungimiranza e disponibilità al rischio tipica di personaggi che sapevano osare, qualità che oggigiorno, in tempi di dissesto, emergono con fatica e difficoltà.

 

Ottanta, voglia di new wave …

Corriere del Giorno
08.09.2007
Peppe Basile e Marcello Nitti domenica 9 alle 18,30 al Tursport.
Nel loro libro gli anni storici per la musica a Taranto. Vita, musica eventi della nostra provincia. Raccontati da un appassionato spettatore di quei tempi, oggi titolare di un affermato studio legale a Modena, e da un operatore culturale, all’epoca collaboratore del ‘Corriere?. I blitz, gli scoop, le foto rubate da Claudio Frascella, Daniela Pinna su assist dell’insostituibile icona del complesso sportivo e turistico di San Vito. Altri tempi, da Francobandiera ad Anzoino.

7 luglio 1983, i Simple Minds, titolo a tutta pagina per un articolo scritto a quattro mani da Claudio Frascella e Marcello Nitti. Quella stessa copia che Frascella passò per un attimo a Jim Kerr, leader della formazione scozzese, per immortalarlo con la macchina fotografica di Nitti. E’ uno degli episodi del libro “80 New Sound, New Wave – Vita, musica ed eventi nella provincia italiana degli anni 80″ scritto da Giuseppe Basile e Marcello Nitti. Il primo, avvocato trapiantato a Modena, con una passione sfrenata per la musica e i ricordi; il secondo, operatore culturale e musicale, collaboratore per anni del ‘Corriere” proprio negli anni descritti nel libro che i due autori presenteranno domenica 9 settembre alle 18.30 al Tursport. E dove sennò.

Quegli ’80 al Corriere diretto da Riccardo Catacchio erano i tempi di un serrato gioco di squadra. Pomeriggio al Tursport di San Vito, incontro con gli artisti e poi di corsa in redazione, perchè i lettori del nostro giornale leggessero all’indomani l’intervista esclusiva rilasciata dagli artisti che facevano tappa a Taranto.

Nitti era la rappresentazione del detto “dal produttore al consumatore”. Marcello, professione disc-jockey, prima a Radio Taranto, poi al Tursport. Nel popolare complesso sportivo e turistico Marcello  si muoveva come fosse casa sua. Per qualsiasi cosa organizzasse, godeva della cieca fiducia di Rocco Ture, il patron dello scenario nel quale si svolgevano gli eventi. Ture confessava la sua ingenuità in fatto di artisti inglesi o giù di lì. Marcello non tradiva le aspettative: la struttura di S.Vito faceva ‘sold out’ di eventi e di artisti internazionali: Simple Minds, appunto,  Siouxsie & The Banshees, Ultravox, Sound, Cult e tanti altri. Pienone, cinture di auto  dalla provincia, da Bari, Brindisi, Matera, Potenza, Cosenza, Campobasso. Non si contavano gli appassionati di rock che arrivavano dal giorno prima nella periferia della città.

Altri tempi, quelli che, si diceva, con pazienza certosina ha messo in fila Peppe Basile con l’ausilio di Nitti, memoria storica di una “new wave” soffiata a Bari. Altri tempi, appunto. Le pagine del Corriere, fra Concerti sull’erba di “italsiderina” memoria, e nottate al Tursport al suono di “New Gold Dream” e “Vienna”, “Kaleidoscope” e “Love”, erano strapiene di eventi. Oggi riflettiamo di cosa fosse inconsapevole protagonista la nostra città. Un periodo brillante mai più ripetuto. Basti pensare come quest’anno al pari di altri anni aridi, la città sia rimasta a secco di concerti.

Di quella redazione, guidata da Antonio Bignardi, oggi direttore del Televideo Rai (già vicedirettore del TG2 Rai), facevano parte oltre ai già menzionati Nitti e Frascella, anche Massimo Martellotta, il compianto Piero Bruno, Valerio Dehò, Alfonso Pozzi, Josè Minervini, Daniela Pinna, il fotografo Carmine La Fratta. Pinna, per esempio, curò l’intervista a Siouxsie, Nitt a Sound e Cult, Frascella a Simple Minds e Ultravos. Gioco di squadra, si diceva.

Il giorno dopo l’evento, le locandine esposte nelle edicole, in prima pagina lo strillo dello scoop. Nulla sfuggiva, dalla cultura agli spettacoli, dal teatro alla musica, proseguendo nelle sale cinematografiche (tante all’epoca). Poi sono finiti gli eventi, le sale cinematografiche, le arene, i teatri hanno tirato giù la saracinesca, gli spettacoli a Taranto sono diventati routine. Poca cosa rispetto a quella new wave culturale, dai Peppino Francobandiera (Concerti sull’erba, rassegne cinematografiche d’essai per l’Italsider) ai Tommaso Anzoino (Taranto e il Mare per il Comune) tanto che rileggerla oggi fa una certa nostalgia.

Di quell’epoca resteranno i ricordi, ieri scolpiti nella memoria degli ex ragazzi, oggi sostanziati da un libro e decine di foto. A cominciare da quella con copia del Corriere autenticata da Kerr, che fa bella mostra sulla copertina del libro, di un titolo che da solo racconta la storia musicale attraversata in quegli anni da Taranto: 7 luglio 1983, i Simple Minds.

 

The Who (Firenze, 17.06.2023, Firenze Rocks, Parco Cascine)

Scarlet Rivera (Castelvetro di Modena, 25.05.2023, Cà Berti)

Peter Gabriel (Milano, 21.05.2023 Forum Assago)

Total Recall (La Spezia, 04.03.2023, La Skaletta Club)

Total Recall (Cotignola, RA, 13.02.2023, Beer Garden)

Henry Cow (Piacenza, 18.11.2022, Teatro President)

Pindhar (Modena, 04.11.2022, Centrale 66)

Sanctuary Of Love (Cotignola, RA, 17.09.2022, Beer Garden)

North Sea Radio Orchestra (Porretta Terme, BO, 06.08.2022, Prog Festival)

Nocturne (Cotignola, RA, 02.09.2022, Beer Garden)

Permanent (Bologna, 24.04.2022, Locomotiv)

Permanent (Cotignola, RA, 12.02.2022, Beer Garden)

Not Moving (Colorno, Parma, 03.10.2021, Abbazia di Valserena)

Julie’s Haircut (Reggio Emilia, 02.10.2021, Chiostro Via Emilia San Pietro)

26 Aprile 2024, Anniversario e Meeting

Nei Paesi Bassi si svolgerà la grande presentazione di “Destiny Stopped Screaming”, inedito, il libro inglese di Simon Heavisides. Prima grande pubblicazione europea di un volume documentaristico su Adrian Borland & The Sound, dopo le uscite del 2016 del DVD olandese e del libro italiano di Giuseppe Basile e Marcello Nitti. 

499 pagine di storie, documentazioni, testimonianze inedite, fotografie in bianco e nero e memorabilia, con prefazione di Carlo Van Putten, e con tante interviste realizzate con chi condivise momenti e percorsi di vita artistica e personale con Adrian e la band. Questo è il libro capolavoro realizzato con pazienza, tenacia e passione da Simon Heavisides, giornalista inglese, oggi in pensione, ma al tempo amico del grande artista, cronista e diretto testimone di quegli anni con The Sound.

La presentazione è stata fissata in coincidenza di una data importante: il 26 aprile 2024 saranno trascorsi esattamente 25 anni dalla scomparsa di Adrian Borland. In Olanda, questo anniversario verrà celebrato con una grande commemorazione, l’evento speciale è stato organizzato dalla Fondazione Opposite Direction (Stitching Opposite Direction) a Zoetermeer, nel locale denominato Poppodium Boerderij  (“La Fattoria della musica”),  e la  presentazione del libro sarà solo uno degli appuntamenti previsti.

Zoetermeer, nei Paesi Bassi, è un comune dell’Olanda meridionale a 15-20 minuti da L’Aia e poco distante anche da Rotterdam, raggiungibile comodamente da entrambe con ottimi mezzi pubblici. Il primo insediamento abitato di Zoetermeeer risale ad un periodo compreso tra il 900 ed il 1000 d.C., quando in zona nacque un piccolo centro di estrazione della torba, molto abbondante in tutta l’area, sulle rive del lago Zoetermeer (dall’olandese “lago dolce”), dal quale la città prende il suo nome odierno. Oggi Zoetermeer è la terza municipalità per numero di abitanti dell’Olanda Meridionale.

Poppodium Boerderij
Amerikaweg 145
2717 AV Zoetermeer

Era il 5 dicembre 1987 quando Adrian Borland scese dal palco a metà del concerto di The Sound al De Boerderij. In seguito si realizzò che questo sarebbe stato l’ultimo concerto dei The Sound. Com’è noto, Adrian ha poi realizzato altri cinque album da solista, ma sfortunatamente per la sua malattia non vi fu soluzione e il 26 aprile 1999 decise di togliersi la vita. Sappiamo bene, ormai, come la storia e la musica di Adrian e di The Sound abbiano continuato a vivere in questi anni. La conoscenza del loro valore ha registrato una grande diffusione in tutta Europa, grazie a importanti realizzazioni editoriali, artistiche, musicali e culturali.

 

Documentario: Il documentario Walking in the Opposite Direction di Marc Waltman e Jean-Paul van Mierlo, residenti a Zoetermeer, fu presentato in anteprima mondiale all’IDFA 2016 ed è stato già proiettato al De Boerderij nel 2019.
Il 26 aprile 2024 sarà possibile rivedere questo docufilm sul grande schermo.

Presentazione del libro: la biografia “Destiny Stopped Screaming”, verrà presentata direttamente dall’Autore,  giornalista pop inglese Simon Heavisides, che sarà presente per leggere il libro, rispondere alle domande e firmare autografi.

Esposizione: sarà esposta una bellissima e completa collezione di oggetti di Adrian Borland e The Sound.

Concerto: La band IN2THESOUND chiuderà la serata con un concerto dal vivo. IN2THESOUND è la band che comprende il batterista originale dei The Sound Mike Dudley e il cantante Carlo van Putten. Carlo è conosciuto come frontman della band tedesca The Convent e dei White Rose Transmission, sodalizio con Adrian Borland.

La grande produzione postuma degli inediti di Adrian, sarà un altro argomento di interesse, di discussione e conoscenza. In aprile 2024, infatti, verrà finalmente pubblicata anche una nuova edizione del disco “Alexandria”, primo splendido lavoro solista del 1989, realizzato con gli olandesi The Citizens, oggi rimasterizzato e curato in una nuova veste editoriale. E’ una pubblicazione che segue ad altre eccelse opere di ricerca, salvataggio e valorizzazione che Jean-Paul Van Mierlo con la sua Fondazione ha già realizzato.

 

 

 

 

Il meeting consentirà agli appassionati di visionare e acquistare i cd e vinili prodotti in questi ultimi anni, e che hanno ulteriormente arricchito il già esteso catalogo dell’Artista. Le riedizioni di “Cinematic”, “5:AM”, “Beautiful Ammunition”, come anche la riedizione degli “Amsterdam Tapes” del 1996 (a suo tempo poco distribuiti e divenuti ben presto una rarità), saranno quindi nuovamente a disposizione del pubblico.

 

 

 

 

 

E’ possibile per gli appassionati italiani prendere parte a questo splendido meeting, cui parteciperanno i musicisti inglesi e olandesi e tutta la comunità di amici di Adrian e della band, come già avvenuto in precedenti meeting in Olanda e in Inghilterra.
L’aeroporto di Rotterdam è sicuramente la meta più comoda da raggiungere, per poi recarsi a L’Aia e quindi a Zoetermeer.
I biglietti per l’intero evento (presentazione del libro, Tour e concerto) possono essere acquistati tramite il sito del Club: https://poppodiumboerderij.nl/en/programma/adrian-borland-the-sound-a-retrospective/ 
https://poppodiumboerderij.nl/en/contact/
e qui è anche possibile (in inglese e olandese) consultare il programma completo dell’evento, con orari e appuntamenti.

 

Giuseppe Basile
04/02/2024 © Geophonìe

 

 

 

SYNNE SANDEN IN ITALIA

Il mini tour europeo dell’artista norvegese comprende anche quattro esibizioni in Italia, proprio in questi giorni: Perugia (16/11), Santa Margherita Ligure (18/11), Trieste (19/11) e Torino (23/11)

Forse non sono ancora molti quelli che in Italia conoscono Synne Sanden, artista norvegese che la nostra Associazione Geophonìe ha scoperto e promosso già all’indomani delle sue prime apparizioni nel nostro Paese: si tratta di un nuovo e inatteso talento degli anni ’20 di questo secolo.

Ne avevamo parlato agli inizi di questo 2023, in occasione della pubblicazione del suo album intitolato “Unfold” , ma già in precedenza, nel 2021, con la pubblicazione di un suo EP, e ancor prima, dopo uno splendido suo concerto tenuto a Taranto il 30/01/2020 durante il quale presentò il suo album del 2019, “Imitation”.

“Imitation” è un’opera musicale di grande spessore che Synne ha il merito di aver realizzato nel 2019, in cui dipinge, come su tela, armonie ed emozioni eteree di profonda sensibilità. Nel Febbraio del 2023 ha pubblicato il suo nuovo lavoro “Unfold” con l’aiuto dei suoi fedeli musicisti fra i quali Kim Reenskaug, in arte Wow Sailor, che ha prodotto l’intero album.
Synne Sanden trova agio e leggerezza nel fluttuare nella sua musica che descrive l’amore e il rispetto nel riconoscersi, in un abbraccio di alta umanità.
Eccola che torna in Italia per un breve tour che prevede 4 date e che consiglio di non perdere.
L’esibizione della Sanden è poetica, ancestrale, molto intima, e prova a far riflettere sulla bellezza della condivisione naturale di emozioni.
La sua musica colora gli spazi bui dell’incomprensione generando un “break” che porta fiducia in una nuova vita.
Synne Sanden interpreta con passione:  vederla recitare la sua musica è davvero una bellissima esperienza da provare.
SYNNE SANDEN Tour 2023
16/11/2023 Marla, Perugia (Italy)
18/11/2023 Circolo Arci Orchidea,  Santa Margherita Ligure (Italy)
19/11/2023 Teatro Miela, Trieste (Italy)
22/11/2023 Supersound Festival, Colmar (France)
23/11/2023 Imbarchino, Torino (Italy)
24/11/2023 Live and Loud, Sofia (Bulgaria)
26/11/2023 Quantic Club,  Bucarest (Romania)
Geophonie
Marcello Nitti

STORIE DI COVER BAND

I Nocturne a Barcellona, da sinistra Mario Greco, Marco Venzo, Ombretta Rossi, Maurizio Battistella.

Si formano e si sciolgono. Si ricostituiscono e tra loro si rimescolano. Sono le cover band (o ‘tribute band’, come preferiscono farsi chiamare) che imperversano nei circuiti underground dell’Emilia Romagna e del Lombardo-Veneto.

Le loro sono storie di vita, prima che  musicali: perché quando l’amore per certi artisti fa parte di te, quella musica diventa vita, la tua vita, e a tutti i limiti del progetto non si pensa più. A dispetto di mille problemi si sale sul palco, sempre e comunque, percorrendo centinaia di chilometri, caricando e scaricando strumenti da automobili piene zeppe come furgoni, spesso per pochi soldi, poche speranze. Ma con un amore nel cuore a cui non puoi resistere, che non puoi sopprimere, anche quando tutto consiglierebbe di farlo, o almeno, di provarci.

L’idea di una cover band è, per sua natura, un progetto perdente. In sè stessa nasce già con un limite.  Si decide di portare in scena la musica dei propri idoli di fronte a un pubblico che nel migliore dei casi è composto da ‘reduci’, sopravvissuti di un’altra era musicale, e che per questo trascorre queste serate in un clima di visibilio collettivo, divorato dalla nostalgia, dalla propria storia generazionale;

E nel peggiore dei casi è composto da occasionali avventori, testimoni di un’altra età, ragazzi distratti che non hanno conosciuto Bowie e Lou Reed, che non si emozionano di fronte a ritmi forsennati o atmosfere oscure, a scenari di un altro mondo in cui il disagio, la solitudine, l’emarginazione, o anche la protesta collettiva, sociale, politica, culturale, diventavano anche estetica, espressione artistica, ricerca sonora.

Cosimo Mitrugno, Permanent (24.04.2022, Bologna, Locomotiv). G.Basile © Geophonìe

Il pubblico dei più giovani non è traghettato verso quegli scenari artistico-sociali descritti dagli artisti illuminati che le cover band ancora celebrano e onorano con la loro militanza sui palchi: ma non ha alcuna importanza. Quando i grandi amori sono davvero grandi, sono eterni. E le cover band sanno di non potersi sottrarre a questo imperativo categorico che le identifica,  che caratterizza le storie personali di questi musicisti off, ma in fondo poi non così off come può apparire.

Molti di loro hanno studiato per anni e anni, hanno provato migliaia di volte quei brani che i loro idoli avevano regalato al mondo, e a volte sanno suonarli persino meglio degli originali. Per questo certe serate sono commoventi, serate di testimonianza, cariche di fierezza, e dunque molto più vere, vive, autentiche dello show-business finto e stereotipato cui assistiamo oggi.

Alice Costantini, Permanent (Cotignola, 12.02.2022, Beer Garden). Giuseppe Basile © Geophonìe

 

 

 

I Permanent, sbalorditiva tribute band veneta, dopo circa 150 serate in giro per tutto il Nord Italia, raccontano imprese che hanno ormai costituito un tassello glorioso delle loro storie personali, imprese che non si dimenticano. Come quella di una notte a Berlino, ospiti di un prestigioso club dark wave, e con la benedizione di Peter Hook. Sul palco, uno dei componenti (il chitarrista) esegue insieme ai suoi compagni i capolavori di Ian Curtis davanti a un pubblico europeo attento e qualificato, mentre sua moglie sta per partorire in Italia, ma gli ha detto ugualmente di andare, ci sono cose che si debbono fare per forza, a cui non puoi sottrarti. S’incrociano sogni e destini, la nascita di un figlio e la luce del palco rappresentano in quello stesso momento uno zenith personale, un traguardo, un momento di gloria da vivere e che resterà.

E i Nocturne, tribute band anch’essa veneta che porta in scena il repertorio di Siouxsie And The Banshees, raccontano di essersi  formati quasi per gioco: una volta sul palco, però, la band realizza la propria potenza e la passione del pubblico, e quindi ora prosegue, prosegue, sulle strade di una dark wave che si scoprono ancora così lunghe e profonde, animate dai fantasmi di ieri, dai tanti reduci, ma anche dai nuovi cultori, gente di tutte le età, appassionati sparsi in tutta Europa che all’improvviso, in un giorno di questi da poco trascorso, convocano i Nocturne sul palco di un club esclusivo di Barcellona per una serata mistica.

E’ un circuito, quello delle tribute band nordiche, sempre in fermento e pieno di vitalità: vi sono quelle stabili e collaudate, come i Primary, piemontesi, interpreti del repertorio di Robert Smith e The Cure, ed altre più fluide, formazioni che vanno e vengono, che talvolta si fondono, si scindono, muoiono e risorgono tra defezioni e nuovi ingressi, tempi morti e attese, cadute e risalite alla ricerca di nuovi spazi, spiragli attraverso cui portare ancora sul palco la fedeltà alla propria musica.

I Golden Soldiers, ad esempio, una tribute band veneta di The Sound, ha vissuto varie fasi con formazioni miste, anche con inserti dei Permanent, in ordine sparso. Ma per la musica di Adrian Borland e The Sound, recentemente, il testimone sembra essere passato nelle mani di una nuova formazione bolognese, i Total Recall, gruppo che fa base al Gallery16, locale di cultori dalle parti di via Ugo Bassi ove si radunano duri e puri gli amanti di una musica new wave d’avanguardia degli anni ’80. Le serate animate da un veterano collezionista,  DJ Tetro, sono un’autentica scuola di cultura musicale con set list eccelse ormai impossibili da ascoltare altrove.

Si va dai Wire ai Tuxedo Moon, dai Magazine ai Devo, con vinili d’epoca rarissimi, versioni sconosciute di brani da discoteca tecnologica d’epoca, ritmi industriali tra Sheffield e Manchester, Cabaret Voltaire e Joy Division. E se sul palco i Total Recall scatenano la Sound-mania, specie quando accompagnati da conversazioni con Giuseppe Basile, dai suoi libri e da stralci di proiezione del DVD sulla band di Wimbledon, la serata si fa interessante, divulgativa, ma anche carica di emozioni.

 

I bolognesi Total Recall, Tribute-Band di The Sound: da sinistra Andrea Sgarzi, Massimo Panico, Alessandro Fioravanti, Franco Pietralunga, Sandro Sgarzi (G.Basile © Geophonìe)

Il Gallery16 di Bologna è come il Blackstar di Ferrara, come il Circolo Arci di Parma, l’Osteria del Fico di Cremona, luoghi di cultori musicali, dove gli appassionati si ritrovano abitualmente a conversare di temi musicali e storie di provincia. L’adrenalina, però, in questi anni scorre anche in Romagna, in luoghi che hanno attratto moltissime tribute band.

Il Beer Garden di Cotignola (Ravenna) è ormai uno dei covi preferiti dal popolo della dark wave, che vi si riversa con puntuale abitualità, per vedere i Sanctuary Of Love, potentissima band che interpreta il rock energetico dei Cult, ma per gli stessi Nocturne, Permanent, Total Recall, Golden Soldiers, Hydrogena e diversi altri. Serate retrò, certo, ma con sonorità vive e fisiche, e con musicisti in carne e ossa carichi di passione.

La nostra Associazione Culturale Geophonìe ha sempre cercato di valorizzare tracce, ricordi, cimeli. Storie minime o grandi storie. Cronache, reportage fotografici, sonorità connesse ai luoghi (“geo” – “phonìe”), parole e ricordi, narrazioni. E queste vicende, questi piccoli o grandi eventi, sono la materia delle nostre documentazioni.

Marcello Nitti © Geophonìe
26.02.2023
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SYNNE SANDEN: INCONTRO CON L’UNIVERSO

Synne Sanden, Photo by Siobhan Beasley

L’artista norvegese presenta il suo nuovo entusiasmante lavoro, si chiama “Unfold”,  pubblicato il 17 Febbraio 2023, per la “Nordic Records“.  Lavoro armonioso e identitario:  Synne Sanden  esplora la sua anima e concede a noi tutti di coltivare e custodire nei nostri ricordi le sue gemme preziose, frutto di esplorazioni musicali e passione.

Espressione di vitalità? Espressione di esistenza?

Espressione, direi, di coscienza, con cui viviamo in simbiosi sin dalla nascita.

Ognuno di noi ricerca quella fessura luminosa da cui ripartire per esprimersi, guardando il futuro: quel futuro che per alcuni, o molti, rappresenta un vivere semplice, lontano da prigionie,  un luogo musicale ove si esplorano nuove possibilità di comunicazione, anche visive e letterarie, oltreché sonore.

Sono queste le considerazioni che si presentano ascoltando il nuovo lavoro di Synne Sanden, Unfold, composto di dieci nuovi brani e che segue il precedente e bellissimo Imitation del 2019.

L’artista norvegese si erge con maestria e disinvoltura nella composizione e pone al centro della sua arte la plasticità dell’uso della voce. Il suo canto esprime dolcezza, dolore e infine pathos che culmina in luminose aperture verso intime riflessioni.

Synne Sanden, photo by Martine Hovind

In questo viaggio sonoro Synne Sanden si fa accompagnare da musicisti validissimi che suonano una varietà di strumenti con cui accarezzano e portano in alto la sua espressione più intima. Oltre agli strumentisti che fanno parte della sua band, Jørgen Apeness, Julie Kleive, Henrik Schmidt e Lars Fremmerlid, si aggiungono Ellen Bødtker, che suona l’arpa in due brani, e Lise Sørensen, agli archi in buona parte delle canzoni.

Nelle rappresentazioni live di Synne Sanden scopriamo un mondo variegato di suoni dal sapore lontano e che molto bene si unisce suoi testi. L’evento live non è solo presenza, ma è anche danza, gestualità e movimenti del corpo che risultano propri dell’arte della Sanden.

Un connubio professionale lega Synne Sanden con la designer tedesca Carina Shoshtary, collaboratrice anche di Bjork, la quale disegna le maschere che la Sanner indossa durante le esibizioni live e nei video promozionali dei singoli in uscita.

Prima dell’uscita dell’album “Unfold” sono stati pubblicati due singoli che sono “Like neon” e “Firewood” , accompagnati dai rispettivi video.

https://www.youtube.com/watch?v=dIky5rDl12Y

https://www.youtube.com/watch?v=teSKGsLYYXs

L’album “Unfold“, uscito il 17 Febbraio 2023 per la “Nordic Records“,  conferma le capacità di Synne Sanden e del suo gruppo. Il risultato è unico. La fusione che nasce dal coinvolgimento dei partecipanti ha momenti di intensa ricerca interiore.  Synne Sanden esprime il proprio sentire profondo in atmosfere di libera serenità e di rottura verso condizionamenti e abusi. L’artista indaga l’inconscio della natura umana per segnalare l’unicità di ciascuno di noi,  in ogni aspetto, e per ricordare con estrema fierezza che la forza, intesa come volontà interiore, andrebbe usata per scopi pacifici e solidali e non per sottomettere o, ancora peggio, per imprigionare e creare sofferenza.

Synne Sanden non nasconde attraverso giri di parole il suo messaggio, quello di poter vivere il valore della propria sessualità senza imposizioni o costrizioni. Il vissuto femminile evidentemente ancora sconta zone d’ombra costellate di dolore e traumi da cui dover in qualche modo elevarsi, e con i suoi testi l’artista evoca e trasmette un pensiero di unità e di rispetto.

Ascoltando l’intero lavoro raccolgo le perle  “Forced Restraint“,  in puro stile “Nu Jazz”,  che avvolge e delinea una nuova miscela da fondere con il cantato; “Witness“, con un intro soave  à la Cal Tjader;  e poi “Images“,  dove il canto invocante si adagia in un tappeto sonoricamente sottile ed etereo. Continuando, germoglia la stupenda “Rubberband” con tutta la sua brillante epicità.

I brani dei due singoli “Firewood“, e “Like Neon“,  svelano apertamente il messaggio di Synne Sanden, quello di essere liberi di vivere la propria intimità senza obblighi o imposizioni. “On needles” rimanda lo sguardo verso riflessi a pelo d’acqua per incontrare sè stessi. E ancora, la finale “Inhalation“, struggente, delicata, dove sussurri e abbracci danzano in armonia.

L’album è prodotto da Lars Horntveth, attuale bandleader dei Jaga Jazzist.

https://www.youtube.com/watch?v=15IGXk46yfk
https://www.youtube.com/watch?v=1p0eDlvpwbU

Marcello Nitti  © Geophonìe
26/02/2023
Diritti riservati

La Storia che c’è in noi. Percorsi e frammenti di vite private fra musica storia ed altre alchimie

Marcello Nitti © Geophonìe

“La Storia che c’è in noi” è un esperimento narrativo, un progetto che la nostra Associazione inaugura selezionando storie autobiografiche di vite “sospese” tra esperienze individuali e collettive.

Cerchiamo narrazioni che attraverso un vissuto personale riescano a documentare vicende sociali, eventi e vicende pubbliche che hanno influito sul pensiero comune, formandolo, deviandolo, condizionando i nostri rispettivi stili di vita e pensieri.

La Grande Storia, quella che viene raccolta e narrata nei libri, col suo fluire di eventi, genera infinite piccole storie. 

Le infinite piccole storie che ne discendono sono il suo riflesso meno conosciuto e più interessante, perché l’incidenza degli eventi nella dimensione individuale induce chiunque a interpretarli e viverli secondo strategie e attitudini personali.

L’effetto prodotto dalla Grande Storia in ciascuna dimensione individuale è ciò che connota e rende originale ogni singola esistenza.

Ognuno di noi ha una Piccola Storia da raccontare: nell’attuale civiltà telematica essa è l’ultimo contributo davvero inedito e originale che possa arricchire la Grande Storia di ulteriori  valori, ragioni, significati.

 

 

L’esperienza individuale e il punto di vista personale, rispetto a ogni grande storia, sono gli unici valori aggiunti in grado di conferirle vitalità ed evoluzione, sottraendola alla morte incombente della staticità documentaristica.

Nella giungla espressiva in cui tutto è stato detto, documentato, archiviato, riproposto, mistificato e revisionato, una lettura di certi eventi della Grande Storia attraverso la lente privata e intimistica degli individui è forse l’ultima frontiera editoriale e narrativa alla ricerca di un’originalità naturale,
del non detto e del realmente vissuto.

C’è chi si è lasciato trasportare dalla Storia e chi vi ha remato contro. Chi l’ha vissuta positivamente e chi l’ha subita passivamente.
C’è chi non l’ha capita, o chi l’ha soltanto scansata, restando da parte.
C’è infine chi ha vagato senza meta, tra convinzioni e fraintendimenti, adesioni e rifiuti, ipocrisie e verità,
in balìa di incertezze e visioni personali sino a creare un’altra storia, tutta propria.

Lo scrigno delle nostre vite private, rispetto alla Grande Storia, è una ricchezza da coltivare: conferisce centralità alla nostra esperienza.
Ci rende per una volta soggetti narranti della Grande Storia. Capovolge il rapporto tra la Storia e Noi.

 

*****

 

“Cammino incerto”. (Giuseppe Basile ©Geophonìe)

 

Luci da mondi paralleli.
(un racconto di Giuseppe Basile, 05/07/2009)

 

 

 

 

 

 

1.
Ragioni e Visioni

Ottobre 2008.

Diario di fine giornata. Ho appena chiuso le imposte. Ho attivato l’allarme. Mi guardo intorno, chiudo la porta e mi avvio per le scale.
Solita sequela di azioni e di gesti ordinari. Concludere la gestione della quotidiana routine. Tirare le somme. Cantare vittoria. Mettere in fila gli impegni del prossimo mattino. Programmare. Anche l’aria che si respira. Amministrare le energie. Evitarne l’inutile dispendio e riservarle al prosieguo: la giornata è finita, si torna a casa.

Sono in auto e con la mente non ho ancora staccato. Passo in rassegna tutte le cose fatte e non fatte, mi dedico a questo ripasso, una sorta di riepilogo quotidiano abitudinario e meccanico.

Come ogni giorno, penso che anche oggi le tensioni si sono susseguite con sistematica precisione, ma la concentrazione mi ha consentito di gestirle tutte, una dopo l’altra: dalle angosce lavorative, dalle scadenze dettate dalla successione rapida e vorticosa degli impegni, tutti da rispettare in tempi ristretti, sino alle preoccupazioni interiori, quelle  immanenti procurate dai figli e dalle loro difficoltà, dalle turbolenze economiche e dalle incertezze sul futuro, dalle nostre indecisioni e da tutto ciò che mette a rischio la tenuta complessiva del “sistema”.

Come ogni giorno i pensieri si sono accavallati, intrecciati, offuscati, con la temporanea preminenza degli uni sugli altri, o con la loro caotica convivenza, senza vincitori nè vinti. Ma l’interferenza dei mille pensieri non ha fatto vacillare la mia concentrazione, l’ha solo temprata. E finchè il sistema regge, finchè la razionalità riesce a mantenere il controllo sull’emotività, le insicurezze, i timori, i danni concreti o astratti, ebbene, allora tutto è regolare.
Come ogni giorno.  Tutto va, quindi tutto è ordinario.

Visual Art. Gong, Trieste, 01.08.2009, P.zza Unità. (Giuseppe Basile © Geophonìe)

L’energia che mi viene infusa dalle mie musiche magiche si  unisce alla mia energia naturale, la sorregge, e forse in qualche modo, non so come,  la accresce.
Potrò accumulare frustrazioni lavorative e personali, delusioni e amarezze, scontrarmi con la pochezza del prossimo e le nevrosi delle persone che mi circondano, con i comportamenti squallidi: dentro di me, però, so che c’è una sorta di rifugio tutto mio, un luogo in cui posso ritrovare slanci di poesia, emozioni. Vivo questo perenne entusiasmo alimentandolo continuamente e avverto il senso di tale mia appartenenza a questo mondo interiore governato dalla musica che mi tiene al riparo dal grigiore.

Ho appena terminato di relazionare il mio lavoro ai colleghi, sono trascorsi solo pochi secondi dacchè mi sono congedato da loro, tanto che la mente non si è ancora affrancata del tutto dai discorsi appena terminati, ma sto già volando, penso a Joni Mitchell e alla sua versione di “Woodstock” (il brano da lei composto e interpretato in modo sublime nel suo disco “Ladies Of The Canyon” del 1970), e così comincio a crogiolarmi nelle mie amate e continue riflessioni chiedendomi se in fondo preferisco quella sua versione originale o l’altra,  apoteotica e più celebre, di Crosby, Stills, Nash & Young nel loro disco capolavoro “Deja Vù”, sempre del ‘70. Grande 1970. Onore al 1970. Ed ecco che la mia mente quasi obbedendo a un impulso automatico, parte a elencare i dischi capolavoro del 1970, come in una sorta di gioco a quiz televisivo. “Led Zeppelin III”, “Pearl” di Janis Joplin, “Starsailor” di Tim Buckley, “John Barleycorn” dei Traffic, eccetera eccetera.

Non tutti riescono a comprendere questo mondo. C’è chi non ne conosce minimamente i linguaggi, i contenuti, chi non è predisposto a recepirne i valori artistici e dunque non potrà cogliere nulla di eroico. Ma esiste anche un circolo di fortunati, di eletti, capaci di ricevere gli influssi benèfici di questa spiritualità espressa con le parole e i suoni della musica.
Non è un’area di svago consolatoria, un alibi o un luogo fittizio creato artificiosamente in noi stessi. E’ vibrazione, è passione, dedizione. L’appartenenza a questa dimensione sonoro-mentale produce una certa ebbrezza. In qualche modo, insomma, non so come, mi aiuta.
Inconsapevolmente questo beneficio lo percepivo e ricercavo già da bambino.

 * * * *

E’ il 1967 ed io ho appena un anno e mezzo. Mia sorella, sedici anni più grande di me, consegue la maturità scientifica a pieni voti,  vince una borsa di studio della durata di un intero anno negli Stati Uniti e di colpo scompare dalla mia casa. Faccio fatica a capirlo, la rivedrò esattamente un anno dopo e durante la sua assenza non avrò occasione neppure di sentire la sua voce: il mondo, già “moderno”, è tuttavia ancora lontano dalla tecnologia diffusa della comunicazione di massa, esiste certamente il telefono, ma non per collegare Seattle con Taranto in modo agevole, rapido ed economico. La telefonata intercontinentale non è ancora alla portata di tutti. Il mezzo di comunicazione principe, dunque,  resta ancora la tradizionale e romantica lettera, con i francobolli “posta aerea” : un mezzo incomprensibile e inaccessibile per i miei due anni di vita.
Mi ritrovo, dunque, nella mia casa in attesa di capire il motivo della sua assenza. Un giorno entro in una boutique della mia città, con mia madre: è un luogo che conosco, mia sorella ci andava spesso. Improvvisamente mi faccio l’idea che lei forse si è nascosta lì, la comincio a cercare, chiamandola, spostando i lunghi vestiti appesi alle grucce, frugando fra tutti quei capi esposti e ammassati sugli espositori. Ma è questione di poco. Tra qualche mese tornerà.

Nell’estate del 1968, finalmente, la mia sorella americana fa ritorno a casa. Ha appena vissuto un’esperienza straordinaria, specie per quei tempi. E’ stata ospite per tutto l’anno trascorso di una famiglia americana, “una famiglia tradizionale”,  racconterà in seguito. “La sera, dopo cena, ascoltavamo dei dischi di musica classica”.
Seattle nel 1968 doveva essere distante anni luce dalla San Francisco della Peace & Love, dalla controcultura hippie e dai tumulti politico-sociali contro il Vietnam, eppure qualcosa, forse anche solo l’aria, il profumo di quegli anni, in qualche modo doveva essersi propagato sino alla porta della mia casa di provincia e borghese, in quella Taranto industriale e impiegatizia del Sud Italia.

Nonostante la mia tenera età,  già avevo una discreta passione per i dischi 45 giri. Non mi separavo mai dal mio mangiadischi che portavo con me ovunque, anche a passeggio. Mia sorella, quando rientrò dagli Stati Uniti, portò con sé dei dischi americani che andarono a incrementare il nostro patrimonio discografico di famiglia, con mio enorme piacere: ma un giorno, per posta, lo ricordo bene, ne arrivarono altri.
Le erano stati spediti da amici, ragazzi della scuola che lei aveva frequentato. Ricordo perfettamente (perché li conservo ancora) alcuni 45 giri dei Credence Clearwater Revival (tra cui “Travelin’ Band”), ricordo l’LP dei Blood Sweat & Tears color legno, quello che conteneva “Spinning Wheel”, brano che successivamente acquistammo anche nella versione italiana di Niemen (“24 ore spese bene con amore”), anche se poi divenne più celebre un’altra versione cantata da Maurizio Arcieri.
C’erano un paio di 45 giri di Jimi Hendrix (“Let Me Light Your Fire”), ma il disco che più di ogni altro fece breccia nelle mie fantasie di bambino fu un 45 giri rosso, con l’etichetta della Columbia: era un disco dei Chicago. Il brano principale era la mitica “Does Anybody Really Knows What Time It Is”, con il suo tripudio di fiati jazzistici, brano di cui mi innamorai: la folgorazione, però, mi fu trasmessa dal lato B. Il brano era “Listen”, che io credevo fosse quello principale (considerando “Does Anybody”, al contrario, il brano inferiore).
La mia passione infantile per i dischi registrò una brusca e immediata accelerazione. Ascoltavo “Listen” centinaia di volte, ballavo sino allo sfinimento, sudavo, impazzivo per quelle trombe travolgenti, per il crescendo. Adoravo la voce del cantante, con quello stile così tipico per quegli anni, e poi quell’assolo di chitarra, ubriacante, alla Hendrix, su quella base ritmica corposa, calda, trascinante. Era il brano della mia vita.
Avevo cinque anni, era il 1971.

L’infatuazione per i Chicago crebbe un paio d’anni dopo, quando uscì un altro 45 giri mozzafiato: era “Lowdown”, con l’etichetta arancione: questa volta il confronto con la B Side era più immediato: “Loneliness Just A Word” era un brano troppo difficile, meno accessibile e non poteva reggere il paragone con la godibilità travolgente del lato A. Per me quel disco rappresentò l’apoteosi delle mie fantasie musicali di bambino, e fu l’unico 45 giri che riuscì per qualche tempo a farmi accantonare “Listen”.
Eravamo pieni di musica americana in casa: mio fratello, in particolare, prediligeva funky e rhythm and blues, aveva degli LP di Wilson Pickett, Joe Tex e James Brown (il suo idolo). Erano dischi che mi divertivano.

Mia sorella aveva una cultura più ampia e una discografia più vasta, tendeva alla musica classica, ai compositori americani accademici (tipo Burt Bacharach), adorava l’ LP “Bridge Over Troubled Water”  di Simon & Garfunkel , ma coltivava anche la grande musica italiana di quegli anni, Mina e Battisti su tutti.

Dal 1969 in avanti, almeno per qualche anno, la nostra affettuosa e distinta famiglia si ritrovò di tanto in tanto invasa da hippies, amici americani con cui mia sorella aveva mantenuto qualche rapporto epistolare, o che semplicemente conservavano il suo indirizzo. Bussavano alla porta all’improvviso, noi li ospitavamo sempre, con gli zaini e i sacchi a pelo. Cucinavamo loro cibo italiano e li portavamo in giro. Si accampavano nella mia cameretta dei giocattoli e io li guardavo con simpatia e ammirazione.
Fu un periodo breve, mia sorella si sposò molto presto e quindi andò via da casa nostra, come pure mio fratello: restammo soli in casa, mia madre vedova ed io. Non vidi più gli hippies, e quell’allegro viavai di personaggi curiosi e variopinti restò nel patrimonio della mia immaginazione e dei ricordi. Cominciai a coltivare da solo la mia passione per la musica. Una passione profonda. Non desideravo altro che 45 giri, costavano 800 lire, poi aumentarono a 1000 lire, ne compravo in quantità e li ascoltavo migliaia di volte, li conoscevo a memoria, anche se ancora non sapevo leggere i loro titoli in inglese. Riuscivo sempre a distinguerli, anche quando avevano la stessa etichetta ed erano dello stesso gruppo o artista.
Dopo l’uscita di casa dei miei fratelli, però, purtroppo, non avevo più nessuno che potesse indirizzarmi su quei generi musicali. La musica americana sparì dalla mia casa e per molti anni anche dalle mie conoscenze. La riscoprii, e ripresi a coltivarla, verso i 18–20 anni, quando ero all’Università di Bologna, nel nord Italia dove poi sono rimasto a vivere.

Era all’incirca l’85-86. Entravo nei negozi di dischi di Bologna, Firenze, Milano con particolare frequenza: tra i vari nomi che andavo sempre a controllare c’erano ancora i Chicago, ma per l’industria discografica non era  il momento di pensare alle ristampe. Eravamo all’avvento del compact disc, la produzione era tumultuosa e sterminata, per lo più orientata verso il pop più moderno e commerciale di quegli anni.
La “nuova ondata” di artisti produceva nuove sonorità e una nuova estetica che lasciava ben poco spazio alle operazioni archeologiche e alla nostalgia. Sembrava, anzi, che dei vecchi artisti ci si dovesse sbarazzare quanto prima, per voltare pagina definitivamente. Le uniche compilations dei Chicago che mi capitava di vedere erano quelle su cui campeggiava la loro melensa (e miliardaria) “If You Leave Me Now”, una ballata nello stile Bee Gees: non era di certo un brano capace di infondere in me “energia” : energia vitale, energia creativa, come quella di  “Listen” e “Lowdown” .

“Listen” , in particolare, l’ho scoperto poi da adulto, era contenuto in uno dei dischi più celebri di fine anni 60: “Chicago Transit Authority” del 1969 (ristampato dalla Rhino solo nel 2002), disco d’esordio dei Chicago passato alla storia per la sua assoluta libertà e fusione di stili e forme espressive. Oggi sono in grado di comprenderne i motivi, ma da bambino, quando non disponevo di un senso critico razionale e di una conoscenza artistica, quella libertà e fusione di stili e forme potevo percepirla solo in modo istintivo, attraverso una sollecitazione dei miei neuroni, a seguito di un ascolto avvenuto in modo del tutto casuale. Nessuno mi aveva detto e spiegato che cosa quella musica volesse dire: eppure era riuscita a condurmi in uno stato di ebbrezza, mi dava la carica, mi comunicava energia, e soprattutto, mi comunicava un senso superiore di libertà, una libertà vissuta ad un  livello diverso che mi consentiva di muovermi scompostamente elaborando passi di ballo persino goffi e irripetibili, di dimenarmi in preda a un’estasi sonora, in una dimensione comportamentale differente, liberatoria.

 * * * *

Estate 1995.

La mia vita universitaria è ormai finita da un pezzo, più precisamente già da sei anni. Mi avvicino ai 30 anni, e con essi, all’apoteosi dell’esistenza normalizzata. L’unica energia alternativa di cui continuo a sentire gli influssi è quella indotta dalla mia passione musicale, sempre immanente, sempre ingombrante. Interferisce con i miei studi da avvocato, con le mie necessità di sistemazione. E’ una molestia, una violenza carnale continuata e aggravata, anzi, attenuata (dal consenso della vittima).
Grazie a quell’energia, continuo a coltivare un mio mondo parallelo invisibile che mi aiuta a percorrere la strada ordinaria del quotidiano.
La razionalità, in ogni caso, ormai prevale, e anche la mia curiosità musicale, la mia sete di conoscenza la vivo in un altro modo. E’ una passione adulta, mi piace sempre ascoltare, ma sono pure attratto dalla lettura critica: la musica la voglio interpretare, capire, voglio studiarne la genesi, l’evoluzione.

Starship, Viaggio nella cultura psichedelica (Franco Bolelli, Castelvecchi, 1995. ISBN 88-86232-31-4)

Nel luglio-agosto del 1995 mi capita di  leggere  Un lungo articolo – dossier documentaristico sul numero 10 del mensile “JAM –VIAGGIO NELLA MUSICA”, rivista-culto, sebbene ancora agli esordi : “Starship, Viaggio nella psichedelìa” , a firma Franco Bolelli, Gianpaolo Giabini, Claudio Todesco, Luca Valtorta.
A colpirmi sono proprio le prime righe dell’articolo:

“Anni fa, quando era ancora alle elementari, mio figlio Daniele guardava un filmato con i Jefferson Airplane e il pubblico dei sixties californiani, e improvvisamente mi chiese: “perché non ci sono più in giro facce così?”. Ecco che cos’è la psichedelìa: quelle facce, facce aperte e luminose.  Non  “le cosiddette droghe”, né “fiori & colori” , né  “il viaggio in India” . Psichedelìa non è uno stile, né una storia degli anni sessanta, psichedelìa è tutto quanto trasmette al nostro DNA un senso di espansione. E’  il contatto con una conoscenza luminosa, empatica, estatica, vitale. Sì, certo: Grateful Dead e Jefferson Airplane, Ken Kesey, acid tests e tutto il resto, irradiano il profumo irripetibile di quel luogo e di quell’epoca. Ma attenzione: il movimento psichedelico ha accarezzato una dimensione al di là del tempo (…). E’ l’intreccio fra correnti ancestrali e orizzonti evolutivi, è il grande gioco dell’energia, che la psichedelìa ha messo in scena”

Mentre proseguo nella lettura, avverto un immediato innalzamento della mia soglia di attenzione. Ho sempre cercato, infatti, di capire certe mie pulsioni verso quel tipo di musica, ma non ho mai trovato un testo in grado di spiegarmele criticamente. “Questo articolo forse parla di me”, penso. Quindi proseguo nella lettura, con lo stesso stupore di chi ha improvvisamente trovato un reperto archeologico, una mappa del0tesoro che ha cercato per anni.

“Dalla travolgente passione fra la psichedelìa e la  musica è nato non un genere catalogabile ma una condizione atmosferica, una sostanza biochimica, una corrente d’energia. Prendiamo, naturalmente, i Grateful Dead. Perché i Dead possono indifferentemente slanciarsi negli spazi sonori più vertiginosi, tuffare le mani nel miele-&-marmellata del country, tramutare il bruco del rock in farfalla danzante? Perché si muovono non dentro i posti di blocco dei territori stilistici, ma un metro sopra. I Dead, Hendrix, gli Airplane, David Crosby, Tim Buckley, Syd Barrett, hanno riprogettato il DNA del suono, hanno espanso la chimica delle vibrazioni. Ogni molecola di suono (come ogni molecola dell’energia) vive di vita propria, è questa la semplice e miracolosa scoperta della psichedelìa (…). Ogni singola vibrazione libera così la propria energia, nuota nella grande corrente dell’evoluzione. Accade nelle chitarre liquide, negli slanci verso le atlantidi del suono, nei dolci rintocchi scampanellanti, nelle trances lunari, nei flussi tempestati da lampi magnetici. Tutti quegli “strani suoni” sono in verità l’essenza naturale del suono: solo che la percezione normalizzata è troppo rigida e ristretta per abbracciarli.

 La psichedelìa ha preso per mano la musica e l’ha portata a perdersi per espandersi dentro un immaginario psicochimico, neurologico, filosofico, comportamentale, umano, infinitamente più ampio. Soprattutto, la psichedelìa ha coniugato la musica in una funzione tanto semplice quanto superiore: non una funzione estetica, né etica, né spettacolare, né d’avanguardia, tutte cose in fondo secondarie. Ma una funzione di vita. La musica psichedelica serve cioè a riscaldare i centri vitali, a rivitalizzare l’umore, ad espandere la consapevolezza, ad accendere la sensibilità percettiva, a suscitare energie di creazione.
Chi era quell’imbecille che disse “è solo rock ‘n’ roll” ?

Il servizio giornalistico su JAM era stato realizzato per illustrare una pubblicazione realizzata dall’Editore Castelvecchi : “STARSHIP, Viaggio nella cultura psichedelica”, a cura di Franco Bolelli, redattore anche dell’articolo. Mi affrettai, dunque ad acquistare questo libro che era uscito nell’aprile del ’95. Ciò che mi interessava comprendere era l’effetto della musica sui miei neuroni, e in particolare di quella musica.
Che cos’è che consente al folk, o al jazz, o alla musica classica, di contagiare persone diverse, esposte a sollecitazioni diverse, in luoghi tra loro culturalmente lontanissimi ?Quali sono i meccanismi per cui una data sonorità viene recepita da alcuni piuttosto che da altri, anche in un medesimo luogo? Il mio mondo musicale interiore, insomma, su che cosa si fonda? Su una mia proiezione fantastica, su una fantasia visionaria tutta mia, elaborata in modo autistico? Su un bisogno interiore di evasione dalla realtà? O su una sollecitazione esterna appositamente creata per produrre quegli effetti?

La lettura di “Starship” mi aiutò a comprendere, come mai mi era accaduto prima, il senso di quella musica e quella cultura. Pur attraverso frasi forse volutamente suggestive e retoriche, l’Autore riusciva a “spiegare” con una straordinaria capacità di sintesi, quella che costituiva la vera essenza di un messaggio culturale e di una esperienza umana e sociale che il tempo ha poi sminuito a “moda”, “costume”, “bizzarrìa d’epoca”,  “stile”.

Io stesso, che pur riuscivo a ricavare molti significati, valori e grandi suggestioni dalla musica di fine ’60, sino ad allora avevo avuto la tendenza a etichettarla così come la cultura ufficiale me l’aveva illustrata e trasmessa: una sorta di visione, geniale sì, ma pur sempre estemporanea, un’elaborazione “artistica”, come la Bauhaus in architettura, l’impressionismo nella pittura, l’art-dèco nella moda, o il futurismo in letteratura.
Ciò che sino ad allora mi aveva stupito era il mistero per cui quel fenomeno, così diverso e per certi versi agli antipodi con i miei stili di vita, riuscisse a sollecitare la mia sensibilità: non solo quella artistica, ma quella umana. Ascoltare “Music Is Love”, “Tamalpais High (at About 3)”, e “Laughing”, dal disco “If I Could Only Remember My Name” di David Crosby del 1971 mi faceva sentire parte di un altro mondo, un mondo che, peraltro, io neppure conoscevo, di cui non ero parte, distante anni luce da me e dalla mia vita.
La lettura di quel libro, grazie anche alle sue citazioni introduttive, un po’ sloganistiche ma efficaci, mi fornì un’illuminante opportunità di comprensione:

“La psichedelìa non appartiene agli anni Sessanta. La psichedelìa accarezza l’essenza vitale e il senso evolutivo degli esseri umani.” .

“Una generazione perduta, dicono i predicatori del buon senso normalizzatore. Sciocchezze, credetemi. Semplicemente, per la prima volta un movimento ha scelto di proiettare la propria intelligenza, sensibilità, energia di creazione lontano dai poteri politici e culturali e dalla realizzazione nella storia e nel sociale. Ma questo movimento ha costruito mondi paralleli, ha irradiato flussi di deriva felice, è stato all’altezza non della sopravvivenza ma della vita”.

“Psichedelìa vuol dire droghe? No, niente affatto. Le sostanze psicotrope sono servite a porre certe domande. Ma le risposte stanno nel modello antropologico e nelle forme di vita che la psichedelìa ha messo al mondo”.

Marcello Nitti © Geophonìe

“I modelli mentali e neurologici “normali” ci offrono qualche scricchiolante resistenza ma più nessuna prospettiva” . “Mettere in causa un governo è ben poca cosa. E’ dall’intero mondo dell’esistenza normalizzata che è necessario liberarsi. Abbiamo oggi l’occasione straordinaria di reinventare l’intera grammatica comportamentale, l’intero nostro modo di vivere”.

“Abbiamo la possibilità evolutiva di liberarci dalla meccanica conformista che si è fissata nei nostri modi di esistere” . “Ormai nessuna evoluzione è più possibile a partire dal principio della necessità (dall’economia, dalla storia, dal sociale, dal pensiero critico)” . “Una nuova era antropologica, un nuovo slancio evolutivo, può nascere soltanto mettendo al centro la questione della felicità, l’esperienza della felicità”.

“Ma davvero pensate che cultura significhi pensiero concettuale, modernità, fronti aggrottate, logica critica e via tristeggiando? E’ veramente arrogante e patetico il tentativo della cultura intellettuale europea di accreditarsi come unica unità di misura”.

“La psichedelìa ha espresso il progetto culturale più avanzato della nostra epoca, la sola filosofia planetaria ed evolutiva”. “Non ha rinchiuso la vita nella gabbia del pensiero intellettuale. Al contrario, ha sciolto la filosofia nella corrente del vivere. Ha finalmente connesso la filosofia con il corpo, con il magico, con la natura, con il potere femminile di creazione, con la felicità”.

“Non c’è filosofia più profonda e più dolce di quella psichedelica. Perché la filosofia psichedelica non è pensiero intellettuale. E’ un castello di luce, una costellazione di sorrisi, una danza, un piano di volo, un assolo di chitarra, un surf sull’onda più alta, una carezza ai nostri neuroni e alla nostra vita”.

“Dalla conoscenza logica alla conoscenza luminosa: è questo il salto evolutivo che stiamo vivendo. La mente razionale e il modello dell’interpretazione critica stanno affondando nell’oceano della comunicazione pervasiva”.

“Conoscere per colpo di fulmine, per infiniti, per lampi, per brividi, per flussi, per innamoramenti”. “La conoscenza luminosa è la stessa delle piante e dell’energia nello spazio. La conoscenza luminosa coniuga la danza dei nostri neuroni con il ritmo dell’intelligenza globale della vita nell’universo”.

“Dove c’è il massimo di critica, lì c’è il minimo di creazione. Perché l’intelligenza critica ha impresso nei neuroni del genere umano l’abitudine a negare, non a mettere al mondo. Il pensiero critico è ormai evolutivamente impotente. Per il destino stesso degli esseri umani è necessario sintonizzarsi con una sensibilità di creazione”.

“La psichedelìa ha spostato l’accento dalla creatività alla creazione, dall’estro estetico all’energia estatica. Creazione è entrare in contatto con tutto il nostro potere vitale”.

“Non il denaro, né il possesso di simboli. Ma nemmeno il poverismo moralista. Si tratta di mettere a fuoco la ricchezza che gli esseri umani portano con sé: ricchezza è la consapevolezza dei giacimenti inestimabili e inesplorati che ci abitano, (…) è il sentimento che nella mente, nei sensi e nel cuore ci sono mondi di energie, di connessioni, di avventura che ancora aspettano di venire in luce”.

 “Nessuno sforzo, nessuna ascesi è necessaria per vivere l’esperienza estatica, magica, psichedelica. Essa è semmai la naturale estensione delle nostre energie e dei nostri stati d’animo”.

 “La realtà ordinaria, l’esistenza normalizzata è assenza di vita. L’esperienza estatica e psichedelica è essenza di vita”.

 Non contro le regole, ma al di là delle regole. Al di là dei ruoli, al di là del terreno della necessità, al di là dell’unità di misura del sistema-mondo normalizzato”.

 “Qual è lo stile di vita psichedelico? L’ha detto Tim Robbins: stanchi di aspettare che il mondo migliori, vivere come se quel giorno fosse già qui”.

“Sesso-droga-rock & roll” è stata una formula superficiale che la vera esperienza psichedelica ha vissuto un metro sopra (…)”.

“La storia e il sociale appaiono grandi a chi soffre di miopia dell’immaginazione”.

Marcello Nitti © Geophonìe

“La musica, le immagini, gli eventi, i progetti psichedelici, non hanno una finalità estetica, né spettacolare, né etica, né culturale. Esprimono una funzione di vita: la funzione, semplice e superiore, di nutrire ed espandere i nostri centri vitali”.

 “Tutte le ideologie, le religioni, le politiche, vogliono convincerti del loro mondo. La sensibilità psichedelica vuole convincerti del tuo mondo, della possibilità di dar vita a infiniti mondi singolari” .

 “Se tutti i tentativi di cambiare il mondo falliscono miseramente, è perché non è quella la soluzione. La soluzione sarà moltiplicare i mondi. Trasfigurare dolcemente il mondo, perderlo in un caleidoscopio di mondi”.

 “Fare mondi singolari, metterli in sintonia e in condivisione, al di là di ogni gerarchia, questa è democrazia non formale ma vitale. E’ politica psichedelica, politica evolutiva”.

 “Come la Starship dei Jefferson (e dei Dead, di Crosby …) in Blows Against The Empire. Le migliori facce, anime, corpi, menti, che si liberano dal gioco assurdo del mondo normalizzato per volare fra spazi interiori e spazi cosmici, per aprirsi a un destino più grande, per sperimentare forme di vita espanse” .

“Più uguaglianza, continua a rivendicare la sinistra conformista. Senza vedere che al contrario la grande questione evolutiva è portare alla luce le infinite differenze singolari. Il limite della civiltà moderna è proprio l’esistenza di regole uguali per tutti mentre gli esseri umani sono diversi l’uno dall’altro. Non sono le diversità singolari a essere un problema, ma le gerarchie e il giudizio. Nessuna vera uguaglianza sarà mai possibile senza valorizzare l’irripetibile unicità dei singoli” .

“Fare mondi singolari non vuol dire arroccarsi in sé. E’ anzi la sola condizione per allestire comunità non difensive e consolatorie, ma capaci di valorizzare la ricchezza di ciascuno. Costruire sintonie elettive intorno alla più vasta molteplicità di punti di vista”.

“Se poi psichedelìa è un nome che non sentite vostro, bene, ci sono fortunatamente più esseri umani che sono psichedelici senza definirsi così, di quanti si dicono psichedelici senza esserlo davvero. Chiamate allora come più vi piace questa esperienza: ma innanzitutto, vi prego, vivetela”.

Fu la lettura di questo libro a trasformare tante mie sensazioni, in consapevolezze. La mia indole sognatrice, il mio fantasticare trovava per la prima volta una giustificazione : si, perché i comportamenti e gli impulsi più personali, quelli che non rientrano nella tipologie più comuni e riconoscibili, nel mondo conformato dalla razionalità necessitano di essere giustificati. La società borghese, poi, quella nella quale, peraltro, mi sono sempre anche riconosciuto, tende a farti sentire un cretino non solo quando balli scompostamente nella solitudine della tua stanza sudando sino a grondare sudore sul pavimento, ma persino quando magari parli “troppo spesso” di musica e “troppo poco” di politica, soldi, sesso o altri argomenti invece accettati come normali.

Cominciai a capire che il mio mondo era costituito da più mondi.
Non avevo bisogno di annegare nei fumi dell’alcool e dell’ L.S.D. per provare certi stati di ebbrezza. Né di perdermi per le strade senza meta dell’anticonformismo. Non rifiutavo nulla della mia indole borghese, né dei miei studi classici, e neppure del mio essere avvocato.
Per la prima volta capii che il mio patrimonio di neuroni contemplava anche una deriva irrazionale, un sogno fatto di colori indistinti, fatto di “arcobaleni psichedelici” , come dice Franco Bolelli.

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Il volume “Starship. Viaggio nella cultura psichedelica” di Franco Bolelli si concludeva con un elenco di dischi fondamentali del genere. Alcuni li conoscevo già, ma tra gli assoluti, gli impedibili, me ne mancava uno: “Blows Against The Empire” dei Jefferson Starship, “il disco da portare con sé su un’isola deserta, nello spazio, in ogni casa, ovunque”,  dice l’Autore.
Un pomeriggio scesi di casa,  andai a comprarlo e rientrai subito per dedicarmi al suo ascolto.
Rimasi folgorato, mi girava la testa, un disco pazzesco, perfino troppo grande. “Have You Seen The Stars Tonite” mi comunicava delle sensazioni positive, mi faceva sognare in modo ottimistico. Cominciai presto a completare la mia discografia dei Jefferson, e non appena incappai nuovamente in “Somebody To Love”, che già conoscevo da bambino ma non ricordavo più, nel risentirla capii che quella musica era rimasta dentro di me, l’avevo inconsciamente conservata come un vago (ma prezioso) ricordo per tanti anni.
Provai un senso di commozione. Ripensai a mio padre che avevo perduto in quegli anni, alle atmosfere di sottofondo che accompagnavano la mia vita di bambino, all’aria che aleggiava in casa mia a quei tempi. Era bellissimo.

L’ascolto di “Blows Against The Empire” ha rappresentato per me l’esperienza musicale più emozionante della mia vita adulta. Ormai era chiaro che quel senso di felicità, di libertà, quella voglia di creare, anche se solo in una dimensione immaginaria incomunicabile, tutta mia, erano valori che avevo  il diritto di coltivare. I Jefferson, pur nella mia consapevolezza di adulto, divennero come dei santi laici, i sacerdoti della mia fantasia, i gladiatori della mia immaginazione. Potevo far ricorso alla loro musica in ogni momento della mia giornata che richiedesse un dispendio speciale di energie fisiche o spirituali. C’è chi si affida alle religioni, chi ai mantra, alle concentrazioni mistiche o alle diavolerie pseudo mediche, ai talismani o agli influssi di stelle e pianeti. Io che pur snobbavo tutto ciò, constatavo che quelle sonorità, quei viaggi, mi conducevano in una dimensione di felicità e di positività, come “Listen” e “Lowdown”  da bambino.
Con tutto il mio bagaglio di consapevolezze e tutte le mie tesi razionali e negazioniste di ogni genere di alchimia, decisi, dunque, di non abbandonare mai più quell’influsso benefico che non so per quali oscure ragioni si produceva dentro di me.

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Estate 1996.

La vita spensierata e disinvolta degli anni universitari è ormai definitivamente archiviata tra i ricordi personali, e a quel senso di leggerezza si è sostituita la sensazione incombente, totalizzante, della gravità. La mia disoccupazione si protrae da alcuni anni e questo disagio contagia ogni cosa. E’ una non-vita, una sorta di non-essere. Avverto la drammaticità del momento, tento una via, anzi, le tento tutte.
I concorsi pubblici si susseguono a buon ritmo e affido ad essi parte dei miei destini.
Dopo varie vicissitudini, un giorno, a sette anni dalla mia laurea ricevo una comunicazione importante: ho superato gli esami scritti di un prestigioso concorso in un’avvocatura pubblica di un ente istituzionale italiano. Bisogna andare a Roma a sostenere gli esami orali.
Mi siedo in macchina, da solo. Anzi, non da solo. Decido di portare con me, come sempre, un po’ di dischi.

Sono in autostrada, ripeto mentalmente alcuni argomenti delle prove orali, cerco di andare incontro a qualcosa di ineluttabile senza paura, senza insicurezze. Voglio affrontare la mia solitudine, la mia disoccupazione, il mio non-essere. Decido di vivere questa occasione nella più assoluta pienezza, le vado incontro con la tipica concentrazione di chi sa di essere, finalmente, alla resa dei conti, di fronte alla realtà concreta, quella che prima o poi deve necessariamente arrivare. Mi sento spettatore e artefice di questo incontro: è il mio momento, lo sento, la certezza mi proviene dalla mia sicurezza, dalla mia disposizione a viverlo nel modo più naturale possibile, senza esitazioni, dubbi, sensi di inadeguatezza, di colpa o di incoscienza. Mi sento presente, assolutamente presente. Devo solo concentrarmi nel modo giusto.

Nel tratto autostradale fra Taranto e Bari accendo il lettore cd, inserisco “Have You Seen The Stars Tonite”  e l’ascolto forse trenta, quaranta volte.
Ho bisogno di trovare  “il-mondo-tutto-mio”, quello che ho dentro. Questa volta voglio le stelle, le pretendo, le desidero, mi spettano. Le ho attese a lungo e saranno adesso tutte per me.
La disoccupazione è una brutta bestia,  un cancro, un acido corrosivo della tua autostima, è qualcosa che lentamente riduce e consuma ogni spazio di vita, reprime ogni impulso. Questo mostro oggi è di fronte a me, per la sfida finale, ma la magia di “Blows Against The Empire”  mi comunica una calma e una concentrazione superiore. Sono presente come non lo sono mai stato, ma in un modo che non so spiegare, so di essere anche altrove. Sono a un passo dalle stelle, le sento, e lì riverso tutti i miei sentimenti.

Arrivo al concorso, attendo il mio turno, sostengo gli esami orali con una calma serafica e soprannaturale che non è da me, riesco a comunicare tutto il mio equilibrio, la mia pacatezza, il mio essere all’altezza di quella prova: e finalmente, vinco. Conseguo così un importante lavoro che non cambierà la mia vita ma la stabilizzerà:  poco dopo la mia ragazza diventerà mia moglie.
Da quel giorno farò di tutto per non inflazionare quegli influssi, per non abusarne, cercherò di ascoltare quel disco con minore frequenza, sempre e solo nei momenti che meritino davvero quelle grandezze siderali e quei voli.

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1998, gennaio.

Francesco De Marco, “Città e Dintorni”

Siamo appena sposati, da pochissimi mesi. I nostri  rispettivi lavori ci dividono ora tra il Nord e il Sud dell’Italia (io a Modena, lei a Taranto), ma nonostante questa difficoltà logistica, è un buon momento, stiamo vivendo una fase fatta di nuove complicazioni, segno che siamo andati avanti, che c’è un’accelerazione del presente.
A noi, in realtà, il presente interessa solo nella misura in cui tenda al futuro, è solo una scala verso il futuro, un veicolo che cerchiamo di condurre lì, dove la nostra vita in comune inizierà davvero.

In un fine settimana mia moglie viene a trovarmi a Modena. Trascorriamo tre giorni insieme, siamo pieni di energia, di creazione. Sentiamo ancora una volta, nell’aria, l’ineluttabilità del momento. C’è qualcosa di inesorabile, di “scritto”, in certi giorni. Sembra che perfino la luce sia in qualche modo diversa.
In una serata silenziosa, mentre fuori la nebbia ovattata e il freddo emiliano sembrano voler isolare le nostre quattro mura disadorne dalla realtà esterna, decido di lasciar scorrere “Blows Against The Empire” per un po’. La nostra abitazione, al terzo piano di una palazzina senza ascensore avvolta da un silenzio spettrale di periferia, sembra aver perduto ogni contatto col mondo circostante. E’ un’astronave. Siamo fuori dall’orbita terrestre. Sospesi nel vuoto, chiusi nelle nostre quattro mura. Assolutamente soli e felici.

In casa c’è una luce calda, cuciniamo e beviamo allegramente nella nostra cucina nuova di zecca, appena consegnata e montata, profumata di cartoni da imballaggio e di legname ancora fresco di magazzino. I brani si ripetono, si susseguono. Quelle note country di “The Baby Tree”  espandono le loro dolcezze e quelle atmosfere tanto semplici da apparire irreali si irradiano nella casa, mescolandosi con le luci gialle dei faretti e i profumi di cibo, di legno, di nebbie padane. Dopo pochi giorni sapremo che mia moglie è in attesa di due gemelli. E questa volta la vita cambierà davvero.

Jefferson Starship Galactic Reunion (Salò, 15.07.2005). Paul Kantner, Diana Mangano, David Freiberg. (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Dovranno trascorrere ancora un po’ di anni prima di poter incontrare dal vivo i sacerdoti della mia fantasia, i gladiatori della mia immaginazione. Ma anche questo, prima o poi accadrà.

Dovrò attendere il 15 luglio 2005 per guardare negli occhi Paul Kantner, Diana Mangano, David Freiberg.  A Salò, sul Lago di Garda, con Country Joe McDonald, e addirittura Tom Costanten dei Grateful Dead.

Marty Balin, Milano, 01.12.2006 Blue Note (Giuseppe Basile © Geophonìe)

E poi l’1 e 2 dicembre del 2006 al Blue Note di Milano, con Marty Balin che suona per me “Coming Back To Me”, da solo, voce e chitarra, con un’esecuzione perfetta, intensa, profonda, da far accapponare la pelle.

Eccoli, i miei Jefferson Starship, fantastici. Ho ballato con loro, sul palco, in un’altra dimensione, oltre me stesso, oltre il mio “essere-avvocato-borghese-padredifamiglia”.
Attimi di felicità pura, “essenza di vita”, come dice Franco Bolelli.

 

 

 

 2.
 Arcobaleni di un’altra età.

 

Marcello Nitti © Geophonìe

Gennaio 2009.

Mi sono svegliato un po’ prima del solito. Ho dormito poco e male. Anche se potrei tentare di guadagnare gli ultimi minuti di riposo decido di arrendermi al nuovo mattino e di alzarmi.
Sto facendo colazione da solo, in silenzio. Le mie figlie dormono, mia moglie invece è già sveglia. Risponde lei al telefono che insolitamente squilla alle sette e un quarto. Si dirige in cucina, viene verso di me, mi consegna il telefono: “è tuo fratello”.
“Stanotte nostra madre ha avuto una grave crisi cardiaca. Non sono riusciti a salvarla”.
Si era appena ricoverata, non la conoscevano neppure.
Vivo a novecento chilometri di distanza. E’ morta senza di me.  E’ accaduto di notte, tra le braccia di una dottoressa di turno notturno che cercava di rianimarla. Mi sento solo. Vorrei sentirmi solo come si è sentita lei, vorrei comprendere il dolore e la paura di morire da soli, senza lo sguardo dei propri figli, tra le braccia di un’estranea, tra pareti estranee, lontano dalle mura domestiche, dai propri arredi.
Vorrei comprendere quel dolore per condividerlo, come se condividerlo in qualche modo potesse alleviare il suo.

Trascorrono i minuti, mi rendo conto che è accaduto quello che per tutta la vita avevo sempre temuto, sin da quando ero bambino. E’ giunto il momento che nessuna persona al mondo vorrebbe mai che arrivasse. E’ come morire. Eppure sono vivo, sono qui, sono altrove. Sospeso nel vuoto.
Si è fermato il mondo, il tempo.  E’ tempo di partire.
Affrontiamo un lungo viaggio, dal Nord al Sud, mia moglie, le mie figlie ed io. Sono lucido e presente, guido con i nervi saldi, ma cerco di interpretare il vuoto incolmabile che c’è in me, il vuoto in cui mi trovo.
E’ una sensazione che tende a svanire quando arrivo a Taranto, la mia città. Vengo risucchiato dagli eventi, dagli adempimenti. La sala mortuaria, i fiori, la folla dei conoscenti, l’andirivieni tra l’ospedale e la mia casa, e poi il viaggio rapido verso la chiesa, i funerali.
Occorre concentrazione. Voglio essere presente, voglio capire, voglio sentire esattamente tutto ciò che sto vivendo. Ho ancora i nervi saldi, ho sempre il vuoto dentro, ma non c’è tempo di capirlo. Dovrei restare solo per avvertirlo nella sua massima intensità, sarebbe l’unico modo per sentirmi vicino a quel baratro in cui lei è scivolata, per entrarci, per sentire che quel baratro esiste, e quindi esiste lei.

Città Fraintesa (2008, Giuseppe Basile ©Geophonìe).

Quando sono arrivato in quell’ospedale ho realizzato che mia madre era morta in un luogo della nostra città che nessuno di noi aveva mai visto, neppure lei. Non eravamo mai stati lì. Il quartiere è degradato, c’è un grande piazzale incustodito. Istintivamente l’estraneità del luogo e le sensazioni di rifiuto verso di esso mi spingono a far sì che nulla di ciò che più intimamente  mi appartiene possa restare lì. Non voglio lasciare la mia anima in preda a quei luoghi e a quell’insidiosa estraneità: prendo, dunque, tutti i miei dischi disseminati nell’auto, li chiudo in una busta di plastica e li porto con me.
Entro nella camera mortuaria con la busta in mano e vi trascorro alcune ore. Più volte sposto quella busta da una sedia all’altra, poi la ripongo su un tavolo, poi sotto una mensola, infine di nuovo sotto una sedia. Ho avuto paura che qualcuno, mentre ero intento a portare l’ultimo saluto a mia madre, potesse scassinare la mia auto, rubarla, con tutti i miei dischi al suo interno, ma provo anche un certo imbarazzo verso i presenti, non ho piacere che si chiedano cosa contenga quel pacco che  porto con me e custodisco con tanta dedizione.
Questa esperienza mi trovo poi a riviverla anche nelle ore successive, al funerale. Arrivo nei pressi della chiesa ma parcheggio lontano, in una brutta strada. La busta è accanto al mio sedile, me la porto sino in chiesa, non me ne separo neppure in questo momento. La appoggio per terra, nell’inginocchiatoio del banco della prima fila e la tengo tra i piedi, tra le gambe, finchè mia figlia non si incarica di prenderla e tenerla con sé.
C’erano i dischi dei Jefferson Airplane dentro. C’era “The Baron Von Talbot and The Chrome Nun”, autografato da David Frieberg, “Blows Against The Empire”, autografato da Diana Mangano.

flowers of joy

Marcello Nitti © Geophonìe

A tarda sera, rimasto finalmente solo, provo a compenetrarmi nel vuoto che avverto. Provo a immedesimarmi ancora una volta in quella musica, cerco un contatto,  invoco le stelle come tante altre volte. Sento che non funziona. A un certo punto attraverso in auto dei luoghi cari alla mia vita e mi commuovo ascoltando “Harp Tree Lament” con quella sua coralità intensa che muove alla compassione, all’umana pietà, ma nella confusione emotiva, nel dolore, non riesco a ritrovare la mia antica sintonia con quelle composizioni.
Le giornate si susseguono come i pensieri, l’auto mi conduce sulle strade quotidiane dei miei impegni lavorativi e sono di nuovo a Modena, sempre solo in quell’abitacolo, in cerca di una musica che mi aiuti a interpretare il vuoto, a esplorare gli “interminati spazi” leopardiani, l’infinito e tutto il resto.
Finalmente, in un mattino di tiepida luce invernale, nella zavorra di dischi che mi porto dietro mi viene voglia di ascoltarne uno che conosco a memoria, “Blue Bell Knoll”, il capolavoro dei Cocteau Twins.

Marcello Nitti © Geophonìe

Avverto subito una certa sintonia coi pensieri e gli umori del momento. Quando arriva, però, il terzo brano, “Carolyn’s Fingers” provo qualcosa di più intenso. I suoi ritmi gelidi e ripetitivi sembrano una rappresentazione sonora del divenire, dell’evoluzione meccanicistica di un universo in movimento, geometrie incoscienti governate da una ragione muta su cui si innesta, come una sovrumana speranza, la voce eterea e inarrivabile di Elizabeth Fraser. I suoi gorgheggi sembrano perdersi nell’infinito, si propagano nel vuoto assoluto e trasmettono quell’amore universale che solo l’essere superiore femminile può riuscire a liberare e a espandere in un cosmo indifferente.

E’ la stessa umana compassione che altri artisti hanno espresso in altre forme, ma questa volta il viaggio oltre sé stessi avviene in una dimensione diversa:
Quello dei Jefferson Starship di “Blows Against The Empire” è un viaggio di umani, un’avventura vissuta da umani vivi e vegeti che nella sublimazione della propria essenza di vita terrena riescono perfino a proiettarsi in un’esperienza ultraterrena, a vivere il viaggio cosmico come avventura;
La voce di Elizabeth Fraser, al contrario, sembra provenire da un altro mondo, un’eco lontana nella quale tuttavia riusciamo a specchiarci, quel tanto che basta per sentire che una traccia dei nostri umani sentimenti permane nel tempo e nello spazio, e in qualche modo, chissà come, talvolta si ricongiunge a noi.

La musica dei Cocteau Twins ha qualcosa di extrasensoriale, riesce a interpretare altri mondi, altri schemi, altre dimensioni. Ascoltarla, a volte, è come intravedere un futuro per i nostri sentimenti, immaginarli al di là di noi stessi e della nostra fisicità, confidare in una pur minima forma di eternità.

Sento questa canzone, ora, ogni mattina. La voce di Elizabeth Fraser che sale in quegli spazi incommensurabili, vuoti e gelidi, è la metafora dei miei pensieri che si arrampicano sin lassù, si aggrappano a un altro mondo, tengono la presa per pochi istanti, e poi tornano giù nella vita reale, nell’unica dimensione che ci è dato conoscere e a cui per ora sentiamo di appartenere. Mi sembra a volte proprio di salire nello stesso modo in cui si eleva la sua voce, come rivoli e capriole di fumo che girano su sé stesse e in modo evanescente si espandono.
Riesco ad affacciarmi in un luogo immateriale, dove non mi pare di incontrare neppure gli elementi del buio o della luce. E’ un luogo in cui, per brevi momenti, mi pare di poterle dare il buon giorno, ogni mattina, di salutarla e potervi introdurre, come un granello di sabbia, il mio amore. Lo stesso amore che mi sembra di ricevere dalla voce soprannaturale di Elizabeth, forse un segno dell’universalità dei sentimenti. Forse.
Mi affido a questa sensazione  flebile, alla vaga percezione della sua lontananza. E’ il mio modo di colmare il vuoto incolmabile per l’amore materno perduto.

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Gatta Minù (Concetta Ingrosso © Geophonìe)

Riapro le imposte, disattivo l’allarme. Illumino e arieggio le stanze.
La mia è la meno luminosa,  ma rispetto alle camere degli altri colleghi ha il pregio di affacciarsi su un cortile interno  silenzioso e rilassante.

E’ un piano rialzato, una porta-finestra mi consente di accedere al cortile scendendo due scalini. In realtà non ci vado mai, ma mi piace sapere di poterci andare.

Ogni tanto vedo passare dal centro del cortile dei gatti, qualcuno si ferma sotto l’albero di limoni che è lì al centro in un fazzoletto  di terra mal curata. Ce n’è uno, invece, che si posiziona sugli scalini e resta lì, immobile, per ore e ore. A volte volge lo sguardo nel mio studio, altre volte invece guarda il cortile.

Quando apro le imposte è quasi sempre lì. Il suo sguardo è sempre  imperscrutabile, immobile, non comunica alcuna sensazione. Eppure mi fa compagnia. Anche quando sembra un soprammobile di porcellana, freddo, inanimato.

Non mi ha mai dimostrato familiarità, anche se mi conosce benissimo. Né io ho mi sono mai adoperato per suscitarla. Nessuno potrebbe sostenere di ricevere beneficio da una presenza così indifferente. Ma a me piace così. Non gli chiedo nulla, non gli chiedo di essere diverso. Alla realtà ho imparato a contrapporre l’alternativa della mia fantasia.

 

Giuseppe Basile, 05/07/2009.
© Geophonìe. Diritti riservati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(05/07/2009)

E’ uscito “Let’s Dance”, eccola l’ombra di David Bowie.

Corriere Del Giorno (Marcello Nitti © Geophonìe)

DISCHINOVITA’
Un album fallimento.

E’ uscito “Let’s Dance”, eccola l’ombra di David Bowie.

Il 12 aprile scorso è apparso in contemporanea in diversi paesi il nuovo album di David Bowie dal titolo “Let’s Dance” . Tutti i timori e le paure dei fans purtroppo hanno avuto ragione sull’ottimismo. La delusione è stata enorme. Cerchiamo di esaminare brevemente il lavoro di questo artista ormai pago, e spendiamo qualche parola sugli uomini che lo hanno accompagnato nelle registrazioni.

Questa volta Bowie si è fatto aiutare da Nile Rodgers, l’inventore degli “Chic” vale  dire disco-music per eccellenza. La produzione è quanto di più disumano possa esistere, e lo studio di musicisti che lo accompagna è composto soltanto da bravi artigiani senza creatività.

Al fiasco dell’album ha forse contribuito perversamente il cambio di casa discografica che Bowie ha operato l’anno scorso abbandonando la Rca e accettando l’offerta di 17 miliardi di lire della Emi. Probabilmente l’urgenza di recuperare almeno un’aliquota del denaro investito ha suggerito alla Emi di pretendere da Bowie un prodotto molto commerciale che mirasse al mercato americano.

La registrazione è perfetta, ma slitta in una monotonia spaventosa. Le prime delusioni sono sopraggiunte con il singolo pubblicato a febbraio (appunto “Let’s dance”) riportato poi fedelmente nell’album, e inoltre da una nuova versioe di “Cat people” di Giorgio Moroder qui riletta e riarrangiata in chiave blues funk.

Altri due colpi bassi vengono dal remake di “Criminal World”, brano senza infamia dei “Metro”, gruppo ormai spento (datato 1977), e da “China Girl”, stupendo pezzo composto da Bowie e Iggy Pop peraltro già contenuto nell’album dell’ex “Stooges” “The Idiot”.

La nuova versione di Bowie a parte la sua voce è senza grinta.

E con questo abbiamo praticamente esaurito metà album. I brani che rimangono, “Sheke it” (ridicolo) e “Ricochet” (palloso) sono da dimenticare. Restano ancora “Without You”, un brano lento e senza mordente, e la stupefacente “Modern Love” dove possiamo ascoltare finalmente qualcosa di degno. “Modern Love” è David Bowie al 100%, struttura alla Ziggy Stardust e voce da padreterno.

Forse questo “Let’s Dance” è la prima battuta d’arresto. D’altronde brani come “Ashes to Ashes”, “Heroes”, “Boys keep swinging” e molti altri, sono difficile da scordare.

C’è da dire infine che, mezzi a disposizione, Bowie potrà essere goduto dal vivo considerato che tra i suoi incontabili impegni soprattutto cinematografici si esibirà in concerto il 19 maggio a Bruxelles; il 20 a Frankfurt; il 21 a Monaco; il 24 a Lione; il 26 a Frejus-Saint Tropez; il 29 a Nantes; 2,3 e 4 giugno a Londra – Wembley; il 5 e 6 a Birmingham; l’8 a Parigi; 14 e 15 a Essen (Germania); il 7 a Bad Segerberger; il 20 giugno a Berlino Ovest.

Marcello Nitti

11. Castello Aragonese. Era moderna

Vinicio Capossela, Le radici del Florìda

Vinicio Capossela (01.06.22, Modena, Teatro Comunale Pavarotti) G.Basile © Geophonìe

Modena, 01.06.2022, Teatro Comunale Pavarotti

Ciascuno di noi ha delle radici, quelle che ci determinano, che ci condizionano, che costruiscono l’approccio al mondo  con cui elaboriamo le nostre visioni.

Quando si ascolta Vinicio Capossela, però, e soprattutto si pone attenzione ai suoi testi, quelle liriche ci risultano talmente piene di immagini, personaggi, luoghi e suggestioni che è difficile individuare le sue: “I suoni fanno da sfondo ad un mondo immaginario. Un mondo pieno di guai, affollato di guitti stralunati, strade chiassose e vecchie macchine”.  E’ una musica, la sua, che richiama echi di jazz, di Sudamerica, di melodia tradizionale italiana del secolo scorso, ma anche di musica etnica, in una contaminazione imprevedibile di profumi di Mediterraneo e di Messico, di Cile, di blues teatrale.

 

Flacoleo Maldonado “Flaco” e Vinicio Capossela (Modena, 1.6.22, Teatro Pavarotti) G.Basile © Geophonìe

 

E’ difficile collocare Vinicio in uno scenario musicale specifico, e la sua storia biografica personale talvolta neppure aiuta.  Il 1° giugno 2022, però, nel concerto al Teatro Pavarotti di Modena Vinicio ha festeggiato i suoi trent’anni di carriera (trentadue, per la precisione) davanti a una folla di appassionati e amici (tanti) accorsi a salutarlo e con i quali si è magicamente manifestata quell’atmosfera di familiarità, di affetto e condivisione che ha mostrato a chi ne era estraneo le radici di questo cantautore particolare, apparentemente estroverso e gioviale, ma anche misterioso, tenebroso e criptico, tante sono le sfaccettature che la sua musica e i suoi testi offrono.

Vinicio Capossela e Antonio Marangolo (G.Basile © Geophonìe)

Una musica e un linguaggio complesso, quello di Capossela, talmente denso e ricco di storie, significati, suggestioni, che in questo caleidoscopio si fatica a trovare lui, la sua anima, l’interiorità che si nasconde dietro quei sorrisi goliardici e quelle oscurità notturne che lui espone con un pathos tutto suo, che fa emozionare, commuovere, ma che poi inaspettatamente vira verso una gioiosa socialità fatta anche di storie raccontate, di aneddoti, di presenze o assenze di amici evocati o convocati all’improvviso sul palco, per bere un bicchiere di vino, recitare una poesia, cantare senza regole come in un’osteria.

Vinicio Capossela (Modena, 01.06.22, Teatro Pavarotti) (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto di Modena, nonostante la sfuggente natura di Vinicio, però, è tutto per la città attorno alla quale ha gravitato per anni incrociando i suoi destini con anime elette che lui porta con sè e che stasera esplicitamente celebra. Con lui c’è Antonio Marangolo al Sax, un monumento della storia musicale italiana, di questa musica, quella che dall’Emilia e dal Piemonte ha generato la miscela di jazz, di tropicalismi, di atmosfere cantautorali tipicamente italiane  e cariche di contaminazioni con cui Paolo Conte ha descritto  “un mondo adulto”, quello in cui “si sbagliava da professionisti”, ma c’è anche Enrico Lazzarini al contrabbasso, che durante la serata cede il posto ad un ospite, Glauco Zuppiroli, modenese, uno degli iniziatori assoluti del percorso artistico di Vinicio.

Da sin. Glauco Zuppiroli, Alberto Nerazzini, Flaco e Vinicio Capossela (Modena, 01.06.22, Teatro Pavarotti. – Giuseppe Basile © Geophonìe)

I fidati Zeno De Rossi alla batteria e Giancarlo Bianchetti alla chitarra compongono l’ensamble centrale del concerto che spazia fra tutti i classici del repertorio, tutti brani che il pubblico modenese segue con attenzione perchè conosce perfettamente.

Molti racconti sul Florìda, sulla Stazione Piccola, sui girovaghi notturni di una Modena  diversa da quella che conosciamo si susseguono, sul palco Vinicio si muove come un gran cerimoniere: all’improvviso invita un anziano signore, a suonare e cantare con lui, si chiama Flacoleo Maldonado, detto Flaco, un fondatore del Florìda e un decisivo importatore di ritmi e parole sudamericane, un profugo, un intellettuale, un bevitore.

Si parla, si suona e si canta, anche quando sul palco si aggiunge Alberto Nerazzini, giornalista che spazia tra testi, poesie e ricordi di una modenesità di nicchia, quella legata a un Florìda ove si parlava di Cile, di dittature, di donne e di ritmi da ballo fuori moda, di un altro mondo.

I brani del suo disco d’esordio, “All’una e trentacinque circa” vengono eseguiti quasi tutti, l’omonimo brano viene ripetuto anche come bis, ma il concerto regala anche  “Che coss’è l’amor”, “Non è l’amore che va via”, “Tornando a casa” , “Il mio amico ingrato”“La regina del Florida”, “Ultimo amore” , “Camminante”. Serata modenese, serata mistica in cui la musica di Vinicio e un pubblico competente e appassionato svelano un magico senso di reciproca appartenenza.

Giuseppe Basile © Geophonìe
(06.09.2022)

 

 

 

 

Il culto dei “Cult”

“Sanctuary Of Love”  è il nome della tribute band italiana dei Cult.
Al Beer Garden di Cotignola (Ravenna) il prossimo 17 settembre.

 

Tony D’Amato con Steve Brown. produttore di The Cult (Antonio D’Amato © Geophonìe)

…. “La nostra band è nata in tempi recenti, nel 2018 per amicizia e per la voglia di stare insieme sul palco” – ci racconta con emozione Tony – “con l’idea di rivivere in chiave attuale il sogno di rendere tributo ai The Cult”.

Si tratta in realtà di un sogno già vissuto sin dal 1986 quando Alberto (Voce) e Tony (Lead Guitar) fondarono a Mestre gli Straightway, una garage band gothic rock, una delle tante che nacquero in quegli anni ricchi e intensi di sperimentazione, affascinati dal desiderio di riprodurre la musica del LOVE album di Astbury e Duffy, masterpiece prodotto dal mitico Steve Brown.  Quello fu il loro primo repertorio che includeva pure alcuni brani inediti e qualche cover di Cure, Alarm e U2.

Alberto Corradini e Tony D’Amato (Antonio D’Amato © Geophonìe)

I  Sanctuary of Love risiedono tutti in provincia di Venezia esibendosi nei locali e Live Club che abitualmente amano accogliere la musica gothic rock, ben lieti di proporre anche band definite più di nicchia. Oltre ad Alberto Corradini (voce) e Antonio “Tony” D’Amato (Lead Guitar), la band è composta da musicisti di lunga esperienza, molto noti nel panorama punk, rock e metal del Veneto, come i fratelli Mattia e Marco Manente, rispettivamente bassista e chitarrista, e Andrea “Cipo” Goatin alla batteria.

“Il logo creato per identificare la band è  significativo” – dice Tony –  “poiché rappresenta in primo piano il carattere “gothic” più cupo utilizzato nell’album “Love” intersecato con lo sfondo hard rock di “Electric”fondendo così le due anime musicali dei Cult”.

Fu proprio Steve Brown, colosso della produzione musicale Londinese (produttore anche di Freddy Mercury, Wham, Alison Moyet, e molti altri), ad assumere inaspettatamente un ruolo fondamentale nel confermare i Sanctuary of Love come riferimento per i fans dei Cult nel nord est.

“Ci piace eseguire i brani del nostro repertorio” –  ci racconta Tony – “rispettando le esecuzioni originali e il sound live attuale che i Cult continuano ad offrire nei recenti tour “Electric 13“, “Alive in the Hidden City” e “The Year of A Sonic Temple, 30th Anniversary”.

 

(Antonio D’Amato © Geophonìe)

Dal nome della band è evidente che il sound dell’album “Love” faccia ormai parte del DNA della tribute veneziana mentre “canta di lupi e deserti, di piogge liberatorie, di uomini-ombra e di sacerdotesse del sesso, di visioni mistiche e mitiche fenici” (Breus 2007).

“Nirvana” travolge con la sua dinamica gothic rock dal basso ficcante, “Rain” ci invita a danzare intorno al fuoco invocando la pioggia e “She Sells Sanctuary”, il brano in assoluto più famoso dei Cult, rappresenta la donna che concede il suo grembo, appunto il suo “Santuario” dove “dentro di lei troverò il mio santuario mentre il mondo mi trascina giù”.

 

Tony D’Amato (Antonio D’Amato © Geophonìe)

I Sanctuary of Love partecipano attivamente alle iniziative del fan club internazionale THE CULT FAMILY, a volte anche Insieme ad altri musicisti “guests”, veri devoti dei Cult. Qualche anno fa i Sanctuary hanno suonato allo storico club “Black Star” di Ferrara in occasione della prima convention The Cult in Italia, proprio di fronte all’amico Steve Brown con la benedizione via social da parte di Billy Duffy che per l’occasione inviò un video di auguri a tutta la Cult Family.  “Fu la conferma che il nostro destino sarebbe stato ancora più legato ai Cult”, – ci scrive Alberto, front man e voce dei Sanctuary – “diventando amici di colui che creò e produsse il sound anni ‘80 dei Cult dove per noi tutto ebbe magicamente inizio”.

Alberto Corradini (Antonio D’Amato © Geophonìe)

“Parlai del Medimex proprio con Steve Brown” – ci confida Tony – “e non avrebbe avuto difficoltà a parteciparvi in futuro”. Purtroppo, un male improvviso se lo è portato via a gennaio 2021 lasciando in eredità ai Sanctuary la ferma volontà di proseguire con la loro tribute band, anche per onorare l’amico Steve.

Tony, che ricopre il ruolo di “Billy Duffy” nella band, segue abitualmente i Cult in giro per l’Europa, e spesso ha avuto occasione di incontrare i membri della band prima dei loro concerti. “Sono amico di John Tempesta, il batterista attuale dei Cult” –  continua Tony – “con il quale sono spesso in contatto: ci si vede sempre prima dell’inizio di un loro concerto. John è un batterista talentuoso, pur rimanendo una persona semplice sempre disponibile con tutti…. Il sangue italiano non mente!”.

Una simpatica coincidenza, Tony, con il nickname Instagram “tonythecult”, ama fotografare la band dei Cult ad ogni concerto e alcune sue foto sono state scelte proprio da Billy Duffy e da Mick Peek (fotografo ufficiale dei Cult) per rappresentare nella pagina web ufficiale di Billy, le immagini del tour “Hidden City”, https://www.billyduffy.com/news/more-alive-in-the-hidden-city/

Un curioso aneddoto: Tony nel 1986 si vestì esattamente come Billy Duffy nel video di “She Sells Sanctuary” per un servizio fotografico. “Mostrai a Billy Duffy questa foto in bianco e nero di me adolescente prima di un recente concerto e Billy mi chiese di poterla autografare.

Ovviamente risposi che sarebbe stato un onore! Immaginate la mia emozione quando Billy mi guardò negli occhi e poco dopo autografò la foto con dedica scrivendo “Almost… Billy Duffy”. Si tratta in fondo di amicizia, pace e amore ….. “Love Obviously, very soon, everybody”.

Giuseppe Basile © Geophonìe
(06.09.2022)

 

PINDHAR: Live in Taranto, 23.10.2021, SpazioPorto

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Il duo milanese a Taranto, allo Spazioporto, esegue dal vivo il proprio disco del 2021, “Parallel”.

23 ottobre 2021. Una serata tiepida autunnale di fine Ottobre accoglie i Pinhdar a Taranto nel nuovissimo “Spazioporto”. Prima di entrare è possibile scambiare opinioni sulla band milanese che ha all’attivo due album, e questa sera l’aspettativa è  quella di di poter apprezzare i loro nuovi brani in versioni dal vivo.

I Pinhdar sono Cecilia (voce e sentimento) e Max (chitarra e tastiere), si esibiscono con l’aiuto di Alessandro Baris alla batteria.

L’attesa è piacevole grazie alla comoda sistemazione dei posti a sedere. Personalmente attendevo con interesse questo concerto per ascoltare dal vivo una band italiana che a mio parere ha realizzato uno dei migliori album (Parallel) in Italia del 2021.

Le aspettative erano concrete per via delle eteree e sognanti atmosfere delle composizioni di Parallel, pubblicato dalla britannica “Fruits De Mer”,  co-prodotto insieme ad  Howie B (Howard Bernstein), stimatissimo produttore (fra l’altro anche di  Siouxsie and the Banshees).

“Corri” e “Parallel” sono già di per sè bellissime, ma dal vivo si animano con passione, grazie alla grande bravura al canto di Cecilia e al mosaico chitarristico di Max.

 

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Attraverso le loro composizioni, che inducono a cambi di umore in ascensione,  i Pinhdar riescono a suggestionare e  creare mondi armoniosi.

Nel cuore del concerto si assiste a un meraviglioso inseguirsi di voci e suoni che rendono avvincente la scena, creando un pathos di grande intensità.

Una conferma auspicata, quella dei Pinhdar, che hanno potuto dimostrare grande padronanza di esecuzione e di magica tensione emotiva. Il concerto si sviluppa intorno al loro secondo album Parallel:  la performance è fantastica e ben apprezzata dal pubblico che segue con attenzione, per poi applaudire con grande sostegno ogni brano.

 

 

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Il concerto si chiude con due brani che concludono una serata speciale dimostrative della caratura internazionale della band milanese che con originalità e talento ha proposto la propria arte musicale con grande maestria.

Le ricerche sonore e vocali dei Pinhdar derivano da profonde radici che toccano anime sensibili e  cuori gentili.

I Pinhdar sono una realtà che con il loro album Parallel si affermano come una band di grande spessore emotivo.

Il loro concerto è stato la celebrazione delle loro emozioni.

Insieme sicuramente al loro prossimo concerto.

 

Marcello Nitti © Geophonìe
Foto: Franzi Baroni

 

Va tutto bene stanotte. Sul piatto che Mr. Bowie

E’ uscito “Tonight”. Lui ha lasciato la Rca per un affare da 14 milioni di dollari.

A trentasette anni suonati Mr. David Bowie ritorna al pubblico internazionale con il nuovo lavoro dal titolo “Tonight”. Dopo un periodo di silenzio discografico dell’81 e dell’82, Bowie abbandona la Rca per firmare un contratto di 14 milioni di dollari con la Emi per tre albums.

“Let’s Dance” dell’83 indusse Dav id Bowie ad approntare una grande tournee mondiale sino ad arrivare in Nuova Zelanda e a Hong-Kong, dove ci furono in quattro serate ben 800.000 spettatori.  Non si era sforzato granchè per le composizioni di “Let’s Dance”, visto che conteneva due brani datati e una  “cover” dei Metro,  “Criminal World” e non si è sforzato nemmeno col nuovo “Tonight” visto che il suo brano omonimo è una sua composizione del 77, allora cantata da Iggy Pop.

Troviamo anche “Neighborhood Threat” sempre del 77, “Don’t Look  down” dell’80 e due “cover”.  La prima dei Beach Boys, “God Only Knows”, e la seconda del famoso duo di autori per Elvis Preslet e Tom Jones degli anni sessanta Jerry Leiber e Mike Stoller, dal titolo “I keep forgettin”.

Ma veniamo alla fattura del disco: “Bowie ancora una volta ha voluto i fiati e in più arrangiamenti per orchestra grazie ad Arif Mardin. Il suo fido Carlos Alomar alla chitarra. Viene fuori un disco per molti gusti, Bowie spazia, si avvicina al reggae con “Tonight”, dove duetta con la voce di Tina Turner: “Andrà tutto bene stanotte / Nessuno si muove / Nessuno parla / Nessuno pensa /Nessuno cammina stanotte, stanotte (da “Tonight”).

Poi  ammicca ancora in un brano sinfonico con Carlos Alomar in bella evidenza, “Loving The Alien” : “Pensando ad un diverso periodo / Palestina: un problema moderno / generosità è il tuo problema in terra / terrore in un piano ben disposto (da “Loving the Alien”).

I momenti migliori li troviamo in “Dancing with the big boys”, ritmata e metropolitana, con la seconda voce di Iggy Pop in “Tumble and Twirl” accarezzata da ricordi estivi trascorsi in riva al mare tra amache e noci di cocco e “Blue Jean” accompagnato da un video di 22 minuti diretto da un mostro sacro del genere: Julian Temple, e presentato in anteprima alla Biennale Cinema di Venezia. “Guarda fuori al mondo che conosci / io ho il mio / lei ha radici latine / lei ha tutto (da “Blue jean”).

Ma il brano più bello e più trascinante è senza dubbio “Neighborhood Threat”, che eccita ed esalta come ai tempi di “Ziggy Stardust”. “Se non puoi aiutarlo / non lo può fare nessuno / Ora che sa che non c’è nulla da avere / scommetterai ancora sulla / minaccia del vicinato” (da “Neighborhood Threat”).

Ogni nuovo album di David Bowie suscita sempre passione e amore e naturalmente troverà tutti i suoi fedeli ascoltatori dalla sua parte. Ma forse è meglio dire soltanto: “Tonight” è il nuovo album di Mr David Jones, in arte David Bowie.

Marcello Nitti © Geophonìe
Corriere Del Giorno

02.04.1983 Caro Mister Massarini, hai perduto la fantasy?

Marcello Nitti © Geophonìe. 02.04.1983, Corriere Del Giorno

Di scadente qualità la trasmissione musicle della Rete 1.
Novità discografiche ignorate, concerti maltrattati. Che cosa è accaduto dopo l’esplosione punk.

Due note. La prima: attualmente stiamo attraversando un lungo periodo di confusione. Molti gruppi sono nati dopo l’esplosione Punk, che avvenne nell’ormai mitico biennio 76-77. Di conseguenza vari stili sono andati miscelandosi, dando forma a una serie di collaborazioni di breve durata.

Più di una volta la stampa britannica ha riportato nelle sue colonne notizie di nascita di estrosi gruppi – vuoi in stile western, vuoi in stile pirata, macho, africano – cose che oggi non fanno più sensazione.

Una collaborazione senza una precisa immagine scenica è quella che hanno effettuato, da circa un anno, l’ex bassista della “Gang Of Four” e l’ex tastierista degli “XTC”.

Il nome che si sono dati è “Shrieback” ed il loro primo risultato è l’album “Cave” (edito dalla “Y Records”). Fusioni ritmiche corpose, cesellate benissimo da Dave Allen (basso) e intessute da Barry Andrews (tastiere). Vi ricordo che l’Andrews, dopo essere stato alla corte di Robert Fripp, continua a lavorare con molto gusto.

La seconda nota la dedico a “Mister Fantasy”, trasmissione di Stato che sta scadendo di qualità. Non c’è dubbio: “Mister Fantasy”, per ovvi motivi di mercato, ci propone sempre gli stessi video e/o angoli tappabuchi come le “video-lettere”.

Chiediamo: più notizie riguardanti le novità discografiche internazionali e filmati sui concerti di buona fattura che si svolgono in Italia, con relative interviste.

Nell’ultimo anno in Italia si sono esibiti i “Virgin Prunes”, i “Simple Minds”, gli “Ultravox”, gli “XTC”, i “Bootown Rats”, “Siouxsie and the Banshees”, “Dead Kennedy’s”, “Bauhaus”, “New Order”, “Echo and The Bunnymen” e altri ancora, i quali puntualmente non hanno trovato spazio nella trasmissione del caro “capello scolpito”.

Marcello Nitti © Geophonìe
02.04.1983, Corriere Del Giorno

10.10.1984. Un disco al giorno. I sogni dei Prefab Sprout.

Marcello Nitti © Geophonìe.  10.10.1984, Corriere Del Giorno

 

Dicono bene i New Order che “i sogni non finiscono mai”;  infatti non c’è niente di più azzeccato nel definire l’esordio dei “Prefab Sprout” un vero e proprio collage di sogni.

“Swoon” è il titolo dell’ultimo disco.

I fratelli Paddy e Martin McAloon insieme alla dolcissima voce di Wendy Smith formano il trio, e il loro nome, “Prefab Sprout”, così simpatico e buffo, ha più il sapore di uno di quei prodotti da cucina americani che non il nome di una band inglese, capace di una musica acustica, ricca di variazioni e deliziosamente notturna.

Dicevo che “Swoon” è il loro album, e oltre ai nostri tre amici c’è anche Graham Lant alla batteria che percorre tutti i brani con un tocco magico, caricandoli di swing, così presente ovunque. Le undici composizioni sono di una bellezza unica e a mio avviso ci troviamo di fronte ad uno dei migliori album del 1984: provate ad ascoltare “Couldn’t bear to be special”, così leggera e soave che ti sembra di essere a bordo di una nuvola ad osservare i tuoi amici rimasti a bocca aperta, e poi ancora “Cue fanfare” e “Here on the eerie” rifinite da chitarre acustiche e tastiere da sembrare amorevolmente un prodotto di alta oreficeria.

“Ghost town blues” invece ti porta in un bar fumoso pieno di gente con tanta voglia di raccontare ciò che non hanno mai fatto e quel pianista che danza sui tasti del suo strumento ci strizza l’occhio con un sorriso pieno di felice rassegnazione. Quello che fanno grandi i “Prefab Sprout” è la loro maniera di cantare, le loro melodie sono frastagliatissime, la loro voce di Wendy Smith si colora di tinte senza nome, e l’uso che ne viene fatto in “Don’t sing” e in “Elegance” ne è una prova convincente.

Paddy McAloon che è il masimo autore dei brani di “Swoon”, è anche la voce principale, molto originale e molto confidenziale, e l’esibizione “Technique” e in “I never play basketball now” dovrebbe convincere i più scettici. In finale le più belle composizioni dell’intera raccolta, “Cruel” e “Green Isaac I “ e “II”, dove sono fuse tutte le qualità dei “Prefab Sprout”, la giusta dolcezza che accarezza una nuda spalla femminile addormentata di fronte alle stelle chiacchierone.

Marcello Nitti © Geophonìe
10.10.1984, Corriere Del Giorno

18.05.1985. Il gruppo rock inglese al palazzetto del Tursport

Stasera The Sound. Ecco il loro ultimo ellepì.

“Heads And Hearts” dovrebbe essere il disco della definitiva affermazione del gruppo inglese. Borland & soci stanno insieme da quattro anni e nonostante siano riusciti a destare l’interesse della critica e degli addetti ai lavori non hanno ancora conquistato il consenso popolare che è in definitiva la molla per fare di più col futuro lavoro.

Non è la prima volta che un gruppo inglese non riesce a vendere dischi nella propria terra: vale per tutti l’esempio dei Genesis, che all’inizio della loro carriera venivano ignorati anche dalla critica inglese mentre avevano conquistato la fiducia di quella italiana e di quella continentale e soprattutto vendevano dischi con facilità.

La tournèe  che The Sound stanno tenendo in questi  giorni in Italia potrebbe far scattare quel meccanismo sufficiente a far entrare nelle classifiche l’album “Heads And Hearts”, il primo vero a lunga durata dopo “Jepoardy” dell’80,”From The Lions’ Mouth” dell’anno dopo, “All Fall Down” dell’82 e “Shock Of Daylight”, il primo inciso per la Statik del gruppo Virgin.

“Heads And Hearts” comprende undici brani, tutti con idee abbastanza originali e con il rock a comune denominatore. L’iniziale “Whirlpool” è in un certo senso il biglietto da visita dell’album con un ritmo trascinante basato su una frase ritmica che rimane ben impressa (si badi bene che però sfiora soltanto l’orecchiabilità); la successiva  “Total recall” è invece costituita su un efficace giro di basso con chitarra acustica e tastiere che completano l’atmosfera su cui si erge la voce solista di Adrian Borland. “Under You” iniziò con un fraseggio fra il basso di Graham Bailey e la batteria di Mike Dudley in cui si inserisce anche la chitarra e ad un certo punto appare il sax dell’ospite Jan Nelson; forse un tantino anonima è “Burning part of me” pervasa dalle tastiere di Colvin Mayers e sottolineata in maniera egregia dalla voce di Borland. La facciata si chiude con “Love is not a ghost” che più di tutte le altre si avvicina al repertorio dei leggendari Doors di Jim Morrison per la sua staticità esecutiva.

Gira il disco e “Wildest dreams” si snoda su un tessuto ritmico eccezionale con la chitarra di Borland ad avventurarsi in un assolo per poi intgrarsi con il resto della strumentazione. E’ la volta di “One Thousand Reasons” che dopo un inizio decadente si snoda in un incedere epico. Davvero stimolante è “Restless Time”, uno degli episodi più effervescenti della facciata con un ritmo sostenuto fino alla fine. Più pacato è invece “Mining  For Heart” che riesce a creare un’ atmosfera ostinata (in bella evidenza il basso e il tessuto delle tastiere). “World As It Is” colpisce per il nervoso incedere rock e nella sua relativa brevità ha un sapiente punto di forza; chiude questa seconda facciata “Temperature Drop” che nel nuovo rock proposto dai quttro Sound è forse il compendio più geniale.

Dopo l’ascolto di questo disco l’attesa per il concerto tarantino del Tursport è davvero notevole e sicuramente non rimarranno delusi quanti si aspettano da questo gruppo  quegli stimoli sufficienti per continuare a sperare in un microcosmo musicale più creativo

Franco Gigante
18.05.1985, Corriere Del Giorno

 

Tempo pugliese per Psychedelic Furs

Tempo pugliese per Psychedelic Furs

Anche i Psychedelic Furs sono approdati in terra pugliese, effettuando un impeccabile concerto nel campo comunale di Triggiano (Bari).

Il gruppo dei fratelli Butler era atteso con impazienza visto il constante aumento degli affezionati del gruppo e delle critiche quasi sempre positive che la stampa mondiale ha sempre loro riservato.

Lo spettacolo è stato un compendio della loro carriera, da “Low My Way”, tratto dall’album “Forever Now” passando a “Pretty in Pink”, “Sister Europe”, “President Gas”, “Heaven”, “Imitation of Christ” e concludendo con “Into you like a Train” e “India”. In sintesi hanno eseguito sedici brani comprendendo “Angels”, un inedito, e raccogliendo consensi da parte del pubblico presente. Richard Butler era accompagnato dal fratello Tim al basso da John Ashton alla chitarra e da altri quattro amici che suonavano rispettivamente le tastiere, la batteria, la seconda chitarra e i fiati.

Un concerto di buona musica rock, dove l’attenzioe era tutta rivolta verso Richard che con la sua roca voce ha dato un timbro inconfondibile al sound dei Psychedelic Furs.

Questo tour italiano ha permesso ai P.F. di promuovere il loro ultimo album “Mirror Moves” che esce a quasi due anni di distanza dall’eccellente “Forever Now” e di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. Dopo un attento ascolto di “Mirror Moves”, almeno due brani colpiscono per immediatezza e calore, mi riferisco a “The ghost in you” e ad “Heaven”, brani tipici dei fratelli Butler, che oramai hanno raggiunto un alto livello compositivo.

Proseguendo c’è “My Time” che racchiude atmosfere eteree, dominate da un ingresso e un tappeto di tastiere, poi ancora la dura “Heartbeat”, pubblicata in versione “extended” e che ha fatto il giro delle discoteche, forse il brano meno tipico del gruppo. Con “Alice’s House”, “Like A Stranger” e “High Wire Days”, Richard Butler canta con rauca passione e ci rimanda a quei giorni che hanno preceduto dei momenti di crisi, quei giorni che sono venuti come una fune messa lì per aiutarti a salire su per la collina ad abbracciare il sole …

Marcello Nitti © Geophonìe

10. Castello Aragonese. Era antica.

Le rimembranze di The The e la pace di Weller

Questa volta si parla di sue singoli a confronto, sempre nella versione E.P., e precisamente dei nuovi brani di Matt Johnson (alias The The),  e di Paul Weller (ex Jam) e Mick Talbot come “The Style Council”. C’è subito da dire che “This is the day” di The The e “Long Hot Summer” dei Style Council sono forse i prototipi della musica del prossimo anno.

Matt Johnson lo conosciamo bene per aver precedentemente pubblicato “Uncertain Smile” e “Perfect”, dove i suoi brani con quella melodia frastagliata e accattivante hanno subito creato uno stile inconfrontabile. Nel suo nuovo singolo “This Is The Day” Matt Johnson ci propone una pop-song dal sapore dolce e romantico. Lunghe passeggiate e momenti di riflessione: sono i ricordi che affiorano all’ascolto, e la canzone scivola via. L’incedere ovattato della batteria rende ancora più gradevole e luminoso il sound.

D’altra parte, Paul Weller e Mick Talbot hanno confezionato un E.P. (“Long Hot Summer”) che arriva diritto al cuore, bisognerebbe farlo ascoltare al tavolo “russo-americano” di Ginevra per il disarmo nucleare, sarebbe senza dubbio molto convincente. Atmosfere di pace e di benessere, i pori della pelle si aprono, sembra veramente l’estate più calda, siamo tutti innamorati.

In verità è successo tutto molto presto Paul, non credevamo che con i “Style Council” avresti sbalordito come già con i tuoi Jam (ricordi?). Adesso da te pretendiamo tutto, tu ci hai sempre viziati con il tuo buong gusto, e buona parte dei prossimi mutamenti musicali ti vedranno protagonista.

A mio parere con “Long Hot Summer” ci hai regalato qualcosa di più di una canzone.

Marcello Nitti © Geophonìe
Corriere del Giorno

19.06.1982. I New Order al Tursport

I New Order al Tursport
Sabato il concerto

Un altro spettacolare appuntamento con la musica rock al Tursport. Sabato 19 giugno saranno di scena i “New Order”  in concerto. E’ sicuramente il gruppo rock attualmente più amato e più seguito dai giovani appassionati a questo genere musicale.

I New Order possono essere meglio ricordati come “Joy Division”, era questo il nome del complesso fino a due anni fa.

Dopo i Bauhaus, i New Order sono il secondo gruppo di fama mondiale a scendere qui a Taranto. E proprio a seguito del successo musicale e di incassi riscosso in quell’occasione si prevede, con la serata di sabato 19 giugno, un secondo “pienone” nel palazzetto del  Tursport.

Anche i  New Order sono messaggeri di un tipo di rock piuttosto tagliente ma che suscita allo stesso tempo emozioni indimenticabili con una scenografia senza precedenti. Con il concerto di Taranto saranno in Italia per la prima volta. Già da numerosi centri della Puglia sono pervenute massicce prenotazioni da parte di giovani interessati ad un appuntamento musicale senza precedenti e di portata davvero mondiale. Lo spettacolo avrà inizio alle ore 22.

Marcello Nitti © Geophonìe
15.06.1982, Corriere Del Giorno

9. Casematte e fortificazioni

19.04.1985. The Cult. Il post punk a Taranto

 

Venerdì 19 al Tursport 
In città un solo punto di prevendita

I Cult sono probabilmente insieme ai Sister Of Mercy i più degni rappresentanti del post-punk di terza generazione. Si formano nell’82 dopo lo scioglimento dei Southern Death Cult, una “cult band” proveniente dai sobborghi londinesi e destinata a una fine precoce per divergenze tra i componenti.

La figura di spicco dei S.D.C., e cioè il cantante Ian Astbury, riunisce subito intorno a sé altri protagonisti della scena musicale londinese: Bill Duffy (già chitarrista dei Theatre of Hate), Ray Mondo e Jamie Stewart rispettivamente batterista e bassista dei Ritual, e insieme formano i Death Cult. Dopo la pubblicazione del primo singolo, “Brothers Grimm”, i kids inglesi li riconoscono leader incontestabili, insieme a Sex Gang Children e A Sister Of Mercy, del post punl più valido.

Dopo pochi mesi Ray Mondo abbandona il gruppo e Ian commentando questo episodio ammette l’influenza di Ray su certe soluzioni sonore giudicate troppo dark dalla stessa band.

Ray è subito rimpiazzato da Nigel Preston (batterista nei  Sex Gang  Children e nei Theatre Of Hate) che con Jamie forma la sezione ritmica più compatta ed affiatata mai sentita. Infatti “God’s Zoo”, secondo singolo del gruppo scala rapidamente le charts inglesi grazie all’equilibrio creato tra ritmo ed intuizione compositiva. Dopo aver cambiato il nome in quello definitivo di “Cult” e dopo numerose tournèe in UK decidono di proporsi per un tour mondiale che li vede impegnati al “Danceteria” di New York dopo aver toccato tutte le capitali europee della musica, riscuotendo un enorme successo.

Nell’aprile 84 incidono il loro primo album “Dreamtime” preceduto di poco da un singolo di successo, “Go West”. Dreamtime è l’opera più completa del gruppo il quale si appropria con questo album di una immagine e di un ruolo ben definito nell’ambito della new wave inglese: non più soluzioni dark, ma ritmi potenti sostenuti dai fraseggi felici della chitarra di Billy Duffy. Ma l’elemento coesivo dell’architettura sonora è la voce possente e molto particolare di Ian che unita alla sua presenza scenica molto ricercata rende le esibizioni dal vivo delle impeccabili performance.

Ciò che contribuisce ad aumentare vorticosamente le richieste per il gruppo che ha tutti i requisiti ormai per diventare mito. Dopo aver piazzato un altro singolo in classifica, “Spiritwalker”, i Cult suonano sempre più spesso nei templi del rock di Londra fino a che registrano un video-live di una loro esibizione al Lyceum che cattura in parte la bravura e il feeling del gruppo. Ultimo singolo a piazzarsi in classifica è “Resurrection Joe”, vero e proprio hit dei dancefloor di tendenza.

La tournèe italiana, che toccherà Taranto venerdì 19 al Tursport, è l’occasione definitiva per non perderci una delle più eccitanti performance live che si possano vedere nel panorama della new wave. Prevendita presso Best Record, Via Pupino, 19.

Discografia: Death Cult – Brothers Grimm 12” ; – Death Cult – God’s Zoo12” ; The Cult – Go West 12” ; The Cult – Dreamtime (2 Lp, Studio + Live); The Cult – Spiritwalker 12” ; The Cult – Resurrection Joe 12” .

Marcello Nitti © Geophonìe
16.04.1985, Corriere Del Giorno

8. Cantieri Navali F.Tosi

THE HUNT SALES’ LUST FOR LIFE, AFTER IGGY POP, DAVID BOWIE AND TIN MACHINE

4th January 2022
A chat with Hunt Sales, the famous evolutionary rock drummer of the late 1970s in America. He collaborated for years with Iggy Pop and David Bowie. It was his overwhelming drums of “Lust for Life”, the song that gave the title to the epic album by Iggy Pop in 1977. In Italy we could see him live only in October 1991 with David Bowie and Tin Machine at the Brancaccio Theater in Rome.

In 2019 an American label called Big Legal Mess / Fat Possum Records released an unexpected record product. It is a solo work made by a long-time musician, but who only in old age decided to build an artistic “debut” in his own name. We are talking about Hunt Sales, an American drummer with an amazing curriculum behind him, from rock’n’roll to blues, to jazz dixieland, and who has ranged throughout the great American music, always alongside absolute stars.

In Italy we knew him because of his disruptive drums that accompanied Iggy Pop in that moment of transformation, so evolutionary, of the second half of the 70s. Hunt Sales was with Bowie in the Berlin phase of the trilogy, but we Italians saw him for the first time only in 1991 at the Brancaccio Theater in Rome for two unrepeatable evenings, on the Tin Machine drums, and we had the opportunity to understand how Hunt Sales was an avant-garde drummer, even when he played an almost ‘retro’ genre: it was actually a retro suitably reworked, as Tin Machine did in those two incredible records of the early 90s, courageously producing a music totally contrary to what the new winds of Brit-pop were spreading.

This solo production by Hunt Sales therefore struck us, because it never happens to make a debut with a work that actually represents a sort of memorial, also sound, and cultural. In the album “Get Your Shit Together”, on the cover of which, in fact, the writing “Memorial” stands out, we find ourselves listening to a mixture of deeply American sounds, a mixture of old rock’n’roll but also echoes of sonority blues mixed with that vaguely punk-evolutionary energy that marked his works with Iggy Pop and other artists of the middle age. His story, therefore, through his publication, intrigued us: a story of wandering, of drugs, of itinerant and transversal paths between different musical genres that until now had probably concealed the inner artistic direction that Sales kept in himself, and that today instead it emerges.

-Hello gentle Mr. Sales, thanks a lot for this conversation,  it’s a great pleasure and an honour to talk with one of the most great acclaimed drummers of the rock world. Mr.Sales, it’s not easy from where to start to ask you but in a way or other we have to “break the ice” as we say in Italy. You have an excellent reputation as a musician and have always demonstrated strong musical consistency with whoever you have worked with. We can imagine that you have always played with musicians who were close to your feeling, but what are your memories of your beginnings as a musician? Did you feel confident or were you afraid of not doing well?

My memories of starting out, the person that gave me impetus from the start of my career and my love of music was Earl Palmer, a famous New Orleans drummer who worked with Little Richard and Fats Domino. I was at a recording session at 6 years old and saw him play on the session and met him when he worked on one of my dad’s records. It changed my life. Failure has never been an option, not that I haven’t had failures. But as they say, one who doesn’t try is a failure.

-When at the end of the 70s you played with Bowie and Iggy Pop together with your brother Tony, many praised your work and the intro you play in the song “Lust for life” remains memorable. A “cult” that still fascinates and produces energy and clarifies how “Rock” must be! What can you say to us about that breathtaking riff that you play and that you keep throughout the song and that we find in the movie “Trainspotting”? How was born the idea of the drumming part of that song?

It’s based on several different things. One, Motown, “You Can’t Hurry Love”, “George of the Jungle” which is from a cartoon, and Armed Forces Radio in Berlin, Germany which is something I heard a lot while living In Berlin with Iggy and David. I put it all together and like a lot of things in music there is nothing new, it’s how you borrow it or take an idea for another idea and make it  your own.

-You have participated in two important musical turning periods of David Bowie and Iggy Pop, always in the company of your brother Tony on bass in the Berlin period 1976-1977 and with Tin Machine in Montreux and in other recording studios. Even today your interpretation of the song “Sorry” remains one of the best songs of the second album of Tin Machine. What do you think of the experience with Tin Machine today? Was it done everything you wanted to do with Tin Machine?

The good thing about Tin Machine was it got me playing drums again. Prior to Tin Machine I had been doing a lot of arranging and producing for people, not much drumming. Of course to work with David after so many years after 1976-77 with Iggy Pop, to be a little bit older and hook up with David again was great.

-Finally for those who love your music is out your first solo album named Hunt Sales Memorial “Get Your Shit Together”. You say in “One day” I am alone. What it means for you the solitude? For many people “solitude” is a way to escape from the life stress, do you find instead something who gives you more creativity?

 It’s not about being alone. It’s not about solitude. It’s more like being around a lot of people, family friends or strangers, and feeling like you’re alone. It has more to do with a head trip of not feeling like you belong or fit in and it’s a feeling shared by a lot of people. Maybe the outsider, the addict, the alcoholic.  It’s a universal feeling to feel  alone. People talk about having a hole in them that is never filled. It has to do with all of that, and more.

-Besides pure energy, what must be present in a song you play? A text of a true story?

Hopefully one way or another something I can relate to has to be in the song that will kick off a feeling or feelings that will inspire me.  Hopefully that inspiration is shared with the listener, also.

-Your first solo album is so real in my opinion and shows your brilliant talent as a composer. Also your way to sing is warm and rough in the right way and this is not common for a drummer.  What is magic for you in your album? 

I have a band and this band consists of me and a guy named Tjarko Jeen who is from Holland.   I put this band The Hunt Sales Memorial together 10 years ago and the reality is opportunity met on the corner of preparation meaning I was prepared having been rehearsing hundreds of hours with this group and gigging through the years. When the opportunity came to make the record I was prepared. The record was done old school, in a very short amount of time like the records in the sixties and fifties.

-Would you like to play a series of concerts in Europe?
Yes I would.  I’m looking for the right promoter to bring me over there.

-Do you feel complete as a musician or you think there is always something to learn?
Yes, there’s always something to learn.

-What are dreams for you Mr. Sales?
To come to Europe and throw the fuck down.

Thank you very much for the kindness Mr. Sales. Best regards and Arrivederci from Italy,

Marcello Nitti  © Geophonìe
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9. Casematte e fortificazioni

LA GIOIA DI VIVERE DI HUNT SALES, DOPO IGGY POP, BOWIE E TIN MACHINE

Hunt Sales Memorial, ‘Get Your Shit Together’ 2019, © Big Legal Mess / Fat Possum Records

[English version here]
4 Gennaio 2022
Due chiacchiere con Hunt Sales, celebre batterista del rock evolutivo di fine ’70 in America. Collaborò per anni con Iggy Pop e David Bowie. Era sua la batteria travolgente di “Lust for Life”, brano che diede il tiolo all’epico album di Iggy Pop nel 1977. In Italia potemmo vederlo dal vivo solo nell’ottobre 1991 con David Bowie e i Tin Machine al Teatro Brancaccio di Roma. 

Nel 2019 un’etichetta americana denominata Big Legal Mess / Fat Possum Records ha dato alle stampe un prodotto discografico inatteso. Si tratta di un lavoro solista realizzato da un musicista di lungo corso, ma che solo in età avanzata ha deciso di costruire un “esordio” artistico a proprio nome. Stiamo parlando di Hunt Sales, batterista americano con alle spalle un curriculum sbalorditivo, dal rock’n’roll al blues,  al jazz dixieland, e che ha spaziato ovunque nella grande musica americana,  sempre al fianco di star assolute.

In Italia lo conoscemmo per via della sua dirompente batteria che accompagnò Iggy Pop in quel momento di trasformazione, così evolutivo, della seconda metà degli anni 70. Hunt Sales era con Bowie nella fase berlinese della trilogia, ma noi italiani lo vedemmo per la prima volta solo nel 1991 al Teatro Brancaccio di Roma per due serate irripetibili, alla batteria dei Tin Machine, e avemmo modo di comprendere come Hunt Sales fosse un batterista d’avanguardia, persino quando interpretava un genere quasi retrò: si trattava in realtà di un retrò opportunamente rielaborato, come appunto i Tin Machine seppero fare in quei due dischi incredibili dei primi anni 90, producendo coraggiosamente una musica totalmente contraria a quella che i nuovi venti del brit-pop stavano diffondendo.

Questa produzione solista di Hunt Sales dunque ci ha colpito, perchè non accade mai di realizzare un esordio con un lavoro che in realtà rappresenta una sorta di memoriale, anche sonoro, e culturale. Nel disco “Get Your Shit Together”, sulla cui copertina, infatti,  campeggia in grande la scritta “Memorial”, ci ritroviamo ad ascoltare una miscellanea di suoni profondamente americani, una commistione di vecchio rock’n’roll ma anche di echi di sonorità blues mescolate a quella energia vagamente punk-evolutiva che contrassegnava i suoi lavori con Iggy Pop e altri artisti dell’età di mezzo.

Hunt Sales mentre interpreta il brano “Sorry”, con i Tin Machine al Teatro Brancaccio di Roma, 10.10.1991 (Marcello Nitti © Geophonìe)

La sua storia, quindi, attraverso questa sua pubblicazione, ci ha incuriosito: una storia di vagabondaggio, di droghe, di percorsi itineranti e trasversali tra  generi musicali diversi che sinora aveva probabilmente occultato la direzione artistica interiore che Sales serbava in sè stesso, e che oggi invece affiora.

Sig.Sales, non è facile decidere da dove  cominciare,  ma in qualche modo dobbiamo pur  “rompere il ghiaccio” , come si dice in Italia. Tu hai un’ottima reputazione come musicista e hai sempre dimostrato una forte coerenza musicale con chiunque tu abbia lavorato. Possiamo immaginare che tu abbia sempre suonato con musicisti vicini al tuo feeling, ma che ricordi hai dei tuoi inizi come musicista?  Ti sentivi sicuro o avevi paura di non fare bene?
“I miei ricordi degli inizi sono legati alla persona che diede impulso sin dall’inizio della mia carriera al mio amore per la musica,  Earl Palmer, un famoso batterista di New Orleans che aveva lavorato con Little Richard e Fats Domino. Ero a una sessione di registrazione a 6 anni e lo vidi suonare durante la sessione,  lo incontrai  quando lavorò su uno dei dischi di mio padre e ha cambiato la mia vita. Il fallimento non è mai stato un’opzione: non che io non abbia avuto fallimenti, ma – come si suol dire –  solo  chi non prova fallisce”.

-Quando alla fine degli anni ’70 suonavi con Bowie e Iggy Pop insieme a tuo fratello Tony, molti lodavano il tuo lavoro e l’intro che suoni nella canzone “Lust for life” rimane memorabile. Un “culto” che ancora affascina e produce energia e chiarisce come deve essere il “Rock”! Cosa puoi dirci di quel riff mozzafiato che suoni, che conservi per tutta la canzone e che ritroviamo nel film “Trainspotting”? Com’è nata l’idea della parte di batteria di quella canzone?
“ Si basa su diverse cose. Uno, Motown, “You Can’t Hurry Love”, “George of the Jungle” che è tratto da un cartone animato, e “Armed Forces Radio” a Berlino, in Germania, che è qualcosa che ho sentito molto mentre vivevo a Berlino con Iggy e David. Ho mescolato tutto insieme, e come molte cose nella musica non c’è niente di nuovo, o è come lo prendi in prestito o prendi un’idea per un’altra idea e la fai tua”.

Hunt Sales, Roma, Teatro Brancaccio, 10.10.1991 Marcello Nitti © Geophonìe

-Hai partecipato a due importanti svolte musicali di David Bowie e Iggy Pop, sempre in compagnia di tuo fratello Tony al basso nel periodo berlinese 1976-1977 e con Tin Machine a Montreux e in altri studi di registrazione. Anche oggi la tua interpretazione della canzone “Sorry” rimane una delle migliori canzoni del secondo album dei Tin Machine. Cosa ne pensi dell’esperienza con i Tin Machine oggi? È stato fatto tutto quello che volevi fare con Tin Machine?
“La cosa buona dei Tin Machine è che mi face suonare di nuovo la batteria. Prima dei Tin Machine avevo fatto molto arrangiamento e produzione per altri, ma non molto percussioni. Ovviamente lavorare con David, dopo così tanti anni dopo il 1976-77 con Iggy Pop, essere diventato un po’ più grande e ritrovare David, è stato fantastico”.

Finalmente per chi ama la tua musica è uscito il tuo primo album solista intitolato Hunt Sales Memorial “Get Your Shit Together”. Tu dici in “One day” :  sono solo. Cosa significa per te la solitudine? E’ un modo per fuggire dallo stress della vita, o trovi invece in essa qualcosa che ti dia più creatività?
 “Non si tratta di essere soli. Non si tratta di solitudine. È qualcosa di più, come stare con molte persone, amici di famiglia o sconosciuti e sentirsi soli. Ha più a che fare con un viaggio nella propria  testa,  piuttosto che alla sensazione di non appartenere o adattarsi. E’ un sentimento condiviso da molte persone, come l’outsider, il tossicodipendente, l’alcolizzato. Il sentirsi soli è una sensazione universale. Le persone dicono di sentire un vuoto in loro che non viene mai colmato. Ha a che fare con tutto questo, e anche più”.

Tin Machine, Roma, Teatro Brancaccio, 10.10.1991 Marcello Nitti © Geophonìe

-Oltre all’energia pura, cosa deve esserci in una canzone che suoni? Un testo di una storia vera?
“ Spero che in un modo o nell’altro qualcosa con cui posso relazionarmi debba essere nella canzone che darà il via a un sentimento, o a sentimenti che mi ispireranno. Speriamo che l’ispirazione sia condivisa anche con l’ascoltatore”.

-Il tuo primo album da solista è così reale, secondo me, e mostra il tuo brillante talento come compositore. Anche il tuo modo di cantare è caldo e ruvido nel modo giusto e questo non è comune per un batterista. Cosa c’è di magico per te nel tuo album?
“Ho una band e questa band è composta da me e da un ragazzo di nome Tjarko Jeen che viene dall’Olanda. Ho messo insieme questa band, The Hunt Sales Memorial, 10 anni fa,  la verità è che l’opportunità si è manifestata in un momento marginale della preparazione, il chè significa che ero preparato dopo aver provato centinaia di ore con questo gruppo e aver suonato nel corso degli anni. Quando si è presentata l’opportunità di fare il disco, ero preparato. Il disco è stato fatto alla vecchia maniera, in un lasso di tempo molto breve come i dischi degli anni Sessanta e Cinquanta”.

– Ti piacerebbe fare una serie di concerti in Europa?
“Sì, lo farei. Sto cercando il promoter giusto” .

– Ti senti completo come musicista o pensi che ci sia sempre qualcosa da imparare?
Sì, c’è sempre qualcosa da imparare”.

Cosa sono i sogni per te, signor Sales?
“Venire in Europa e buttare giù tutto”.

Marcello Nitti  © Geophonìe
riproduzione riservata.

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Pinhdar:  Flussi continui di intime sensazioni

Si intitola ‘Parallel’ il loro nuovo disco. 

In questi ultimi anni l’intreccio tra Musica e Letteratura ha finalmente trovato tributi ragguardevoli, specie se pensiamo al Nobel ricevuto da Bob Dylan, alla laurea ad honorem assegnata a Patti Smith e a tanti riconoscimenti che l’arte musicale colta ormai consegue:  ed è forse da poco tempo, dunque, che un nuovo pubblico riesce ad accostarsi e apprezzare  questa fusione, riconoscendo come talvolta parole ed atmosfere musicali riescano a fondersi, abbracciarsi, creando gomitoli di poesie.

Quale destino ci attende? Invece di ricercarlo, i Pinhdar il loro destino lo realizzano, costruendo trame intime ed avvolgenti.

Non è un caso che Max Tarenzi e Cecilia Miradoli siano ispirati dalla poesia del greco antico,  simbolicamente rievocando Pindaro, e che testi e musiche del loro secondo album siano un condensato unico ed uniforme di sfavillante bellezza.

PHINDAR, “Parallel” (Fruits de Mer Records, Marzo 2021)

Parliamo di artisti italiani che coltivano suggestioni, emozioni, visioni, apparizioni e ne offrono una celebrazione asciutta e profonda. Meraviglie nascoste, ma che possono essere svelate soltanto da un ascolto attento e riflessivo.

La voce di Cecilia Miradoli si lascia trasportare da tappeti di nuvole che accarezzano i sensi più delicati e palpitanti e non solo …… insieme a Max Tarenzi le composizioni diventano piccole opere di respiri rigeneranti.

Ogni brano di questo loro secondo album,  “Parallel” (Pubblicato nel Marzo 2021 in digitale, in CD e in un’edizione limitata in vinile pubblicata dall’etichetta inglese Fruits de Mer Records),  lascia apparire tra le ombre brividi di luce interiore e momenti di maestosa delicatezza.

Elegia dei sentimenti e del vivere l’istante. L’istante è il tempo in cui viviamo e che nutre l’anima che tanto preziosa è per noi tutti.

La musica dei Pinhdar ci abbraccia soffice e cresce in penombra con fierezza.

16/10/2021
Marcello Nitti © Geophonìe
Diritti riservati

 

“Parallel” prodotto da HOWIE B
26 marzo 2021 – 20 settembre 2021
su vinile in UK
Parallel è uno degli album di cui vado più orgoglioso ”
Howie B
Capolavoro del duo italiano con Howie B”
COLLEZIONISTA DI RECORD (Regno Unito)
Dark e atmosferico, tra dream pop e trip hop”
LA REPUBBLICA  (IT)

“Un’istantanea della vita vissuta nel 2020 ”
Prog (Regno Unito)

Fantastico e seducente
Suono elettronico (Regno Unito) 

 

7. Canale Navigabile e Corso Due Mari

Adrian Borland – Il Film in DVD

cover dvd adrian borlandIl 12 giugno 2021 si è finalmente realizzata l’autentica impresa sostenuta in Olanda dagli amici Jean-Paul Van Mierlo (produttore) e Mark Waltman (regista) in Olanda, anche grazie alla casa di produzione Sounds Haarlem che ha sostenuto lo sforzo finale.
Il film documentario su Adrian Borland che vide la luce il 19 novembre 2016, quando venne selezionato e presentato per la prima volta al Festival Internazionale dei Documentari di Amsterdam (IDFA), è oggi un DVD, con sottotitoli in cinque lingue, tra cui l’italiano.
Il film, inizialmente realizzato anche grazie a un crowdfunding, sinora era stato diffuso solo nei festival internazionali. In Italia soltanto il Festival Seeyousound di Torino nel 2017, e il Cinzella Festival di Taranto nel 2018 erano riusciti a vedersi autorizzata una libera proiezione. Oggi il documentario, bellissimo, è a disposizione del pubblico, dopo tante faticose trattative e accordi.
E così può dirsi conclusa la storia voluta da Robert Borland, padre del grande autore, che sostenne il progetto di realizzazione del film e del nostro libro regalando al mondo della musica una miniera semisconosciuta di vera arte. Robert aveva lottato fino all’ultimo per arrivare alla pubblicazione su scala internazionale di questo lavoro, ed era certamente consapevole che da questa storia ne sarebbero discese, poi, tante altre.
Le ricerche fatte, l’acquisizione di materiali audiovisivi, i contatti ritrovati con un mondo artistico che sembrava dissolto, hanno consentito di scoprire, valorizzare e infine produrre brani inediti straordinari, tanto da inaugurare una terza, nuova, e sino ad oggi totalmente sconosciuta, fase creativa di Adrian Borland. In contemporanea alla pubblicazione del DVD, infatti viene dato alle stampe “Lovefield. Neon And Stone”, dodici brani mai ascoltati prima.
Questa pubblicazione è il seguito del disco “Lovefield” del 2019 e costituisce la seconda selezione di brani nata dalla collaborazione tra Adrian Borland e il musicista e cantautore franco-svizzero Mark Hunziker. I brani vennero registrati nel 1993 nell’home studio di quest’ultimo a Londra su un registratore a cassette a sei tracce, come demo per un progetto di band di breve durata denominata appunto “Lovefield”. Questa fase compositiva non era nota, il materiale prodotto non era mai stato ascoltato prima – nemmeno nel circuito dei bootlegs – ed è stato rinvenuto direttamente negli archivi di Mark Hunziker che oggi ha sede a Toronto.
Rock alternativo, cantautorale, sonorità splendide talvolta oscure e cupe, e talvolta anche molto liriche, con momenti di grande impeto e intensità.
E’ un altro tassello, dunque, di una storia artistica straordinaria che merita ancora una volta attenzione e passione e che si aggiunge alla fase delle ristampe (anch’esse con inediti) già pubblicate dagli amici olandesi di alcuni dischi solisti (“Beautiful Ammunition” e “Cinematic”) di cui in questi anni, specie in Italia, si erano quasi perse le tracce.

6. Buffoluto e dintorni

Damàiste, New Wave bolognese contemporanea

I Damàiste sono una band bolognese che da alcuni anni propone una rivisitazione della new wave seguendo percorsi diversi da quelli tipici delle tribute band. Il loro, infatti, non è il tipico spettacolo incentrato sulla pedissequa esecuzione dei classici  e il loro repertorio non tende al revival di uno specifico gruppo: quello dei Damàiste è un evento di comunicazione, quasi un reading, fatto di musica e parole.

I Damaiste infatti spaziano in un repertorio anni 80 ma non solo, riproponendo brani noti e meno noti di varie formazioni storiche, dai Cure sino ai Placebo, dai Sound e The Psychedelic Furs agli Interpol, Franz Ferdinand, Arctic Monkeys ed altri. La setlist dei Damàiste ricerca e vuole mostrare al pubblico la “continuità” di un genere, l’eredità sonora e di ispirazione acquisita dalle generazioni di artisti che si sono affermati dopo gli anni ’80, quando quella particolare fase creativa confluita in un brit pop meno suggestivo e spesso poco originale sembrava definitivamente chiusa e conclusa.

Massimo Panìco, voce e tastiere (Damàiste, Live Gallery 16, Bologna, 22.12.2019) © Geophonìe

Non è casuale la scelta dei brani che i bolognesi Damàiste portano sul palco: vi è molta cura nel presentare diversi brani contemporanei, per mostrare accanto alla new wave delle origini, quella di oggi. Amano intervallare le loro versioni live con brevi racconti, aneddoti, pillole di storia musicale, schegge di un’epoca non ancora lontanissima che il pubblico ha piacere di ricordare ma anche di approfondire, scoprendo qualcosa di più. Sappiamo bene come molti testi new wave in quegli anni scivolassero via, completamente ignorati e offuscati dallo sfavillio estetico degli ’80, e scoprire oggi slanci di poesia e significati sconosciuti, condividere solo ora narrazioni che la stampa specializzata – in ritardo – ha scoperto e svelato, rende il loro spettacolo un happening musicale e culturale ricco e piacevole.

E’ una bellissima serata quella che si trascorre fra le conversazioni e le performance sonore dei Damàiste, sempre molto cariche di intensità elettriche e ritmiche. Il loro è un “sound” solido e collaudatissimo. La parola “Sound”, del resto,  per i Damàiste è una questione di cuore: il repertorio della band di Borland è infatti uno dei cardini del loro spettacolo.

Franco Pietralunga (drums) e Christian Paolucci (voce e chitarra) Live Gallery 16, Bologna, 22.12.2019 (© Geophonìe)

Da cosa nasce questo amore per i The Sound?
“Max è di Taranto” – ci racconta Frank, batterista – “ e negli anni ‘80 la scena New Wave della città era molto viva. Lui ebbe la fortuna di assistere a buona parte di quei concerti, dai Simple Minds ai Bauhaus, e nel 1985 a 14 anni vide Adrian Borland e soci al Tursport Club. Un concerto leggendario. Da allora i The Sound sono stati un suo pallino”.
“Anche Frank li vide dal vivo a Budrio in provincia di Bologna nel 1983”, – racconta Massimo Panìco –  “ed anche lui considera questa band fondamentale nel panorama New Wave/Post Punk internazionale. Le sonorità post punk sono parte integrante della nostra cultura musicale, sia come ascoltatori che come musicisti. Dopo aver riproposto per tanto tempo quasi tutte le band del periodo Punk-New Wave, abbiamo capito che l’unicità dei The Sound era davvero pazzesca e abbiamo deciso di esplorarli più a fondo. “From the Lions Mouth” è un album straordinario”.

Christian Paolucci, voce e chitarra (Damàiste, Live Gallery 16, Bologna 22.12.2019) © Geophonìe

Quando vi siete formati e qual’è la vostra storia?
“I Damaiste nascono nel lontano 2009, Chris, Max ed Emi sono i fondatori. Dal 2017 Frank è il nostro batterista. Esordimmo come cover rock band, abbiamo poi intrapreso un viaggio creativo che ci ha portato nel 2015 ad autoprodurre “What you see is all there is” un album interamente scritto da noi che ha riscosso un discreto successo fino a raggiungere il 5° posto nella classifica indie di iTunes. In questi anni ci siamo dedicati a studiare e riproporre diverse band che sono il nostro riferimento (Arctic Monkeys, The Cure, Placebo), ma quando siamo atterrati su The Sound, è divenuta la nostra nuova ossessione”.

Perché avete due cantanti?
“Perchè ci piace variare tra diversi stili, essere flessibili, spaziare su diversi canoni. Chris e Max hanno timbri vocali completamente diversi e sfruttiamo questa particolarità a nostro vantaggio”.

C’è una notevole versatilità vocale e sonora nelle esecuzioni dei Damaiste. I brani originali vengono riproposti con libertà interpretativa e voglia di sperimentare. Si riconosce benissimo nel loro concerto quella militanza sotto i palchi di tanti grandi e piccoli eventi musicali che negli anni, sin da ragazzi, avrà caratterizzato le loro storie personali.

Il concerto live a cui avete assistito e che vi ha maggiormente influenzato?

“Quello degli U2, Zoo Tv, a Bologna” – dice Chris – “Ero lì per motivi di lavoro, in servizio militare nella celere. A distanza di anni abbiamo poi ricostruito i ricordi, scoprendo di esserci stati tutti e tre (io, Emi e Max) nello stesso posto, allo stesso momento, seppure con finalità diverse: 2 su 3 di noi erano al lavoro”.
“Durante quel tour degli U2 – Zoo Tv ebbi il privilegio di lavorare con Bono” – dice Max – “Ero l’aiutante della sua costumista. In quella data di Bologna salii sul palco due minuti prima dell’inizio del live per riportare nel backstage i finti U2. Esperienza memorabile dinanzi a circa 30.000 persone”.
“Fu in occasione di quel concerto degli U2 – Zoo Tv Tour a Bologna che capii che il mondo era diventato multimediale”, dice Emi.
“Per me fu il concerto dei Sound nella Discoteca Puntacapo di Budrio del 1983” – dice invece Frank – “fu una performance che pose le basi per le mie preferenze musicali, e orientò tutta la mia cultura musicale che ho poi continuato a coltivare  sino ad oggi”.

E il concerto live che vi ha maggiormente influenzato come musicisti?
Chris: Arctic Monkeys “Ferrara sotto le stelle” 2007
Max: Sono tantissimi, non riesco a dirne solo uno. Molti concerti degli U2. Depeche Mode, Placebo ed Editors. Simple Minds e Tears for Fears. Arctic Monkeys. Davvero difficile.
Emi: Interpol, “Turn on the bright lights tour”.
Frank: Arctic Monkeys “Ferrara sotto le stelle” 2007.

Gallery 16, Bologna. © Geophonìe

Il  concerto live che non vi perdonate di avere perso?
Chris: Grateful Dead
Max: The Clash, Duran Duran e David Bowie
Emi: Jeff Buckley
Frank: David Bowie

Le band da cui siete ossessionati?
Chris: The Beatles
Max: U2
Emi: The Smiths
Frank: Joy Division

 

 

Cos’è la musica per voi?
Chris: una millefoglie di matematica applicata al suono con sopra un velo di emozioni
Max: le rockstar sono i miei mentori, il rock è l’interruttore dei miei stati emotivi
Emi: l’angolo delle mie emozioni con cui mi confronto appena posso
Frank: un luogo dove mi sento a mio agio, sempre

E il vostro sogno come musicisti?
Chris: Fare un tour in Giappone
Max: ne ho due: il primo è fare un tour con la mia band girando le capitali europee con il Westfalia. Il secondo è suonare i Sound nella mia Taranto.
Emi: incidere un album e l’ho realizzato; il prossimo è quello di suonare con Peter Hook e Johnny Marr assieme (difficile ma nella vita non si sa mai!!!)
Frank: direi che si è avverato, visto che era suonare in una cover band dei The Sound.

Giuseppe Basile © Geophonie
13.05.2021

Acquedotto Romano

Damàiste, esperimenti di comunicazione

Una band bolognese propone un illuminante reading di musica e parole. Un’esperienza espansiva che dal rock infonde energie e volontà, con risultati efficaci persino nell’attività di formazione aziendale. Damàiste , in Gaelico significa “Ledere”, “Danneggiare”,  ed è il concetto di lesione, disagio presente in alcune band del passato ad interessare i membri di questa formazione musicale emiliana: una passione per le sonorità new wave, goth, postpunk, darkwave e brit pop  accomuna i suoi quattro componenti, musicisti di lungo corso che suonano per diletto e non per lavoro. Dismessi pc, cravatte ed automobili, si dedicano a proporre musica di nicchia per appassionati degli anni ’80 e primi ’90. I Damàiste suonano insieme dal 2011 e riportando live le atmosfere citate, interpretano le più importanti band di questi generi: The Sound, Joy Division, Killing Joke, Bauhaus, The Psychedelic Furs, The Cure, Depeche Mode, Placebo, Interpol, Franz Ferdinand, Oasis, Pixies, Arctic Monkeys. Le canzoni non sono riprodotte in stile ‘tribute’, quindi identiche all’originale, ma cercano di evidenziare dettagli dei brani non sempre evidenti, con richiami a contemporanei o a band successive che hanno fatto tesoro della tradizione new wave; i Damàiste interpretano liberamente Adrian, Ian, Jaz, Robert e tutti gli altri musicisti a cui si ispirano, pur rispettando il messaggio sonoro ed il contenuto artistico. Nel 2015 la band pubblicò un proprio album inedito, “What you see is all there is”, raggiungendo il 5° posto della classifica Itunes Indie. Le sonorità dell’album riprendono la passione dei suoi membri verso diversi generi musicali ma l’atmosfera generale rimane fedele al decennio 80, fino ad arrivare alle sonorità anni 90, ovvero fino alla “Placebizzazione” . Alcune composizioni dell’album sono proposte dal vivo. Ogni live è caratterizzato da un lungo repertorio, frutto dei 10 anni di carriera della band; è per questo che in alcuni live si superano abbondantemente le due ore. La capacità di fondere due cantanti con timbri vocali diversi rende  particolari le performance live. La band si è esibita principalmente in Emilia Romagna, con alcune date anche fuori regione in Veneto e Toscana, toccando alcuni palchi particolarmente importanti come Home Rock Bar a Treviso, Cortile Cafè a Bologna, Hard Rock Cafè a Firenze e diversi altri. Le parole dei grandi artisti vengono svelate, e il loro pensiero finalmente viene divulgato. Recentemente Max Panìco ha dato vita ad un’attività di formazione nel mondo aziendale promuovendo un proprio format incentrato sull’energia, sulla valorizzazione dell’individuale senso interiore e sulla libertà creativa che il rock, come forma culturale, ha trasmesso nella nostra società moderna stimolando  attitudini individuali e di gruppo, l’autodeterminazione e l’affermazione della personalità. Il suo prodotto formativo si chiama “Il rock in azienda” e sta ottenendo un successo notevolissimo con numerose richieste e consensi professionali nell’ambito del management italiano (https://www.youtube.com/watch?v=MPGsjRLG4Sw). COMPONENTI Christian Paulucci – voce e chitarra Massimo Panìco – voce e tastiere Emiliano Lorenzoni – basso Franco Pietralunga – batteria

Architetture nel Tempo

THE SOUND (Hystoric Complete Giglist)

The Sound Complete Gig List
1980

 September
4 BIRMINGHAM Golden Eagle
11 GLENROTHES Rothes Arms
12 KINGHORN Cunzie Park
13 KINGHORN Cunzie Park
14 EDINBURGH Harveys
15 GRANGEMOUTH International Hotel
18 KIRKALDY Dutch Mill
19 FALKIRK Magpie
20 EDINBURGH Eric Browns
21 COWDENBEATH Commercial
24 LONDON Moonlight Club
26 LONDON Old Queens Head
28 BRIGHTON Jenkinsons (+ Echo & B)
29 BOURNEMOUTH Stateside Centre (+ E & B)
30 BRISTOL The Berkeley (+ E & B)
October
1 EXETER University (+ E & B)
2 PORT TALBOT Troubador (+ E & B)
3 BIRMINGHAM Cedar Ballroom (+ E & B)
4 MANCHESTER University (+ E & B)
5 LEEDS F. Club (+ E & B)
6 DERBY Romeo And Juliets (+ E & B)
7 COLCHESTER Essex University (+ E & B)
8 NORWICH UEA (+ E & B)
9 SHEFFIELD Limit (+ E & B)
10 SCARBOROUGH Penthouse (+ E & B)
11 STIRLING University (+ E & B)
12 EDINBURGH Valentinos (+ E & B)
14 COVENTRY Poly (+ E & B)
15 ST. ALBANS City Hall (+ E & B)
17 LIVERPOOL University (+ E & B)
21 LONDON Richmond Castle
24 LONDON Moonlight Club + review
28 LONDON Rock Garden
31 LONDON 101 Club
November
21 LONDON Half Moon Herne Hill

1981

January
11 LONDON ICA
14 LONDON The Venue (see Jeopardy)
16 LAMPETER University
20 LONDON UCL
February
26 PARIS Pavillion Baltard
27 LONDON The Venue
March
5 GRONINGEN Vera
6 EINDHOVEN Effenhaar
7 ROTTERDAM Exit Club
8 AMSTERDAM Paradiso
15 LILLE Palais Saint-Sauveur
16 ROUEN Studio 44
April
2 LONDON Venue
19 CAISTER Silver Sands
May
1 MANCHESTER Rafters
8 LONDON Kingston Poly
9 LONDON LSE
28 LONDON Africa Centre
30 WARWICK University
June
15 LONDON Heaven
16 CAMBRIDGE Jesus College
20 GLASTONBURY Fayre
August
15 NIJMEGEN Openlucht Theater
16 ROTTERDAM New Pop Festival
21 WAGENINGEN De Junushof
22 AMSTERDAM Paradiso
23 GRONINGEN Sterrenbos Festival
September
5 STAFFORD Futurama
18 EDINBURGH Niteclub (+ Comsat Angels) tour ad
19 ABERDEEN The Venue (+ C.A.)
20 KIRKLEVINGTON Country Club (+ C.A.)
22 MANCHESTER Poly (+ C.A.)
23 YORK T.A. Centre (+ C. A.)
24 LEEDS Warehouse (+ C. A.)
27 BATH Tiffanies (+ C .A.)
October
16 LEUVEN Flanders Festival
27 CANTERBURY Kent University tour ad
28 BRIGHTON Poly
29 COVENTRY General Wolfe
30 LONDON ULU see ad
31 NORWICH UEA
November
1 SHEFFIELD Limit Club
18 APELDOORN Gigant
19 GRONINGEN Huize Maas
20 THE HAGUE Trojan Horse
21 HILVERSUM Tagrijn
22 AMSTERDAM Paradiso
26 MADRID Rock-ola
27 MADRID Rock-ola
30 MILAN 2001

1982

January
21 LONDON The Venue
29 DELFT Staminee (tour ad)
30 ARNHEM Stokvishal
31 SITTARD Stadschouwburg
February
1 ENSCHEDE T H
2 AMSTERDAM Paradiso
19 HERENTHOUT Lux
20 LOMMEL Zendpiraat
21 ROCHEFORT Salles des Roches
22 BORNEM Volksbelang
24 BRUSSELS Ancienne Belgique
25 KUURNÉ On the Beach
26 ZEDELGEM Groene Meerschen
March
8 LOUGHBOROUGH Art College
31 OSLO Club
April
1 STOCKHOLM Kamera Palatzet
2 GOTHENBERG Student Kaaren
3 COPENHAGEN Music Café
4 HAMBURG Onkel Poe’s
9 UTRECHT Irenehal (No Nukes)
12 LONDON Hammersmith Palais
18 DÜSSELDORF Philipshalle
19 AACHEN Eurogress
20 BOCHUM Zeche
21 KÖLN Sartory
22 NEU-ISENBURG Hugenottenhalle
23 MANNHEIM Kulturhaus
24 APPENWEIER Schwarzwaldhalle
26 MUNICH Alabama Halle
27 DARMSTADT Lopo’s Werkstatt
28 WÜRZBURG Music Hall
29 KAISERSLAUTERN Flash
30 LUXEMBOURG Polyvalent
May
2 MÜNSTER Münsterlandhalle
3 BREMEN Aladin
4 HANNOVER Rotation
5 BERLIN Metropol
6 KIEL Ball Pompos
8 HAMBURG Stadtpark
23 BATH Tiffanies
June
11 LONDON ZigZag Club
July
13 ZUTPHEN Tent
17 APELDOORN Gigant
18 GRONINGEN Vera
19 UTRECHT NV Huis
22 AMSTERDAM Paradiso
23 THE HAGUE Openlucht Theater
24 ARNHEM Stokvishal
August
5 LOKEREN Lokerse Festival
6 BRUSSELS Mallemunt
7 ZONHOVEN Alcatraz Festival
8 VENLO Julian Park
13 BLANKENBERGE Blankenpop Fest
14 ADINKERKE Seaside Festival
October
17 LONDON Lyceum (with Comsat Angels)
November
7 LEICESTER Poly
9 LONDON The Venue
10 LEEDS Warehouse
11 SHEFFIELD Limit Club
12 BIRMINGHAM Poly
13 BRISTOL Poly
December
2 COVENTRY General Wolfe
3 LONDON Camberwell Art College
10 MADRID Rock-ola
11 MADRID Rock-ola

1983

January
20 UTRECHT Tivoli
21 ROTTERDAM Arena
22 AMSTERDAM Paradiso
23 GRONINGEN Oosterpoort
24 ARNHEM Stokvishal
25 MAASTRICHT Staargebouw
26 LEUVEN Lido
27 GENT Vooruit
28 ZEDELGEM Groene Meersen
29 BRUSSELS Plan K (photos here)
30 ANTWERP Hof Ter Lo
31 BOCHOLT Morian
February
5 LONDON Kingston Poly
11 LYON West Side
12 LYON West Side
14 BOLOGNA Teatro Disco Puntacapo
15 MILAN Teatro Orfeo
16 VICENZA Palestra
17 FIRENZE Manila
18 BRESCIA Teatro CTM
19 GENEVA Le Cab
20 ZURICH Rote Fabrik
March
8 COPENHAGEN Saltlageret
9 GOTHENBERG Rockbox
11 OSLO Chateau Neuf
12 STOCKHOLM Electric Garden
24 NEW YORK Danceteria
25 PHILADELPHIA East Side Club
26 WASHINGTON 9.30

1984

January
28 VAALS ’T Spuugh
29 HAARLEM Patronaat
March
28 LONDON Marquee
April
4 LONDON Marquee
11 LONDON Marquee
16 UTRECHT Vrije Vloer
17 ENSCHEDE Vrijhof
18 EINDHOVEN Effenaar
19 GRONINGEN Vera
20 AMSTERDAM Paradiso
21 LEIDEN LVC
22 ETTEN-LEUR Pop Festival
23 THE HAGUE Trojan Horse
24 NIJMEGEN Lindenberg
25 ROTTERDAM Arena
27 GOTHENBERG Mudd Club
29 STOCKHOLM Kolingsborg
30 OSLO Studio 26
May
2 COPENHAGEN Musikcafe
3 HAMBURG Fabrik
4 BERLIN Loft
5 MÜNSTER Odeon
6 DETMOLD Hunky Dory
7 BOCHUM Zeche
8 COLOGNE Luxor
9 HALLE Halle 3
10 BOCHOLT Dochdu
21 LONDON Marquee
22 LONDON Marquee
23 ROUEN Exo 7
24 PARIS Theatre du Forum
25 GENEVA Bouffon
26 LYON West Side Club
28 TURIN Studio 2
29 FLORENCE Manila
31 BARI Disco Country Club
June
1 CATANIA Teatro Sud
2 CATANZARO Stadio Comunale
4 PESCARA Discoteca Le Naiada
5 ROME Teatro Palladium
6 IMOLA La Rocca
7 RIMINI Aleph
8 FIORENZUOLA D’ARDA Disco My Way
9 MUNICH Alabamahalle
July
1 THE HAGUE Parkpop
8 MADRID Rock-ola
9 MADRID Rock-ola
12 LISBON Rock Rendezvous
13 LISBON Rock Rendezvous
26 SURBITON Assembly Rooms
August
3 VAALS T’Spuugh
4 SNEEK Sneekpop
September
21 ROTTERDAM Pandoras Music Box
23 DEINZE Futurama (photos here)
November
9 LONDON ULU
30 NEW YORK Ritz
Dec
1 WASHINGTON 9.30
5 SAN FRANCISCO Oasis
7 LOS ANGELES Club Lingerie

 1985

March
15 BIRMINGHAM Poly
17 LEEDS Poly
20 LONDON Marquee
21 LONDON Marquee
28 FRANKFURT Batschkapp
30 ZURICH Rote Fabrik
31 MUNICH Mirage
April
1 STUTTGART Maxim
2 HAGEN Lass Das
3 BOCHUM Zeche
4 BIELEFELD PC 69
6 HAMBURG Markthalle
7 SCHIJNDEL Popfestival
8 HILVERSUM De Tagrijn
9 UTRECHT Vrije Vloer
10 SITTARD Donkiesjot
11 ROTTERDAM Arena
12 TILBURG Noorderlicht
13 AMSTERDAM Paradiso
14 WILHELMSHAVEN Pumpwerk
May
3 ROUEN Exosept
4 LEUVEN Mei ’85 Festival
5 AMERSFOORT Flint
7 BORDEAUX Performance
8 TOULOUSE Le Pied
9 LYON West Side
10 LYON West Side
14 BOLOGNA Tivoli
16 NAPLES Teatro Tenda
18 TARANTO Tursport Club
20 MILAN Odissea 2
21 RIMINI Viserba Di Rimini
31 BARCELONA Zeleste
June
1 BARCELONA Zeleste
2 BARCELONA Zeleste
14 PARIS El Dorado
15 GROOTEBROEK Veilinghal
July
8 LONDON Hammersmith Palais
August
10 DE PANNE Seaside Festival (photos here)
27 LONDON Marquee (see In The Hothouse)
28 LONDON Marquee (see In The Hothouse)
31 IBIZA Ku Club
November
22 LONDON Clarendon
December
19 OLDENBURG Echoes

1986

March
4 MADRID Universal
6 BARCELONA Studio 54
7 VALENCIA Pacha
9 SAN SEBASTIAN Polideportivo de Anoeta
29 CARTAGENA Disco Patan
April
4 LONDON Clarendon
July
19 CINEY Ciney Festival
20 OUDENBURG Polder Rock 86
October
18 MADRID Leganes Festival

1987

May
20 UTRECHT Tivoli
21 GRONINGEN Vera
22 AMSTERDAM Paradiso
23 DEN HAAG Trojan Horse
24 BRUSSELS La Gaite
26 LONDON Marquee
27 LONDON Marquee
June
28 DEN HAAG Parkpop
August
1 N-SCHOOMEBEEK Het Tuinfeest
8 SNEEK Sneekwave
9 VENLO Summerpark Fest
September
4 LAUSANNE Hot Point Festival
November
7 VITORIA The End
27 TILBURG Noorderlicht
28 LEIDEN LVC
29 NOORD-SCHARWOUDE De Koog
30 DEVENTER Burgerweehuis
December
1 NIJMEGEN Doornroosje
2 ROTTERDAM Lantaren
3 HAARLEM Patronaat
4 AMSTERDAM Paradiso
5 ZOETERMEER Boerderij

Arsenale Militare

08.09.1983. L’altra notte a Modena. Sul palco c’è Siouxie.

Corriere del Giorno, 08.09.1983

Modena – Dopo aver fatto tappa a Rotterdam e a Zurigo, i Siouxie and the Banshees concludono questo breve tour in Europa, suonando a Modena il 6 settembre: l’occasione è stata importante oltre ad essere l’unico concerto in Italia. Ed è stata anche l’occasione di vedere alla chitarra Robert Smith, quello dei Cure.

Ma ci sono altre novità, prima di descrivervi il concerto. I Cure e i Banshees sono forse i superstiti della famosa ondata del ’77 – ’78, infatti, dopo lo scioglimento dei Wire, dopo la morte di Ian Curtis e di conseguenza dei Joy Division, dopo la rottura del Pop Group e la recente notizia dello scioglimento dei Bauhaus, i due gruppi in questione sono impegnati in molti progetti. Robert Smith è entrato a far parte dei Banshees in pianta stabile, sempre continuando a lavorare con Simon Tholrust, ovvero i Cure, pur creando con Steve Severin, bassista dei Banshees, un progetto a due ambizioso dal titolo The Glove.

E’ appena uscito “Like an Animal” del duo con l’inserimento di una voce femminile, già in classifica in Gran Bretagna. C’è ancora da ricordare “The Creatures”, protagonisti Siouxie Sioux e Budgie, del Banshees che, come ricorderete, hanno pubblicato da poco l’album “The Feast”.

Corriere del Giorno, 03.09.1983

Quindi, molto lavoro e pieno sfogo delle proprie aspirazioni e martedì sera, a Modena, erano lì, sul palco, Budgie, Robert Smith e Siouxsie Sioux, i Banshees al completo. In una fresca e stellata serata e dopo una performance abbastanza fischiata dei “Killan Camera”, gruppo italiano, i Banshees incominciano la loro esibizione. E’ stato magico, le prime note di overground, del primo album “The Scream”, hanno mandato subito in visibilio il pubblico, che per l’occasione era quasi tutto in bianco e nero, e con acconciature impossibili. E’ stato con il secondo brano, “Green Fingers” che una decina di punks riuscivano a salire sul palco per abbracciare il loro idolo: Siouxie. C’è stato un attimo di stupore, e mentre Steve Severin e Budgie suonavano regolarmente sul palco, si era creata un’invasione fra punks e forze del servizio d’ordine. Tutto andava bene e lo sbigottimento del pubblico finiva in un lungo applauso, mentre i Banshees continuavano con “Cascade, Melt e Sin in my heart”.

Tutti gli occhi erano puntati su di lei, Siouxie che cantava splendidamente con la sua voce che ti raggiungeva dovunque e Budgie, infaticabile alla batteria, a comporre le bellissime trame ritmiche; Severin, vera sorpresa della serata, con il suo basso creava il tipico suono Banshees. Infine, Robert Smith che alla lettera eseguiva le precedenti creatività dell’ex Hohn McGeoch. Il pubblico è esploso quando i Banshees hanno eseguito, di seguito, “Arabian Nights, Happy House, Spellbound”, brani epici del gruppo che hanno infiammato i quattromila presenti.

Logicamente i Banshees si congedavano da Modena e dall’Italia con due bis notevoli, una versione al limite della religiosità di “Halloween” e una versione splendente di “Israel”, mitico 45 giri del gruppo.

Siouxsie ringraziava e la notte copriva tutto, ma non la registrazione del concerto che già intonava nel registratore e che a Taranto potrete sentire per intero a un gran galà del Tursport, insieme al concerto di Bowie a Monaco di Baviera. Da un brano di Siouxie and The Banshees: “Christine the Strawberry girl, Christine banana split”.

Marcello Nitti © Geophonìe
(08.09.1983)

Bar, Ristoranti, Ritrovi

20.07.1985. Cantami o Diva le macabre liriche del Punk

Siouxsie iera sera al Tursport di Taranto.

Daniela Pinna © Corriere Del Giorno, 21.07.1985

Una diva gotica tra sole e mare: pareva impossibile, ma è accaduto. Siouxsie Sioux, madonna nera del rock inglese, prima signora del punk, ha suonato ieri notte al Tursport in compagnia della sua storica band, i Banshees. Il  “suono oscuro” – così veniva chiamato nel suo periodo d’oro, gli ultimi anni ’70 – è stato felicemente trasportato in mezzo ai colori  (e alla calura) dell’estate tarantina.

Brani nati nel buio delle cantine o nel ritirato appartamento di Siouxsie,  “un seminterrato col pavimento in legno, senza moquette e con poca luce”, come precisava la stessa Siouxsie su Smash Hits qualche tempo fa, hanno creato strane atmosfere nella calda notte estiva. Con piena soddisfazione dei rocchettari locali, dei vacanzieri e dei romantici ribelli metropolitani senza metropoli.

Siouxsie Sioux non rappresenta l’ultima moda canora, non sbanca le classifiche mondiali, non interpreta film d’essai o di successo, ma ha un seguito  personale che non ha pari tra i musicisti della sua generazione. Scomparsi e riciclati i Jam, in inarrestabile declino i Clash, svanita Blondie insieme con i suoi amici newyorkesi, solo Siouxsie resiste sulla cresta dell’onda del dopo punk.

“Non c’è ragione sulla terra per cui questa marcia da funerale debba provocare una così veemente reazione da parte del pubblico”, scriveva qualche settimana fa Ted Muco recensendo per Melody Maker il concerto del gruppo alla St. James 15 Church di Londra. Ma era solo pudore – forse un po’ d’imbarazzo – per l’entusiasmo che traspare dal suo pezzo. “L’incorrotta regina del punk, colei che sputa rose (sic!), ha ancora una voca casta che seduce con calore e fascino: ha acuti debilitanti che impongono la resa di ogni senso”,  prosegue Mico: il quale ha certamente almeno 25 anni.

Colta, cattiva, riservata, senza amici al di fuori della band, senza fidanzato fisso: è questa l’immagine che Siouxsie Sioux ha saputo creare e conservare negli anni. Un tipo che ben si adatta all’autrice di danze macabre e cantilene blasfeme. I suoi brani più celebri, “Icon”, “Cascade”, “Mother I Promise”, parlano di esaltazione della disperazione, Amore & Morte (sempre saldamente uniti) putrezioni varie. Se assurgessero alla dignità di studi per semiologi le liriche del gruppo susciterebbero certo curiosità per il numero di insetti e parassiti che ne sono protagonisti. Stupire e far inorridire, d’altronde, era un obbligo del punk. Con i suoi modi, con i suoi vizi e anche con il suo abbigliamento Siouxsie ha comunque creato una scuola.

Gioielli di plastica, vestiti sado maso, bustini ecc. esistevano ben prima di Madonna (che semmai li ha colorati)  e Siouxsie lo dimostra. E chi non ricorda l’abbigliamento del periodo “piratesco” di Adam Ant, i primi costumi da neo-romantica gioventù degli Spandau Ballet? La signora Sioux e le sue streghe (La Banshee è la donna la cui apparizione annuncia la morte nella mitologia irlandese) sopravvivono a discepoli e imitatori. Sino a riuscire dalle loro nebbie per venire al sole di Taranto. Non resta che chiedersi con Ted Nico: “che bisogno abbiamo di eroina e morte, quando notti come queste ci fanno fare voli così elevati?”

Daniela Pinna © Corriere del Giorno
(21.07.1985)

Arti, Professioni, Mestieri

Primary, vent’anni di live sulle orme dei Cure.

Sui palchi dal 1999, i torinesi “Primary” sono un punto fermo per la promozione dell’arte musicale di Robert Smith & The Cure nel Nord Italia.

Marco Isaia e Riccardo Guido li abbiamo incontrati in occasione di un raduno dark wave tenutosi a Ferrara, e nel vederli sul palco abbiamo immediatamente riconosciuto la loro esperienza e sicurezza tipica delle band ormai collaudate, solide, con la padronanza del repertorio e la professionalità delle esecuzioni che soltanto il tempo e la militanza live possono attribuire. Le storie personali dei Primary, infatti, partono da lontano.

“Fondammo la band nel 1999” – dice Riccardo  (Rik) – ma ognuno dei componenti aveva un’esperienza pluriennale in campo musicale, con numerosi progetti alle spalle, alcuni dei quali ancora attivi.

Abbiamo sempre realizzato la nostra musica originale (con varie formazioni come TeaTime, Umornoir, Merce Vivo, Estetica Noir), ma parallelamente abbiamo sempre coltivato il nostro interesse per l’esperienza delle  tribute/cover band (con gruppi come Mr Frankly The Smiths Cover, Control Joy Division Cover, The Reflex Duran Duran Tribute Band, Sneakers Depeche Mode Tribute Band)”.

Grazie a questa versatilità, i Primary in tutti questi anni sono sempre stati al centro di numerose collaborazioni con altre cover band dell’area torinese: esperienze, queste, tuttora aperte. Marco Isaia (Voce e Chitarra), Luca Lazzaroni (chitarra), Riccardo Guido (basso), Enrico De Stefani (keyboards) e Fabio Prettico (Drums) sono un gruppo di musicisti di lungo corso.

“Nel 1999, grazie alla volontà di un gruppo di amici, trovammo nel mondo immaginario creato dalla musica dei Cure un territorio dove ritrovarsi, divertirsi e appassionarsi alla musica suonata dal vivo. La formazione originaria, (voce, due chitarre, basso e batteria) rimase stabile per diversi anni, fino  all’integrazione delle tastiere, che arricchirono il suono grezzo degli inizi e hanno poi contribuito significativamente ad ampliare il repertorio verso atmosfere più raffinate, ma sempre caratterizzate da un forte impatto live.

 

Dopo un periodo di stasi di alcuni anni, in cui i membri originari intrapresero nuovi e diversi percorsi musicali, il gruppo ha ritrovato forza e motivazione con una formazione che in parte ricalca quella originale e in parte include i membri di un’altra cover band dei Cure di Torino, gli Other Voices, amici e compagni di viaggio del percorso Primary”.

“La formazione attuale (voce, due chitarre, basso, batteria e tastiere) ha ripreso vita con una serie di concerti caratterizzati da una profonda ricerca sonora che spazia ampiamente nel repertorio dei Cure, dai pezzi dell’esordio del 1979 tratti da Three Imaginary Boys fino al 2008 di 4:13 Dream, passando per i classici degli anni ’80-’90 senza trascurare sonorità più cupe e malinconiche che caratterizzano distintamente i Cure nel panorama del dark/gothic rock. Ne sono un esempio i brani meno noti al grande pubblico e a noi molto graditi: spesso li riproponiamo nei live, come quelli tratti da 17 Seconds, Faith, Pornography, The Top, The Head On The Door, Kiss me Kiss me Kiss me, Disintegration, Wish, Wild Mood Swings e Bloodflowers”.

Grazie all’ampiezza del repertorio accumulato in più di venti anni di vita musicale, la band ha proposto in diverse occasioni delle serate “a tema”, dedicate a diversi album dei Cure, suonati interamente dal vivo in occasione di importanti ricorrenze temporali. Ne sono state un esempio le serate intitolate “Primary play Pornography”, “17seconds x 40 years” e “30 years of Disintegration” dedicate interamente a tre degli album più belli della discografia dei Cure.

Abbiamo chiesto ai Primary se abbiano mai conosciuto o incontrato direttamente The Cure.

“Purtroppo no” – ci dicono Rik e Marco –  “ma il nucleo originario della band si conobbe proprio ad un concerto dei Cure, nel 1996. Tre anni dopo iniziammo a suonare con una formazione embrionale, con l’attuale cantante nelle vesti di chitarrista e un giovanissimo cantante del tutto improvvisato, poi dipartito per divergenze musicali. La formazione attuale conserva ancora due dei membri originari, dopo più di 20 anni di amicizia e musica insieme”.

Nel corso di tutti questi anni, qual è l’opinione che avete maturato sul valore artistico dei Cure e sul loro successo?

“Abbiamo sempre riscontrato, in tutti i concerti, questo  trasporto del pubblico, questa attrazione che la musica dei Cure esercita verso quella “discesa catartica” nel loro  mondo visionario: hanno sempre saputo descrivere atmosfere assolutamente originali,  poi sempre imitate da tutti i gruppi dell’ambiente dark wave. I loro  intrecci di chitarre, i tappeti di tastiere e le liriche evocative  richiamano immagini sognanti e allucinazioni che tutti in qualche modo, prima o poi, vivono nella propria interiorità. E’ una musica profonda, profondissima, quella dei Cure. Addentrarsi là dentro é la nostra impresa quando saliamo sul palco, e condurre il pubblico in questo mondo visionario è ciò che ci gratifica”.

Quali sono le prospettive per una tribute band come la vostra ….

“Suonare è un piacere, purtroppo però ci rendiamo conto che non possiamo farlo diventare una professione. Siamo appassionati, ma ognuno di noi ha i propri (molti) impegni. Non per nulla continuiamo a calcare palchi cittadini, con qualche puntata estemporanea fuori regione (Lombardia, Liguria, Emilia Romagna), sempre molto gradita. Non abbiamo impegni a breve termine, siamo aperti ad occasioni che ci facciano stare bene e che possano offrire la nostra musica agli appassionati e a chiunque apprezzi la musica dei Cure”.

Quella di una coverband è una cultura che guarda al passato: l’approccio ad un nuovo pubblico attuale rende difficile la comprensione di messaggi artistici che richiedono una preparazione musicale e una conoscenza differente da quella ormai imperante?

Forse i Primary sono una tribute band anomala, che non si trucca, che non scimmiotta i Cure e che suona i Cure senza atteggiarsi troppo da Cure: noi pensiamo a questa musica come a un  “veicolo” che emotivamente può condurre chiunque in quel mondo effimero, in quella oscurità dei sogni in cui capita, talvolta, di voler sprofondare. Noi crediamo che queste sensazioni possano essere colte e vissute anche da un pubblico che non conosce in modo specifico l’arte dei Cure: ci emoziona sempre riuscire a trasmetterla e osservare il modo in cui essa venga recepita”.

Marcello Nitti © Geophonìe

(07.04.2021)

 

SYNNE SANDEN | “Sentire” e rinascere.

E’ stato appena pubblicato un E.P. di sei brani dell’artista norvegese, intitolato “Swallowed”  (2021, Nordic Records).

Nel campo dell’arte, esprimersi in solitudine e in raccoglimento è qualcosa di necessario per splendere di consapevolezza e verità: osservare se stessi, e riconoscere le proprie sofferenze, è il percorso che aiuta l’artista ad esprimersi in totale sincerità.

Synne Sanden, musicista norvegese, crea e modella la propria arte ricamando armonie che richiamano dolore e rinascita. La sua musica è colma di verità, carica di umana sofferenza in cerca di libertà.

Da pochi giorni Synne Sanden ha pubblicato “Swallowed”, un EP di sei brani che  ad occhi chiusi ci accompagna in un mondo immaginario e solitario intriso di atmosfere ed emozioni evocative di vuoti esistenziali.

Una relazione sofferta e soffocante può celare alla radice problemi mai risolti, o ancora di più, mai affrontati. Il cercare di imporre la propria forza conduce in un luogo dove i sogni di bellezza vengono annullati con freddezza.

La potenza evocativa prodotta dal dolore viene espressa in arte da Synne Sanden, nel suo lavoro realizzato in collaborazione con Øyvind Blikstad che interviene con maestria orchestrando momenti di calma apparente e furore di riscatto.

 

 

Apre Skeleton che abbiamo ascoltato nell’ultimo album “Initiation” e l’arte di Synne Sanden si afferma subito: un cantato struggente e toccante fugge dal legame di forza e dal possesso.Sostenuto da un video bellissimo che racchiude il sentimento delle terre del Nord fatto di simboli e sguardi profondi, si viene trasportati in un sogno danzante e colmo di mistero. Musica avvincente e teatrale. Un capolavoro interpretativo.

 

Dall’inconscio emerge In the Mud, e la scena diventa intima, di fuga e di silenzio per abbandonarsi in Meltdown, che Synne Sanden con voce sublime e sorretta dalle orchestrazioni Wagneriane di Blikstad  esegue con un’interpretazione affascinante.

A seguire Swallowed, il cui tappeto sonoro si fa aritmetico e avanguardista, e dove la voce della Sanden crea un gioiello di intensa emozione: un brano da palcoscenico di altissimo livello.

Paint your fence è stupenda. Un inseguirsi di stati d’animo qua e là sostenuti dalle meravigliose fughe di Blikstad.Una ricerca chiara, forte e assoluta di libertà da un amore finito, malato e accusatorio.

In sintonia arriva Brick by brick, dolce e rassicurante dove le armonie di Synne Sanden scendono nell’intimo per condurre con amore verso la luce.

Un lavoro di grande evoluzione personale per Synne Sanden. Espressione che proviene dall’Io profondo, per approdare ad una propria dimensione di verità e consapevolezza.

L’unione artistica con Blikstad convince, e il tutto ribolle come lava che accende le speranze e ci conduce a un “sentire” oltre.

www.synnesanden.com

Synne Sanden & Øyvind Blikstad / Swallowed EP 2021

Etichetta | Nordic Records

Marcello Nitti © Geophonìe

06.04.2021- riproduzione riservata

Nocturne, dal Veneto sulle tracce di Siouxsie


Il progetto del prossimo Medimex in Puglia, sul tema del punk-new wave, anche se ancora in fase di definizione, ha destato l’interesse di tribute band nazionali e  circuti culturali, specie nel Nord Italia. Anche i Nocturne continuano a promuovere e diffondere questa musica che dagli anni ’80 sino a tutt’oggi non ha mai smesso di esercitare un fascino notevolissimo.  Alcune formazioni hanno già una storia nel clubbing italiano, altre si propongono oggi, a dimostrazione di quanto ancora vitale sia un genere e un ambiente artistico che continua a proporsi, a rinnovarsi e a produrre.

 “Abbiamo formato la band a Bassano del Grappa in tempi abbastanza recenti, nel 2018” – racconta Ombretta – “nelle prime nostre apparizioni abbiamo esordito con il nome NoBlinkers. L’intento era quello di celebrare le principali bands della new wave come i The Cure, The Sound, Killing Joke e Siouxsie and The Banshees. La formazione era così composta: Shadine Reds (voce); George Blased (chitarra); Mark Hook (basso); Morris Le Baptiste (batteria). In seguito al successo di un nostro  live al Dublin Castle Camden a Londra, il 5 ottobre del 2018 – dove ci era stato chiesto esplicitamente di eseguire solo brani di Siouxsie and The Banshees – la band, rientrata in Italia, ha deciso di cambiare il nome in NOCTURNE – Siouxsie and The Banshees Tribute Band. La formazione è rimasta la stessa ma con l’inserimento un nuovo chitarrista, Luke Ritz. Con lui si è instaurato da subito un rapporto costruttivo e di continua crescita. Siamo un gruppo accomunato da una grossa passione nei confronti di Siouxsie, siamo entrati subito in sintonia”.

Abbiamo chiesto ai Nocturne quali sono state le prime tappe del loro percorso.

 “L’esordio dei Nocturne in Italia è avvenuto al “Vinile” a Rosà (VI) il 12 aprile 2019, luogo cult della scena punk degli anni 70-80-90 e tuttora. Altro locale storico è il Black Star a Ferrara, dove partecipiamo spesso agli eventi principali delle loro programmazioni, come la reunion di band post punk per la festa di Halloween: il  31 ottobre 2019 eravamo lì con altre band nazionali, serata emozionante. Molti appassionati, quella sera, hanno riconosciuto la grinta, l’ermetismo, l’essenzialità e la nostra capacità di reinterpretazione dei brani, noi cerchiamo di riproporli con una nostra visione,  pur mantenendo l’essenza dei pezzi originali”.

La storia musicale dei componenti attuali dei Nocturne parte da lontano …

“Si, è vero. I “Frigidaire Tango”, di cui fa ancora parte Morris Le Baptiste, suonarono come gruppo spalla dei The Sound nel febbraio del 1983”, continua Ombretta. E il batterista Morris racconta: “I Sound avevano in programma alcune date nel Nord Italia, il 14 nei pressi di Bologna (Teatro Disco Puntacapo), il 15 a Milano (Teatro Orfeo), il 16 a Vicenza, il 17 a Firenze (Manila) e il 18 nei pressi di Brescia, precisamente a Rezzato. Dopo quattro date erano terminati i soldi della produzione per pagare le spese dei Frigidaire ma Adrian Borland ci volle con loro per terminare il tour pagando di tasca sua le spese necessarie. Gesto generoso da parte di Borland, persona riservata e discreta”.

Morris ci racconta un altro aneddoto.

“Ricordo che il batterista Mike Dudley si presentava in taxi ad ogni data, faceva il sound-check e rientrava in taxi all’albergo, poi al momento del live ritornava, sempre col suo taxi. Non riuscii mai a confrontarmi con lui riguardo il nostro strumento, preferiva ritornare in albergo e rispettare uno stile di vita sano.  A vederli erano ragazzi tranquilli” – dice Morris – “erano semplici, lo saranno ancora adesso credo … quando però salivano sul palco e iniziavano a suonare si trasformavano. Tutta la loro energia si sprigionava con una forza dirompente alla quale non potevi sottrarti. Il nome della band non poteva essere più azzeccato”.

Abbiamo conversato con i Nocturne parlando dei motivi del loro interesse specifico per Siouxsie.

“Inizialmente l’interesse della band era rivolto a diversi gruppi, come già detto. L’interesse specifico per Siouxsie è nato dopo aver visto il live della band alla “Royal Albert Hall” a Londra, con Robert Smith alla chitarra. In quel concerto strepitoso, dove l’incipit è affiddato alla “sagra della primavera” di Igor Stravinsky, ci sono i brani più belli della discografia dei Siouxsie and The Banshees, da Israel che apre il concerto, a Melt, Painted Bird, Spellbound, Arabian Knights, Monitor, Sin in my heart, Halloween: tutti brani raccolti nell’album “JuJu” dove la chitarra fa la differenza con John McGeoch.  

E’ l’album più apprezzato dalla critica, e considerato anche da noi una pietra miliare del post punk proprio per l’utilizzo non convenzionale della chitarra e le performance vocali di Siouxsie. Amiamo molto anche gli album precedenti, naturalmente: “Kaleidoscope” con tracce come Happy House, Christine, Paradice Place e “The Scream” che fu un punto di riferimento per altre band importanti del periodo come ad esempio per i Joy Division, e che raccoglie brani per noi fondamentali, come Hong Kong Garden, The Staircase e Mirage”.

E’ un momento difficile per i progetti ….

“I progetti futuri, vista l’emergenza Covid, si focalizzano sulla ripresa dei live nei luoghi ove la musica dei Siouxsie and The Banshees è apprezzata. Recentemente, grazie alla presenza nella band di Morris,  abbiamo iniziato a scrivere brani inediti. I “Frigidaire Tango” sono un’origine di cui andiamo fieri, fu una band che agli inizi degli anni ‘80 attirò l’attenzione dell’ambiente musicale alternativo. Proprio in questo periodo, visto il riposo forzato, ci stiamo dedicando agli arrangiamenti, ma anche alla nascita e allo studio di un nostro nuovo progetto”.

Chiediamo ad Ombretta, la Siouxsie della band, quale possa essere il senso di una tribute band oggi, con una musica che guarda al passato ed un pubblico attuale ormai lontano dal clima culturale di quegli anni ….

“I Nocturne cercano di riproporre i brani dei Siouxsie and The Banshees richiamandone, quanto più fedelmente possibile, alcune di quelle atmosfere sonore. E’ uno spettacolo che cerca di trasmettere anche il valore di certi dettagli: l’aspetto visivo ha la sua parte, il make-up pesantissimo, la parrucca nera, quegli abiti sado-maso, erano lo specchio di un disagio e delle difficoltà che la società di quei tempi esprimeva anche attraverso l’abbigliamento, oltre che attraverso i testi e le sonorità. Tutto aveva un significato ben preciso e per comprendere i messaggi di questi gruppi punk occorreva una certa sensibilità musicale, una preparazione. Il prodotto artistico che emerse da tutto questo fu di alto livello, creò una nuova estetica, il fascino suadente e inquietante, ma allo stesso tempo elegante di Siouxsie Sioux, fu di grande impatto, fu un personaggio originale ed eclettico. L’attuale cultura musicale è ben lontana da quelle atmosfere. L’attuale mercato, le trasmissioni televisive sono legate all’apparire e ad “avere tutto subito senza fare fatica” …  sappiamo benissimo che non funziona proprio così!”

Il Medimex potrebbe essere un momento di grande festa, con incontri speciali che gli “addetti ai lavori” hanno desiderato per lunghi anni.

“Abbiamo letto sui giornali che tra i nomi degli artisti richiesti potrebbe esserci proprio quello di Siouxsie, sarà difficile, sappiamo che lei è lontana dalle scene da diversi anni, ma chissà: noi vogliamo sperare. E ci piacerebbe tanto essere lì. Un raduno delle migliori tribute band italiane sarebbe un momento di aggregazione che passerebbe alla storia, e che difficilmente si ripeterà. La manifestazione del Medimex ci sembra adatta, vista la varietà dell’offerta di eventi e la pluralità di location che pare possano essere scelte, tra i capoluoghi e quei fantastici Comuni della provincia pugliese. Conosciamo bene la storia della new wave degli ’80, e di quei primi eventi che si realizzarono proprio lì”.

(04.04.2021) Marcello Nitti © Geophonìe

Heart And Soul, dai Joy Division ai Permanent

Dal Veneto al Belgio, all’Olanda, a Berlino: storia dei Permanent,  fenomenale tribute band italiana che ha emozionato Peter Hook.

Permanent (da sinistra, Alice Nick, Agostino,Cosimo, Alex)

Chi vive nel Nord Italia e frequenta i circuiti del clubbing si sarà certamente imbattuto in un uno dei tanti eventi che in questi anni, un po’ ovunque, hanno offerto spazio alle performance dei Permanent, la band veneta che con oltre cento concerti già realizzati ha riportato la musica dei Joy Division sui palcoscenici della musica dal vivo. E chiunque abbia avuto l’occasione di vederli non ha potuto nascondere il proprio stupore, per l’intensità trasmessa, la potenza sonora, la capacità espressiva, la perfezione tecnica: “sembrano migliori dei Joy Division”, è il commento che regolarmente circola e serpeggia nel pubblico, che ad ogni performance viene sopraffatto dall’emozione di una grande musica finalmente riproposta con maniacale precisione, con un approccio rispettoso e professionale che svela un lungo, costante studio, e un grande amore.

Lo stivale è lungo da percorrere, la Puglia, e in generale il Sud Italia, sono le aree che non hanno ancora ospitato questo ensemble di musicisti che scorazza da anni nel Nord e nel Centro Italia. Un’occasione potrebbe essere offerta dal Medimex, la rassegna realizzata nel 2019 in Puglia, e che nel 2020 era in corso di preparazione proprio sul tema della New Wave. L’organizzazione ha dovuto registrare la necessaria battuta d’arresto indotta dalla pandemia, e anche per il  2021, sullo stesso tema, tutto è ancora da definire.

Permanent (31.10.2018, Circolo Blackstar, Ferrara)

“La band dei Permanent si è formata a Padova nel 2016” – ci raccontano Nick e Alice – “Tra le prime prove della band e il primo concerto trascorsero una manciata di mesi, ma da quel momento ogni stagione è stata una escalation, fino a raggiungere e superare i 100 concerti. Nel Maggio 2019 abbiamo ricevuto una mail inattesa da parte di Peter Hook che ci ha nominati Tribute Band Ufficiale Italiana, un’emozione grandissima: per noi ha rappresentato un nuovo tassello aggiunto a questo percorso,  in continua evoluzione”.

I Permanent sono stati in questi ultimi anni richiestissimi.

“Abbiamo avuto il piacere di suonare nei live club in mezza Italia, alcuni storici come l’Exenzia (PO), Vinile (VI), Blah Blah (TO), Base Milano (MI), Mikasa (BO), Midnight (BG) ma anche molti locali da Trieste a Genova, passando per Firenze, Pavia, Parma, Bergamo, fino ad arrivare in Belgio, Olanda e Germania”.

Alice Costantini (31.10.2019, Circolo Blackstar, Ferrara)

“Nel Giugno 2019, in occasione del quarantennale dall’uscita di Unknown Pleasures, si è tenuto il primo raduno Italiano dei fans dei Joy Division presso il Parco della Musica di Padova, con la partecipazione di appassionati arrivati da diverse Regioni Italiane. In questo evento, a cui abbiamo contribuito in parte anche con una nostra collaborazione artistica, è stato eseguito l’intero album Unknown Pleasures con le b-sides dal vivo tutto d’un fiato, sul palco delle grandi occasioni. Nel pomeriggio si svolse un reading tematico, con storia,  aneddoti e live in acustico, regali e coinvolgimento dei partecipanti con alcuni semplici quiz. E’ stato un evento unico che speravamo di poter replicare, prima di essere “interrotti” nel 2020 dalla situazione attuale che purtroppo permane”.

Sono stati anni on the road, con il furgone sempre pronto e carico di strumenti, in giro per mezza Italia, tanti incontri, nuove amicizie, serate emozionanti. “Sicuramente tra gli eventi che più spesso ricordiamo, ci sono quelli all’estero. A volte non solo per il live, ma per tutta l’esperienza condivisa insieme, il viaggio, gli incontri, gli inconvenienti, i paesaggi. Il primo viaggio non si scorda mai! Il primo fu in Belgio, con un furgone a noleggio, la visita all’ex Le Plan K (il club in cui i JD si esibirono e Ian incontrò Annik, durante il loro primo tour extra UK), i pasti saltati perchè alle 20:00 dovevamo essere sul palco, o quelli improvvisati nelle panchine di un distributore, l’incontro quasi rocambolesco con il cantante di una band post punk 80s con cui condivdemmo una serat: si trattava di una band che a suo tempo era uscita con un pezzo e un clip in buona rotazione, e che diventò poi la nostra “colonna sonora” per il resto del viaggio”.

Essere ingaggiati da grandi club all’estero rappresenta un momento di grande soddisfazione per una tribute band italiana, è il segno concreto di una notorietà in crescita, dimostrativa del fatto che si è seminato bene anche sul versante della comunicazione.

“Emozionante per noi è stata anche l’Olanda, con tutto ciò che quel viaggio ha comportato,  dagli inconvenienti con i copiosi autovelox, alle bellissime città, all’hotel da “vere star”: la partecipazione delle persone del posto era diversa da quella italiana, era eccitante l’incontro con chi si era fatto qualche centinaio di km per esserci quella sera”.

Cosimo Mitrugno e Alice Costantini (12.10.2019, Circolo Arci, Parma)

Poco prima del lockdown, il vostro momento più bello.

“Si , certo. E’ stato l’ultimo live prima del lockdown, a Berlino. Un sogno che si realizzava, la città tappezzata di manifesti, l’agitazione di chi quella stessa sera inaspettatamente  diventava papà praticamente sul palco: era il nostro chitarrista, Cosimo Mitrugno, lo abbiamo festeggiato suonando.  Fu piacevolissimo l’incontro con Mario Usai, musicista sardo di nascita ma residente in Germania, che ormai da anni milita nei Clan of Xymox. Abbiamo avuto l’onore di poter suonare con lui Transmission quella sera. E’ stata emozionante, poi, la sorpresa di alcuni amici Italiani che si erano organizzati per essere lì quel weekend e supportarci!”

Il Nord Italia, però, resta una base fondamentale per voi.

“Certo, abbiamo avuto l’opportunità di esibirci moltissimo, ricordiamo anche con grande emozione l’esperienza genovese, in una location che si affacciava sul mare: la mattina seguente non potemmo risparmiarci il giro d’obbligo al Cimitero Monumentale Staglieno, luogo in cui sono state scattate le foto poi divenute la copertina di Closer e di diversi singoli in vinili, ufficiali e bootleg. In questi anni vi sono stati molti eventi che ricordiamo sempre con piacere: sono quegli eventi in cui abbiamo condiviso il palco con altre tribute band. E’ sempre bello avere anche questo tipo di scambi con realtà diverse e musicisti  accumunati dalla stessa passione per un periodo musicale a cui molti artisti ancora oggi si ispirano”.

Nick Gallup (Permanent)

E dopo tanti concerti, finalmente, il magico incontro.

“Il 29 Agosto 2019 abbiamo incontrato Peter Hook, durante la sua tappa Italiana con i The Light. Eravamo riusciti a contattare il suo staff per ottenere un breve incontro post concerto, e dopo uno scambio di mail nei mesi precedenti ricevemmo l’ok dal suo tour manager, qualche giorno prima della data. Il concerto è stato trascinante, è stato bello poter ascoltare assieme a tanti amici e fans quegli stessi brani che poi riproponiamo anche noi,  ma eseguiti da chi quei pezzi li ha scritti, arricchiti da arrangiamenti sicuramente fedeli ma personalizzati al sound della sua nuova band. La cosa divertente è che, per prepararci a questo grande giorno, avevamo pensato di preparare qualcosa di locale da regalargli. E così abbiamo composto un pacco con alcuni prodotti legati al nostro territorio, considerando  anche il problema che poi in aereo potesse costituire un problema portare liquidi o vasi troppo grandi. Il vino è stato quindi escluso a priori, anche perché avevamo scoperto che Peter Hook non beve alcun alcolico. E così, in questo pacco si è trovato Bigoi de Bassan, Mostarda Veneta, Fagioli di Lamon, Bibanesi e varie cose particolari e forse inusuali … chissà se poi sarà riuscito a cucinare qualcosa! Abbiamo anche inserito un nostro demo acustico completato proprio in tempo per l’incontro, adesivi e gadget vari, ma soprattutto la nostra maglietta che simpaticamente poi lui ha indossato, e con cui l’abbiamo visto anche andare verso l’hotel a fine serata: quindi le foto di rito, ma anche le frasi scambiate, quando lui ci ha chiesto scherzosamente se avessero suonato meglio loro, quella sera, o noi, o quando leggendo dalle nostre maglie il nome Permanent ha esclamato: “Oh, the official!” Questo incontro è stato un momento unico e ancora fatichiamo a credere sia avvenuto davvero … per fortuna ci sono le foto a testimoniarlo”.

Qual è il senso ed il valore della musica dei Joy Division oggi?

Crediamo che il valore artistico dei JD risieda nella capacità della band di parlare al “cuore e all’anima” delle persone, con arrangiamenti relativamente semplici e immediati, abbinati a suoni scarni e secchi utilizzati in maniera allegorico – descrittiva (vetri infranti, bottiglie che si rompono … sono chiaramente allusivi) e a  testi introspettivi, colti e incredibilmente schietti. Ian guardava dentro sé stesso, consapevole delle sue crescenti difficoltà e mettendo a nudo senza paura i lati deboli di un essere umano sempre più disilluso e  verso il baratro (“Let’s take a ride out / To see what we can find / A valueless Collection of /hopes and past desires” (24 hours); “guess the dreams always end/they don’t rise up just descend/ but I don’t care anymore / I lost the will to want more” (Insight).

Agostino Taverna (Permanent)

“Portando in giro la musica dei Joy Division, abbiamo sempre riscontrato questo coinvolgimento interiore che la loro musica – a distanza di 40 anni – riesce a realizzare tuttora, anche verso un ascoltatore solo mediamente attento. Lo vediamo con chiarezza alla fine dei concerti che facciamo” – dice Nick – “quando molte persone, da ogni parte di Italia /Europa, che evidentemente non si conoscono tra loro, esprimono concetti simili a commento della loro esperienza del live appena vissuto: spesso ci è capitato di parlare con persone che, con occhi brillanti e finanche umidi, dichiarano apertamente ad estranei di aver superato periodi tremendi o di aver scongiurato addirittura pensieri autodistruttivi attraverso l’ascolto (attivo, profondo, fatto proprio) dei testi di Ian, ricavandone un’immagine nitida del suo sacrificio per aver tanto precisamente guardato in faccia i meandri più oscuri e paurosi dell’animo umano: ascoltare la sua musica, leggere quei testi, incoraggia a resistere ed a portare avanti quei sentimenti che alla fine hanno fatto soccombere Ian stesso, ma dato loro una ragione (in più) per vivere, intensamente e consapevolmente, la vita e i suoi percorsi”.

“Se la musica dei JD, senza essere orecchiabile, annovera adepti sempre nuovi anche al giorno d’oggi è perché è già dentro di noi” – continua Alice – “ toglie solo le barriere e i veli che abbiamo tra l’immagine figurativa di noi stessi e la scoperta del nostro vero essere (“Existence well what does it matter? / I exist on the best terms I can / the past is now part of my future / the present is well out of hand“ (Heart & Soul)”.

Il futuro della tribute band è legato alle opportunità di esibirsi ancora dal vivo:

“Viviamo di continue innovazioni e stimoli reciproci. Nel 2018 abbiamo debuttato come  trio semi-acustico, ora molto richiesto anche in risposta alle esigenze dei locali  derivanti dalla pandemia in atto (spazi ristretti, budget..anche!). Ci siamo confrontati e, dato che i Joy Division hanno un repertorio relativamente ristretto di pezzi, abbiamo concluso che le esigenze attuali di “commerciabilità” dei concerti richiedono ora più flessibilità sia nell’offerta artistica che nella formazione sul palco. Abbiamo elaborato il progetto di offrire al pubblico ed ai locali  tipi diversi di spettacolo, modulabili in base alla formazione (quintetto, trio, anche duo elettronico), al target (locale dark, locale “normale”, festa privata, raduno fans…) ed alle esigenze del committente”.

“Il nostro progetto per l’immediato futuro è proporre il sequel dei Joy Division, ovvero i New Order, proponendone i brani più significativi a cominciare da quelli composti nell’immediatezza della loro formazione (1980/81). Un primo concerto, tenutosi il 26 settembre 2019 in provincia di Treviso, ha dato esiti molto favorevoli, con il coinvolgimento di pubblico proveniente da località anche molto lontane”.

“Stiamo ripensando l’offerta artistica, con arricchimenti in corso di implementazione, come i visual. Le ristrettezze dettate dalle normative anti covid hanno certamente ridotto le occasioni di suonare, aprendo tuttavia altre occasioni a maggior valore aggiunto, da trovare e realizzare con i gestori/committenti. E’ chiaro, però, che il nostro desiderio è quello di poter risalire su un grande palco a cielo aperto, insieme a tanti altri musicisti e, perché no,  anche accanto a qualcuno dei nostri idoli. Per questo, il programma annunciato dal Medimex ci ha immediatamente allertato. Sarebbe un onore per noi suonare lì, dove si sono esibiti nell’ultima edizione giganti come i Kraftwerk e Patti Smith, e dove si parla oggi di nomi come Siouxsie, Psychedelic Furs, Pretenders, Simple Minds, New Order e Bauhaus”

Marcello Nitti © Geophonìe

 

Verso il Medimex 2021

medimexLa manifestazione musicale volge alla sua decima edizione.

ll Medimex, International Festival & Music Conference, promosso dalla Regione Puglia con progetto di Puglia Sounds, è stata una manifestazione che in questi anni ha assunto grande rilievo culturale, sociale e artistico. Ma la pandemia del 2020, quando si programmava la sua decima edizione, ha purtroppo costretto il management a spegnere i motori e  restare in fiduciosa attesa: l’edizione in programma dal 16 al 25 aprile venne rinviata a data da destinarsi, ma per quella del 2021 si credeva – e si crede ancora – che non tutto sia perduto. Dipende dall’emergenza nazionale  e dal lockdown, la cui gestione muta di giorno in giorno.

Il Medimex nacque nel 2011, dalla volontà di Puglia Sounds di costruire un’occasione d’incontro reale tra la scena musicale italiana e quella internazionale e la manifestazione venne concepita come momento di crescita e sviluppo per il mercato della musica pugliese e italiana. Il progetto era ed è quello di attrarre in Puglia i migliori player internazionali e di investire sulla musica come strategia regionale per diffondere i valori trasversali e universali che la cultura europea promuove: diversità, inclusione, capacità di ispirare positivamente il pubblico; ma anche come fattore in grado di generare occupazione, favorire la crescita economica e promuovere l’innovazione digitale.

Storicamente il Medimex esordì come luogo di confronto tra le musiche del Mediterraneo, crebbe come Salone dell’Innovazione Musicale e si è poi evoluto in International Festival & Music Conference, dal 2017, sul modello della music week, al passo con i cambiamenti del settore musicale.

L’edizione del 2017 fu quella che segnò il cambiamento più radicale della manifestazione. Lasciata la Fiera del Levante di Bari, che ospitava il salone espositivo, il Medimex invase  le strade del capoluogo pugliese con i suoi molteplici appuntamenti per il grande pubblico, e grazie anche a un nutrito calendario di attività rivolte ai professionisti del settore musicale raggiunse il sold-out delle strutture ricettive sul territorio. La presenza di pubblico è stata negli anni a seguire  eccezionale, ed importante è stata l’offerta tra gli stage, con grandi eventi e appuntamenti professionali e di formazione.

All’edizione 2017 di Bari sono seguite un’edizione a Taranto nel 2018  e due edizioni a Foggia e a Taranto nel 2019. Il Medimex è diventato itinerante. Il progetto ha cominciato a coinvolgere altre città oltre Bari. L’intera regione si è aperta al pubblico, agli operatori e agli artisti.

Questo appuntamento annuale, entrato nelle agende del mercato musicale italiano e internazionale, rappresenta una grande risorsa per chi voglia sperimentare la scena musicale globale attraverso l’incontro, l’approfondimento, la creazione di reti e la promozione del proprio lavoro. Il Medimex è una Festa della Musica con decine di concerti, dj set, mostre, proiezioni e numerose attività off. E mentre i grandi nomi internazionali contattati sono in attesa di conferme, anche un’altra generazione di artisti e appassionati guarda alla manifestazione, desiderosa di offrire un proprio contributo e di trovare uno spazio di visibilità: proprio come tanti di quei gruppi punk-new wave che nei primissimi anni ’80 trovarono proprio in Puglia le loro prime opportunità per esibirsi di fronte a un grande e nuovo pubblico.

Se il Medimex riuscirà a riportare sul suolo pugliese quei gruppi emergenti di allora, oggi vecchie glorie affermate e ancora amate, sarà un’esperienza emozionante poter affiancare alle grandi performance anche altri eventi musicali: come in una sorta di passaggio di testimone generazionale, che rievocando e alimentando una storia sociale e musicale che ci fa onore, vedrà la Puglia ancora artefice di una splendida continuità.

Marcello Nitti © Geophonìe

10.10.1984 John Cale l’instancabile

Corriere del Giorno, 10.10.1984

Rock /  “Caribbean Sunset”

Sornione e con pacata naturalezza, disteso a meditare su una spiaggia, forse caraibica, John Cale  ex Velvet Underground e punta di diamante di un rock arcano e sanguigno, continua imperterrito

a pubblicare  “solo”  di lucida bellezza. New York è oramai la sua città, come. per tanti musicisti. Le storie sono quelle di sempre; l’amore, le delusioni, il mare, il sole. Ascoltare questa sua ultima fatica, “Caribbean sunset», mi fa tornare indietro a certe sonorità di “Another green world» di Brian Eno, quasi a voler dimostrare un profondo amore per il passato.

«Villa Albani», contenuta nell’album, ha evidentemente contagiato John Cale, interessandolo a certe forme di antica bellezza e di amori passati, L’intero lavoro contiene le tipiche basi del suo modo di fare musica, semplici ballate intrise nella  sua voce roca e la sua inconfondibile e fedele viola che oramai lo segue dappertutto. Lo accompagnano Dave Young (chitarra e voce), Andy Heermanns (basso e voce), Dave Lichtenstein (batteria) e, sorpresa finale, Brian Eno (alle tastiere).

Quindi il sodalizio che inizia in quel famoso 1° giugno del 1974, in uno storico concerto insieme a Nico, Kevin Ayers, Rober Wyatt, Olleie Halshall, Mike Oldfield ed altri, continua nelle note di questo “Caribbean Sunset” che certamente stupirà più di qualcuno.

“Hungry for love”, contenuta in questo “tramonto caraibico” è grezza e ruvida, come nella migliore tradizione “caleiana”.

Dolce e ritmica come se fosse un metronomo a protrarre il tempo, è proprio “Caribbean Sunset”, protesa a raggiungere l’origine di quei raggi di sole che ancora illuminano l’ex compagno Lou Reed.

In definitiva il John Cale di sempre. Gli anni passano, la voglia di far musica rimane inattaccata. Continuare a fare ciò in cui si crede: forse è proprio questo che John Cale vuole  dirci.

Marcello Nitti © Geophonìe

04.09.1984. Quattro gentleman rock i raffinati Ultravox

Corriere Del Giorno, 04.09.1984

di Claudio Frascella.

E’ domenica sera, intorno alle 20. Vicino al Tursport, sede dell’avvenimento musicale dell’anno, il concerto degli Ultravox, non c’è più un posto dove sistemare un’auto. Parcheggio di ripiego diventa il lungo viale del Faro o una delle strade adiacenti. Una lunga fila ai botteghini: molti hanno occupato all’interno del campo sportivo i primi posti dal pomeriggio. I ritardatari si affrettano ad acquistare il biglietto scivolando  all’interno del Tursport, correndo, accosciandosi per terra o trovando un posticino nella tribunetta laterale.

Non sono in molti a sedere sulla piccola gradinata, stanno strettini, vedono lo spettacolo a un quarto. Ma l’importante, qualsiasi sia il posto rispetto al palco, è esserci. E’ una bella serata, non fa caldo. L’impianto montato sull’enorme palco, davanti a una delle porte di calcio, è ciclopico. Nell’aria, quasi a scandire il viavai della gente alla ricerca del solito posto o del gruppetto di amici, c’è la musica di Phil Collins (anche lui inglese, anche lui gruppettaro).

I tecnici al mixer alzano e abbassano i livelli del volume per dare gli ultimi ritocchi all’impianto: it’s ok. Un quarto alle 21, salgono sul palco i Messangers, un duo inglese che avrà il compito di scaldare il pubblico prima dell’ingresso delle rockstars. I due sembra siano infilati in una piccola grotta, quasi sacrificati sull’enorme stage. Questo per non scoprire, togliendo il gusto della sorpresa, il colpo d’occhio della scenografia. Sulle teste dei due supporters una grande rete che si leverà all’inizio del concerto degli Ultravox.

I Messangers sono bravi. Anche loro fanno elettronica. Per venti-venticinque minuti fanno ascoltare la loro produzione discografica. In Inghilterra sono conosciuti, in europa ancora anonimi. Con l’enorme pubblico che richiameranno gli Ultravox nel tour europeo sperano di farsi apprezzare. Quando lasciano il palco, gli spettatori, più di cinquemila, attendono per quasi tre quarti d’ora che i riflettori che illuminano a giorno il campo di calcio si rispengano per creare l’atmosfera che introdurrà gli Ultravox. La macchina del ghiaccio secco produce una cortina di fumo, una grande rete si eleva sino al soffitto costituito da una grande cupola.

Il palco degli Ultravox al Tursport, 02.09.1984 (Marcello Nitti © Geophonìe)

Comincia lo show … Warren Cann, rispetto al pubblico, è in alto a sinistra, una decina di gradini rispetto al resto della formazione arricchita per l’occasione da due “extramusicians” (un tastierista e un chitarrista-vocalista); Chris Cross oscilla tra basso e synths accanto a Billy Currie che non smetterà per tutto il programma di saltellare c incoraggiare il pubblico. Al centro Midge Ure, il mattatore. Imbraccia spesso la chitarra, canta, si sbraccia, polarizza l’attenzione con quel carisma che sprizza da tutti i pori. E’ magnifico, una voce incredibile.

Non c’è la «sorpassata» asta per microfono; Midge ha indosso un microfono a batteria, molto somigliante a quelli adottati dai piloti di aerei. Chi è accomodato davanti al palco non resiste e si alza in piedi, scandisce il ritmo battendo le mani, percuotendo i barattoli di Coca Cola, allunga le mini per sfiorare Ure che stringe decine di mani. È elegante anche nel più naturale dei movimenti. Alle spalle una scenografia in nero, Cross, Cann e Currie vestiti di bianco. Ure in nero. Ogni canzone, da  “Passing stranger”  a  “The man of two worlds» ha una scansione ritmica coinvolgente. I ragazzi conoscono a memoria tutte le musiche, qualcuno anche le parole. Si ascoltano grida di gioia quando cominciano le prime note di  “Vienna”. Ure si snoda, lancia acuti, i ragazzi si spellano le mani. Molte ragazze salgono in groppa al proprio boy-friend, non stanno un minuto ferme, fanno scena attratte dal flusso che i quattro musicisti sprigionano dal palco.

Midge Ure, 02.09.1984, Taranto, Tursport Club (Marcello Nitti © Geophonìe)

Stesso entusiasmo riservano i ragazzi a «Vision in blue», motivo incredibilmente bello | utilizzato lo scorso anno anche in discoteca. La musica è raffinatissima. Si consuma allo stesso modo, con i cori che si elevano dalla marea di gente  accalcata sotto il palco, “White China”. Grande successo ottengono tutti i motivi interpretati dai quattro folletti (Currie lascia le sue tastiere solo per suonare il violino). Accoglienza notevole riservata anche per “Reap the wild wind” e “Lament” che sentiremo verso la fine. È un vero crescendo che culmina con «The voice», Cann abbandona «drums» e altri aggeggi e scende sul palco. Ure ha cominciato i battere sulle sue percussioni, accanto a lui si affiancano Cross e Currie. Tutti e quattro in fila. Un colpo d’occhio suggestivo, percuotono da matti il ritmo del bellissimo “The volce”. Salutano il pubblico. ma tornano richiamati a gran voce, più o meno un minuto più tardi. Suonano “Dancing with tears in my eyes”, il motivo che ha  avuto come supporto un video ideato da Cross e Ure.

Ancora un supplemento di emozioni e Ure si congeda definitivamente, dopo aver presentato i suoi tre compagni, con un “Thank you, and good night”. Anche se gli applausi sono tanti, gli Ultravox non escono più. E’ finita così l’avventura tarantina di uno dei gruppi più quotati a livello internazionale. Nitti & Ture hanno avuto ragione una volta di più: è stato un bel concerto, una grossa proposta, a conferma di come Taranto, la Puglia in questo caso, viste le auto baresi, leccesi, brindisine che non si contavano tanto erano numerose, risponda a interessanti sollecitazioni. Una lunga carovana di auto, un ingorgo di quasi mezz’ora, le note del concerto appena registrato, le centinaia di ragazzi che sostano davanti alla vicina pizzeria, non sono gli unici dati di cronaca. Un’ora dopo sul viale Ionio (è più dell’una) ci sono ancora file indiane di ragazzi appiedati che alla vista di un’auto issano il pollice alla ricerca di uno “strappo” in città.

Claudio Frascella © Corriere del Giorno, 04.09.1984

02.09.1984. E stasera gli Ultravox.

Corriere Del Giorno, 02.09.1984 (Claudio Frascella)

Li abbiamo incontrati e intervistati. Al Tursport il concerto

Ieri era “day off”, giorno che precede l’avvio dell’European Tour e ultime ventiquattro ore di relax, prima di farsi inghiottire, come da prassi, da fotografi e giornalisti. Questo in teoria. Chris Cross, Warren Cann e Billy Currie (Midge Ure non c’è ancora, poi sapremo perché) sono dei veri gentlemen: si concedono a patto che La Fratta posi la sua macchina fotografica. Stasera Carmine-Clic si rifarà. Gli Ultravox tengono molto al look e il fatto che stiano nella hall in costume da bagno, dopo aver fatto il bagno in piscina, crea loro qualche problema. L’immagine è salva.

Sono stati fino a qualche minuto prima con un bel po’ di fans. Con loro hanno fatto due chiacchiere come se fossero veri amici: una grande disponibilità.

Currie ha un bel paio di Ray-Ban (l’ultimo tipo), sale un attimo in camera per scendere un paio di minuti più tardi. Sediamo sul comodo divano di fronte al bar. Con noi Chris Cross, Warren Cann e il ritardatario Billy Currie. Manca Midge Ure.

-Come siete arrivati a Taranto?

“Ognuno per i fatti suoi” – dicono, passandosi la parola – Warren e Billy in aereo da Londra passando per Roma e atterrando definitivamente a Brindisi. Lì qualcuno ad aspettarli e ad accompagnarli a Taranto, in albergo. “Io – dice Cross – sono andato prima in Germania, ho noleggiato un paio di Mercedes, con le quali viaggeremo per tutto il Tour, e poi di corsa a Taranto”.

-Midge non c’è. Doveva essere con voi già venerdì sera …

“Lui è un romanticone. Arriva in treno con l’Orient Express. Sta facendo la luna di miele …”

-Abbiamo dato uno sguardo allo stage: non siete solo in quattro in pedana.

E’ vero. Ci sono due, non sappiamo come li chiamate voi, “extramusician”, cioè due nostri collaboratori, un tastierista e un vocalista”.

Corriere del Giorno, 02.09.1984 © Claudio Frascella

-Chi parla di “Lament” ?

“E’ il disco del cambiamento” – attacca Currie seguito a ruota da Cross – “un lavoro di ricerca tecnologica, ma anche un modo diverso di lavorare: semplicità innanzitutto. Invece di stare due-tre mesi in studio, abbiamo deciso di lavorare a singoli progetti e poi ritrovarci insieme a discutere fino ad avere materiale per l’album. Pensate che ne è venuto fuori quasi un lavoro in diretta. “Lament” diciamo che oggi rispetta tutto quanto sono gli Ultravox. Lo spettacolo rispetta più o meno le stesse idee. Ci sono grandi effetti, luci bianche. Tutto studiato nei minimi particolari come è nel nostro stile, “cover” compresa. Ci conoscono come pignoli”.

-Come siete nel privato, ammesso che abbiate tempo libero?

“Piace viaggiare” – dice Chris – “nonostante si  facciano tour, Midge è come noi. E’ scozzese e ama la vita all’aria aperta, senza grandi eccessi”.

-Vi infastidisce il termine “video-band”?

Quando ci dicono che siamo dei buoni musicisti e che oltre questo siamo anche ottimi sceneggiatori e registi di video, ci fa piacere. I nostri video li giriamo con Russel Marcuy, che insieme con Bob Giraldi è tra i migliori registi. Alcune produzioni sono nostre, dall’inizio alla fine. Abbiamo per primi ribaltato il concetto immagine-musica. Mentre la musica è stata sempre “sound track” (traccia sonora), per noi il video è “movie track” (traccia di immagini), le immagini di funzione del prodotto musicale. Ora è diventata la mania di tutti i gruppi, ma i primi siamo stati noi”.

-Gli ideatori del video?

“Io e Ure” – dice Cross – per il disco è un lavoro d’equipe. Tutti elaboriamo le idee degli altri. Non è vero ad esempio quanto dicono i giornali musicali, che noi litighiamo, che Ure lascia il gruppo o cose del genere. C’è una grande armonia tra noi. Poi Midge non si sente, tantomeno vuol considerarsi, leader”.

-Siete videocopiatissimi …

“Forse “One Small day”. Siamo legati a quel lavoro. Lo abbiamo realizzato sulle scogliere del Nord Inghilterra, tentando di dare al filmato tridimensionalità. A proposito di “Dancing with tears in my eyes” c’è l’interessante proposta di portarlo nelle scuole, farlo vedere ai bimbi per il delicato tema che tratta: cosa accadrebbe in caso di conflitto nucleare. Qui visualizziamo una situazione, al contrario di un pezzo esclusivamente musicale. Abbiamo realizzato il terzo video, “Lament”, il titolo del disco da cu è tratto. Oggi lo danno in TV (s’informano sul titolo del programma e poi ce lo ripetono: “Discoring”)”.

-Ce lo visualizzate un attimo?

“E’ basato sulla realtà: andiamo in giro con le nostre donne, saliamo su un pulmino: tutti via, tranne Midge che resta con la sua donna. Ti ho detto, è il romanticone del gruppo”.

-Parliamo dell’European Tour …

“Nove date in Italia. Questo significa, a conti fatti, rinunciare a notevoli guadagni. Avremmo potuto fare tre grossi concerti nei maggiori centri e poi voltare pagina, invece così abbiamo evitato a molti ragazzi di fare un po’ di strada. E’ la filosofia dell’ultimo tour inglese. Abbiamo fatto concerti in centri non molto grandi, restando nello stesso luogo alcuni giorni, due, tre, anche quattro, suonando in teatri non molto grandi, ma dando a tutti la possibilità di vederci, di ascoltarci. Dopo l’Italia, andiamo in Belgio, Olanda, Germania, Svezia, e Danimarca”.

-Poi?

“A ottobre a Londra alla “Wembley Arena” un “charity concert” (concerto di beneficienza) con Spandau, Duran, Simple e altri: otto-nove gruppi, per tante ore di musica. I biglietti costeranno tanto, ma nessuno prenderà una sterlina. Per queste iniziative siamo sempre disponibili”.

Una band di gentiluomini, come dicevamo. Tutti per bene. Sono un po’ il contrario di come una certa stampa dipinge le rockstar. Non sono Kean, genio e sregolatezza. Sono intellettuali e composti. Ognuno di loro ha interessi differenti e ciascuno dà una mano all’altro. Molto uniti, molto amici, hanno feeling.

Claudio Frascella © Corriere del Giorno 2.9.1984

17.11.1983. Un po’ di Parigi nei sogni di The The

Corriere Del Giorno, 17.11.1983

C’è anche un po’ di Parigi nei sogni di The The

ROCK/E’ uscito il primo “trentatrè” di Matt Johnson. Il titolo è “Soul Mining”.

Dopo quasi un anno di attesa, Matt Johnson in arte The The ci regala la sua prima opera a 33 giri, dal titolo “Soul Mining”. La label Some Bizarre ancora una volta ha colpito il bersaglio: gli album che produce possiedono un potenziale di vendita fra i più alti in Inghilterra (vedi Soft Cell, Marc and the Mambas, Psychic Tv).

Per questa occasione “Soul Mining” contiene un E.P. con una nuova versione di “Perfect”, già edita nei primi mesi di quest’anno. Dunque, il nostro Matt sembra essersi ripreso dal malanno agli occhi che fece penare la scena musicale. E qui naturalmente lo ritroviamo con tutto il suo buon gusto e con tutta la sua voglia di fare.

L’album contiene sette brani, fra i quali “Uncertain Smile” (già pubblicato come singolo lo scorso anno), brano riproposto con un nuovo abito: un piano jazzato a metà del pezzo insegue i sorrisi e gli ammiccamenti dei sogni di Matt, ci coinvolge e ci riempie di nuova forza. “Soul Mining” che dà il titolo all’album, insieme con “This is the day”, sono altre due gemme che vanno ad incastonarsi nella raccolta; la prima dolce e sensuale, la seconda ricca di colori e di atmosfere parigine dovute soprattutto alla fisarmonica.

Matt Johnson è bravo. Usa i synths con molto calore e preferisce i colori vivaci, ma mescolati in nuove soluzioni. Sicuramente il disco è consigliabile a tutti, e non esiste pericolo che il lungo ascolto conduca alla noia, dato che ogni composizione contiene momenti intimi e suggestivi. Valido è l’aiuto degli amici di Matt, come Zeke Haniyka alla batteria (quello degli Orange Juice) o Camille Hand al basso.

L’affiatamento è evidente, anche dovuto all’abilità di Matt in sala di registrazione. Quindi dopo lo scioglimento dei Soft Cell, Matt Johnson è diventato la punta di diamante della Some Bizarre e Stevo, boss dell’etichetta, sta già pensando a un 1984 in grande stile per il suo pupillio. Interessante anche il design in copertina. Una donna consumata dal vizio e certamente dura, disegnata a tratti frastagliati.

Marcello Nitti © Geophonìe

30.04.1983. Teardrop Explodes

Corriere Del Giorno, 30.04.1983

Noi orfani di Cope, rimasti senza lacrime.

Il grande autore ha detto “basta”. Dopo il successo di “Kilimanjaro” della “Goccia di lacrime che esplode”, è uscito un doppio 45 giri: l’ultimo.

E’ quasi sempre così. Le cose belle sono destinate a finire presto, molto presto. Julian Cope, cantore degli anni Ottanta, ha chiuso bottega con la sua più bella creazione, i “Teardrop Explodes”.

E adesso più che mai ci accorgiamo di quanto il gruppo di Liverpool sia stato determinante, in qualità di fenomeno musicale, in questi ultimi anni, insieme con gli “Echo and The Bunnymen” e i “Wah! Heat” di Pete Wylie. Anzi si può dire che questi tre gruppi abbiano costituito ossa, carne e anima di una musica profonda e spirituale. Non a caso qualcuno li battezzò gruppi della “nuova psichedelia”.

Dopo aver pubblicato alcuni singoli, i Teardrop Explodes proposero l’attesissimo “Kilimanjaro” nel quale erano contenuti i capolavori “Reward” , “Sleeping Gas” e “Treason”. In “Kilimanjaro” si poteva respirare un’aria di bosco, le composizioni erano piccoli gioielli di sincera umanità, Julian Cope rappresentava la massima espressione e la sua voce era quanto di più emozionante circolasse.

Purtroppo la sua personalità era preponderante e in seno al gruppo furono effettuate alcune sostituzioni. Si pensò che a “Kilimanjaro” non ci sarebbe stato degno seguito. Ma i fedeli di Cope si chiamavano Troy Tate e Dave Balfa, i quali con lo stesso Julian rimisero in piedi “La goccia di lacrima che esplode”. Fu un colpo fortunato. Nell’81 venne alla luce “Wilder” e questa volta le lacrime erano una, dieci, cento…

Tutti parlarono di santificazione: Julian Cope godeva del più sacrale dei rispetti e brani come “The  great dominions” o  “Tiny Children” lasciarono veramente versare lacrime di poesia.

A quel punto i Teardrop Explodes, o più semplicemente la creatura di Julian Cope, erano qualcosa di sacro. Adesso però Julian Cope ha detto basta. Troppi i conflitti con i suoi amici, troppa la paura. Così esce in questi giorni un epitaffio del gruppo in un doppio 45 giri che già il mio piatto sta consumando. Sperando che Julian Cope ci ripensi.

Marcello Nitti © Geophonìe

07.07.1983. Anno 1983: i Simple Minds.

 

Corriere del Giorno, 07.07.1983

A Taranto stasera il gruppo rock (Tursport) presenterà brani in anteprima assoluta.

Il concerto sarà registrato per un disco “live”.

Per i Simple Minds, quello di stasera alle 21,30 è il primo concerto nel meridione d’Italia. L’attesa, inutile nasconderlo, è enorme e febbrile. Lo spettacolo oltretutto giunge in un momento magico e congeniale ai Simple: il loro ultimo album “New Gold Dream” li ha definitivamente rivelati al pubblico italiano.

I Simple, in una parola, sono ormai familiari dappertutto, radio, tivù, quotidiani, riviste e, non ultime, le discoteche. Possiamo fornire qualche notizia di gustosa esclusività.

Anzitutto, nel pomeriggio di oggi, prima del concerto, i Simple Minds saranno protagonisti di un filmato che gireranno in proprio lungo gli arenili della nostra litoranea: pare che a questo proposito siano stati consigliati da un altro grande gruppo rock, i New Order, che lo scorso anno fecero tappa a Taranto.

Seconda interessante notizia, il concerto di stasera sarà interamente registrato per un evenutale inserimento di alcuni brani in un disco live ufficiale dei Simple.

 

Terza notizia, molto probabilmente a Taranto Jim Kerr (il cantante dei Simple Minds) proporrà nuovi brani che andranno a far parte del nuovo album. Kerr ha infatti dichiarato che Michael McNeil ha composto melodie nuove di zecca che saranno proposte in anteprima assoluta. Per ora è tutto. Non ci resta che salutarli di persona, i quattro scozzesi.

Marcello Nitti © Geophonìe.

MARC AND THE MAMBAS/ «Torment and Toreros»

 

 

Ecco il rock da corrida. Da Londra, però, giungono notizie di un certo disimpegno.

Eccolo in vetrina, «Torment and Toreros», opera sublime di Marc Almond o Marc and the Mambas. Per la verità, stando alle ultime notizie che giungono da Londra, i Soft Cell hanno cessato di esistere e così pure (forse) Marc and the Mambas.

Ma, senza nulla togliere alla ufficialità delle cose, torniamo a parlare di questo doppio album che era stato preceduto dall’ Lp «Black heart» e che ci propone un lavoro concept (a tema unico) esclusivamente basato sui costumi e sul folklore spagnolo.

Voglio subito dire che l’album è da non perdere e che appartiene a un Marc Almond al massimo della sua genialità compositiva.

Lui, che è nato nella pallida Inghilterra, ha saputo schiacciare perfettamente nei solchi di «Torment and Toreros» tutto il profumo dell’anima spagnola, grazie a composizioni attraversate da calde passionalità e amori incontrollabili che ci trasportano sulla sabbia dell’arena o nelle fragranti taverne spagnole lungo la costa. L’album contiene anche un remake di «The bulls” (i tori), amatissima composizione di Jacques Brel, e una miscellanea con «Narcissus, Gloomy Sunday e Vision», una composizione di Peter Hammill (vi ricordate dei Van der Graf Generator?).

Marc Almond si fa aiutare dai Mambas, abbiamo detto, e i Mambas sono: Annie Hogan a piano e voce, Steve Sherlock al sax e al flauto, Lee Jenkinson alla chitarra, al basso e alla batteria, più le «The Venomettes» che prevalentemente suonano gli archi di accompagnamento e Matt Johnson (alias The The) alla chitarra.

Volete conoscere qualche sensazione che suscita l’album? Cascate di colori, di umori, di serenità…

Marcello Nitti © Geophonìe

30.12.1983. Quella notte a Ginevra: Lowembrau e Snikefinger

 

Corriere Del Giorno, 30.12.1983

Il fatto che Snikefinger avrebbe tenuto un concerto (4 dicembre) al “Bouffon” di Ginevra, mi fece ritardare la partenza per l’Italia. La speranza era di assistere a qualcosa di particolare.

Il “Bouffon” è un locale gestito da giovani. Un bar con musica da sottofondo, pareti-graffiti e un’aula-concerti (che raccoglie non più di duecento spettatori).

Acquisto il biglietto. Mi tiene compagnia una “lowembrau”. Con aria interessata perlustro la sala fino ad incontrare e conoscere Laurence, una energica ragazza bionda. Laurence, per spirito di avventura, organizza i concerti (anche dal punto di vista economico).

Quando in sala non ci sono più di ottanta persone, salgono sul palco 7 elementi che immediatamente m i fanno ricordare la New York degli anni post-bellici. I nostri eroi indossano abiti scuri, smoking o frac. Prendono possesso dei rispettivi strumenti. “Snakefinger” colpisce ancora. Snakefinger ha sempre lavorato nella sua California: i suoi lavori sono bracciali di semplici pazzie elettroniche. Notevole il contributo dei misteriosi Residents.

Richard Marriot (sax tenore e trombone), Carl Beitel (sax tenore), Steven Kay (sax tenore e contralto), Eric Feldman (basso), Borghit Ryan (batteria), Youshua Ende (tastiere), Miguel Bertel (chitarra solista), Snikefinger (voce, chitarra e piano) danno vita ad uno spettacolo “vivo” ed eccitante. I visi dei ragazzi, divertiti. Qualcuno improvvisa balli “strampalati” al ritmo di quella musica “swingante”. Per un’ora e mezza Snakefinger trascina tutti noi nel magico mondo del blues. Propone brani dei più grandi talenti del vecchio ”rythm” : Muddy Waters, Buddy Guy, Tampa Red, Memphis Slim, Skip James, Howlin Wolf, Reverendo Johnson e altri ancora.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

La new wave in lutto. Sciolti tre gruppi.

 

Come fulmini a ciel sereno rimbalzano d’Oltremanica notizie che lasciano increduli e senza parole. Tre dei maggiori gruppi d’Europa, tra i più amati e seguiti, hanno dichiarato di essersi sciolti.

Stiamo parlando dei Bauhaus, dei Soft Cell e dei Rip Rig & Panic. I Bauhaus hanno appena pubblicato “Burning from the inside” e David J., il bassista, in un’intervista rilasciata questa settimana, ha ammesso di avere già nel cassetto un nuovo lavoro e che Peter Muprhy molto probabilmente lavorerà con (udite! udite!) Alan Rankine degli Associates, mentre Kevin Haskins e Daniel Ash continueranno a lavorare insieme.

I Soft Cell si trovano d’altra parte all’apice del loro successo. Le agenzie italiane hanno sempre fatto il possibile per farli esibire in Italia e ora giunge notizia che Marc Almond non ci sta più.

Almond ha da parte sua dichiarato che la stampa britannica si è “macchiata” della colpa di non aver suffragato il suo lavoro come Marc And The Mambas con l’album “Tormentos and Toreadores”, preferendo il suo impegno con i Soft Cell. Ad ogni modo, a sentire lui, l’affare Soft Cell e Marc And The Mambas è chiuso per sempre.

I Rip Rig & Panic, dopo l’album “Attitude”, hanno preso ognuno la propria strada, lasciando la bocca amara agli affezionati. Ma non è finita qua. Anche i Kajagogo, quelli di “Too Shy” accusano una defezione: pare infatti che il cantante “zitto zitto” voglia fare qualcos’altro.

Si può affermare che la new wave perde almeno 3 gruppi fondamentali. In particolare i Bauhaus proprio adesso avevano consacrato il successo anche in campo cinematografico grazie a Tony Scotto, il regista di “Myriam si sveglia a mezzanotte”, con David Bowie e Catherine Deneuve.  Scotto ha infatti inserito nella colonna sonora del film l’inno dei Bauhaus “Bela Lugosi’s Dead”.

Marcello Nitti © Geophonìe

I magnifici tre: Depeche, Hey! Elastica, Soft Cell

 

Periodo prenatalizio e di conseguenza le “label” cercano in tutti i modi di piazzare il singolo che potrebbe avere un immediato successo.

Di singoli, in verità, ne sono stati pubblicati a decine, dei più svariati stili e miscele musicali: funk-rock, rock-disco,e via dicendo. Ma quello che più sconcerta è il preoccupante dilagare di singoli fatti per essere ascoltati e ballati in discoteca, a parte pochi eletti.

Anche i magnifici New Order hanno il loro singolo in testa alla classifiche inglesi, quel “Confusion” che ha spaccato i grandi nostalgici dei Joy Division.

Un nuovo gruppo che  ancora non riesce a pubblicare un album, ma che ha prodotto tre E.P. è “Hey! Elastica”, nome buffo e simpatico per un gruppo di quattro ragazzotti (prima erano in sei): Bee Mc Vicar, Shez, Giles e Samantha Swanson, coprotagonisti di “Party Games”, il loro pezzo forte. Il brano è ben strutturato e possiede una poderosa sezione ritmica molto rock anno 80 dove vengono innestate le voci e i cori delle ragazze, in ampio stile americano. Il tutto risulta godibilissimo e assai ballabile, a tratti swingante per la bella presenza dei fiati. La produzione è opera di Martin Rushent, già con gli Human Leauge e Alfred Images. Credo che Martin voglia portare al successo anche questo gruppo, sostituendosi al vecchio produttore Tony Visconti che tutti voi ricorderete come braccio destro di Bowie.

Altro singolo che merita nota è quello dei Depeche Mode, gruppo che da poco ha concluso una tournee in Italia. Il singolo in questione è “Love in itself”, già contenuto nell’ultimo album. La novità sta nel lato “b”, che ruota straordinariamente a 33 giri invece dei consueti 45 e contiene ben 4 brani dal vivo, registrati a Londra il 25 ottobre dello scorso anno (“Just can’t get enough”, “A photograph of you”, “Shout”, “Photografic”). Inutile dire che questi menestrelli dell’elettronica hanno indiscussa padronanza del proprio sound e che ogni disco è un saggio di dolci e allegre ballate elettroniche con il gusto del bambino supereducato. Un singolo per collezionisti, in definitiva.

E per concludere, un singolo del Soft Cell, a mio parere il gruppo più sapido dell’elettronica pop inglese. Dopo le dichiarazioni di scioglimento del duo per iniziativa di Marc Almond, la loro “label” pubblica questo “Soul Inside” registrato sicuramente in tempo di pace, ma che mostra un Almond nervoso e accigliato. Ne viene fuori un brano inquieto ma ricco dei soliti “celliani” che hanno ormai consacrato i “Soft Cell” come gruppo pop-elettronico degli Anni ’80. Sul retro due delizione novità: una nuova versione di “Loving you – hating me”, già inclusa nel felice album “The art of falling apart” (qui completamente remixata) e infine una versione della colonna sonora del film “Si vive solo due volte” (James Bond). Buon Ascolto.

Marcello Nitti © Geophonìe

05.06.1983.   “Whammy” dei B 52’S

 

Corriere del Giorno, 05.06.1983

DISCHINOVITA’ / “Whammy” dei B 52’S
Siam facili profeti questo è un successo.

I B 52’s tra il ’79 e l’80 pubblicarono due album che ebbero un discreto successo: ad essi appartenevano due momenti particolarmente felici, i brani “Planet Claire” e “Devil in my car”. Caratterizzanti.

E’ il caso comunque di spendere due parole sul gruppo: sono in cinque (due donne), vestono sixties e hanno meno di 25 anni, si sono conosciuti all’università dove facevano musica creando casini alla “Blues Brothers”. La loro musica è una spietata miscela di rock’n’roll con coretti sixties e ritmica da ballare.

E’ naturale che all’ascolto il gradimento sarà soggettivo, ma loro risultano simpatici a molti e riuscirono lo scorso anno a pubblicare un mini-ellepì con la produzione di David Byrne dei Talking Heads. L’album si chiamava “Mesopotamia” e fu una delusione, i pezzi erano anonimi e senza nerbo: non bastò l’apporto di Byrne. Con molte probabilità la confusione, nella fase di realizzazione, fu molta e la causa è da ricercare nella prepotenza inesorabile di ciascun elemento, da cui dispersione e  un risultato certo non eccellente.

Qui però va detto che proprio questa “caduta” ha determinato una pausa di riflessione del gruppo, che adesso pubblica “Whammy!”, nuovo album e nuovo corso, con una grinta ritrovate e canzoni taglientissime. La formazione non è stata alterata, l’album è ben curato, ed è stato accompagnato dall’uscita di un doppio 45 giri che include una nuova versione di “Planet Claire”.

Non è difficile profetizzate che questo disco sarà molto usato e goduto nelle discoteche e non è altrettanto difficile prevedere per “Whammy Kisses” un’attenzione particolare. In definitiva un ottimo lavoro, però come tutte le belle cose, non ascoltatelo troppo. Potrebbe stancarvi.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

INCONTRI IN CORTILE

 

A  Martina Franca (Taranto) Arte e Fotografia si incontrano in cortile

Gianfranco Nitti, 20.09.2020, © L’Osservatore d’Italia

Da venerdì 18 fino al 30 settembre, nella splendida cornice del cortile di uno dei palazzi settecenteschi più suggestivi di Martina Franca, sito lungo corso Vittorio Emanuele al n. 38, è in corso tutti i giorni la mostra dal titolo INCONTRI IN CORTILE con i dipinti realizzati da Vito Marzo e le fotografie di Marcello Nitti, ad ingresso libero nel pieno rispetto nelle norme anti-covid.

Uno spazio espositivo originale e che, in un certo modo, rompe con la tradizione dello spazio chiuso di una galleria per offrire un accesso aperto e libero, inserito in un contesto di una cittadina nota per la vivacità dei suoi fermenti culturali. Gli acquerelli di Vito Marzo in mostra sono stati realizzati in gran parte nel periodo della chiusura, e hanno come tema alcune immagini femminili e sensazioni di attesa, solitudine, riflessione; a sua volta, Marcello Nitti ha già realizzato rinomate mostre delle  sue fotografie all’estero, in Svezia, e quelle esposte in cortile sono un estratto delle sue tematiche illustrative, qui sintetizzate in giochi di trasparenze monocromatiche.

L’allestimento è ideato e realizzato secondo criteri minimalisti, che rispettano il contenuto delle opere allo stesso tempo valorizzando il contenitore che le accoglie.

La mostra si offre quasi come un contrappunto tra due forme espressive che spesso si assimilano a seconda dei contenuti trattati e delle quali spesso è difficile distinguere la caratteristica artistica o documentaria.

 

 

 

 

Martina Franca, arte e fotografia si incontrano in cortile

 

Una mostra fotografica dal profondo sud al profondo nord d’Europa: Marcello Nitti riprende il suo viaggio visionario a Stoccolma

 

MARCELLO NITTI: LA FOTOGRAFIA CHE PORTA AL NORD LUCI E SUONI DEL SUD

 

01.09.1984. Ultravox. Cronaca di un arrivo.

 

A Taranto gli Ultravox.

Corriere del Giorno, 01.09.1984

Domani sera al Tursport (nel campo di calcio) l’attesissimo concerto che aprirà il tour europeo del complesso rock.

Cominciati i sopralluoghi. Poi il relax: piscina, passeggiate in città, donne e birra.

Puntualissima come nello stile inglese, ieri pomeriggio è arrivata la prima parte della carovana degli Ultravox. Il gruppo inglese che da domani, con il concerto tarantino del Tursport, prende il via per la tournèe europea. Il quartier generale è l’Hotel Delfino.

Indescrivibile l’atmosfera che ha immediatamente popolato la hall dell’albergo dopo le 16,30. Il portiere che a malapena riesce a distribuire le chiavi di ciascuna stanza prenotata con largo anticipo, gli zaini e gli imponenti valigioni, su cui sono incollati adesivi a non finire, abbandonati qua e là. Una sarabanda di tipi e di colori. Chi con i capelli lunghi, chi con la chioma rasata, chi con stivaloni chi con ciabatte (o addirittura a piedi scalzi). Il fattore che immediatamente li accomuna, oltre a una invidiabile serie di magliette con su scritto i nomi di altri prestigiosi gruppi del Regno Unito (Duran, Simple, Spandau o Sky), è una prima ricognizione al bar dello stesso albergo: birra per tutti e fuori sull’enorme balconata a godere il panorama, schizzandosi sulla faccia la birra che esce dal barattolo dopo averlo violentemente agitato. Non si contano le gags. Qualcuno brontola, qualcun altro lo sfotte: uno ha un walkman e ascolta musica, un altro lascia cadere gli indumenti nella hall e va a fare il bagno in piscina. Tutti insieme bissano la prima lattina di birra. Tra una birra e l’altra giunge la notizia dal road manager, che l’appuntamento, più tardi sempre nella sala d’aspetto, con gli organizzatori locali è fissato per le 18.

Cominciano i primi sopralluoghi al Tursport: è una carovana di auto diesel, tutte con targhe inglese, un paio di camper. Per strada, lungo Viale Virgilio, chi in auto, chi a passeggio, si volta a guardare la fila di mezzi: “è arrivato il circo americano”, dice qualcuno; “no, le taghe GB sono inglesi, può essere quello di Billy Smart”, commentano altri. Ma niente di tutto questo, anche se la carovana ha qualcosa di circense, oltre alla vita gitana a cui sono costretti artisti e tecnici. Sono una quindicina al sopralluogo. Restano soddisfatti dell’impianto, del campo di calcio su cui  monteranno l’imponente palco. Come geometri incaricati dal Comune, fanno calcoli a mente e tracciano solchi; qui va lo stage, qui le transenne. I Tir, numerosi, sarà un problema parcheggiarli tutti all’interno. Dentro questi grossi mezzi, enormi cassoni con su scritto a vernice bianca: Cann, Cross, Currie e Ure: gli Ultravox. Ognuno di loro con la strumentazione occupa quasi un Tit. Warren, Chris, Billy arrivano più tardi. Midge in serata. Si godono gli ultimi scampoli di relax, da domani al lavoro. Midge Ure e Chris Cross, uno chitarrista e voce, l’altro bassista e tastierista, in Italia sono di casa. Appassionati di motori spesso trascorrono tra la Francia e l’Italia un bel po’ di ferie. In Francia, come scrivemmo tempo fa, durante un viaggio di piacere i due musicisti inglesi sono stati alleggeriti di mezzi e bagagli: ora amano solo l’Italia, Venezia in particolare…

Hanno voluto dedicare proprio al nostro Paese le primissime date dell’european tour, un banco di prova importantissimo. Nel corso dei concerti Ure e i suoi compagni dovranno ribadire l’indiscutibile leadership in campo rock di cui godono da anni attraverso una serie di avvicendamenti e svolte musicali. Ogni scelta, lo ripetiamo, è stata ragionata: gli Ultravox con intelligenza hanno amministrato la loro immagine fino ad essere sofisticati nel look e nel suono. Incravattati anziché no, hanno realizzato uns stupendo video (uno della serie che vedremo stasera e in replica domani pomeriggio su Italia Unoa “D.J. Television” condotta da Claudio Cecchetto), quel “Dancing with tears in my eyes” che riesce a dare grande spessore al tessuto musicale. I clips sono diventati l’autentica forza della formazione, “Lament”, il recente album della band, è stato per intero visualizzato. Primo posto in classifica (discografica e video).

E torniamo al concerto di domani al Tursport. E’ la vigilia e diventa un dovere dare un paio di suggerimenti a chi fosse interessato ad assistere allo spettacolo: per chi non avesse acquistato il biglietto suggeriamo di farlo in prevendita evitando così lunghe file ai botteghini o, peggio ancora, di cadere nelle grinfie dei soliti bagarini che venderanno gli ingressi a prezzi elevatissimi. Altro suggerimento, per evitare lunghe code o intasamenti con le auto, è quello di seguire le numerose segnalazioni seminate lungo il vialone che porta in via del Faro, a San Vito. C’è un capiente parcheggio per oltre tremila auto.

Claudio Frascella  (Archivio Geophonìe)

27.06.1984. “The Top” : Robert Smith è tornato a casa Cure

Corriere Del Giorno, 27.06.1984.

Dopo un’assenza di due anni, ritorna Robert Smith con i suoi “Cure” in versione L.P. senza nascondere un aumentato interesse nei confronti del gruppo che parte dai fans, dopo le varie voci che circolavano pretendendo uno scioglimento dei ‘tre ragazzi immaginari’, voci che si rafforzano nell’apprendere la presenza di Robert Smith dal dicembre ’82 nei “Siouxsie and The Banshees” e nella pubblicazione di un album favoloso con la collaborazione di Steve Severin a nome “The Glove”.

La speranza che i Cure fossero ancora vivi era data dalla pubblicazione di ben quattro singoli. “Let’s go to bed”, brano orecchiabile, molto piacevole e mandato anche in discoteca. “The upstair’s room”, tipico ”suono Cure” , “The Lovecats”, brano bellissimo, insolito perché forzato, ed infine “The Caterpillar”, una bellissima ballata acustica con chitarra e piano pizzicato che ci presenta il nuovo album dei Cure, “The Top”. L’album con una copertina orientaleggiante e impregnata di simboli, si apre con “Shake Dog Shake”, brano tipico che richiama subito “Pornography”, precedente capolavoro del gruppo;

Ma è con “Birdman Girl” che si avvertono tendenza e melodia spagnoleggianti, che già il singolo “The Caterpillar” aveva annunciato. La voce di Robert, ormai particolare e riconoscibilissima, ci accompagna con mano nei meandri dei suoi sogni, “Wailing Wall” e “The empty world” sono certamente nate dal bisogno di non dimenticare un passato così bello e pieno di fede. A poco a poco ci si rende conto che tutto è un viaggio nella stanza della nostra mente, dove su altari sono poggiati i nostri desideri;  mentre nei corridoi siamo inseguiti da mani che gridano e ci toccano con odioso sudore come in “Give me it”.

Il vertice dei Cure è raggiunto in “The Caterpillar”, solenne ballata rivolta a tutti i cuori; in “Dressing up” con musica orientale da incantesimo ed in “The Top” commovente invito a tornare indietro ed a sorridere con rinnovata maturità.

In sintesi un album sempre bello, che oltre a vedere Robert Smith e Laurence Tolhrust, padroni del marchio “The Cure” ci sono ad aiutarli Andy Anderson alla batteria e Porl Thompson al sax.

Marcello Nitti © Geophonìe

01.05.1982. La stagione musicale al Tursport

 

Tanto per cominciare sabato i “Bauhaus”.

Sabato 1 maggio alle 21 saranno di scena nel palazzetto Tursport a San Vito i Bauhaus, il gruppo New Wave che sta riscuotendo successo in tutto il mondo. La serata-spettacolo, così è da definire, per la scenografia che la manifestazione offrirà, non è da considerare riservata esclusivamente agli appassionati del rock, ma un appuntamento d’eccezione con un vero e proprio spettacolo a livello mondiale. Ad organizzarla è stato il responsabile del settore musicale di Tursport Marcello Nitti che riuscirà a portare a Taranto anche altri noti gruppi musicali di notevole levatura.

L’estate alle porte sarà infatti occasione lieta per l’organizzazione di concerti, serate d’ascolto e grossi spettacoli che il Tursport sta programmando con la partecipazione di grossi nomi della canzone internazionale e nazionale.

Il gruppo dei Bauhaus è  composto da Peter Murphy, David Jay, Kevin Haskins, Daniel Ash. Hanno fatto la loro prima apparizione in Italia nel luglio 1981 al “Festival per i Fantasmi del Futuro Electra 1”.

 

DISCHINOVITA’ / New Order

 

Corriere Del Giorno, luglio 1983

Potere, corruzione e bugie

Confesso di avere grandi difficoltà nel parlare risparmiandomi in lodi del nuovo lavoro dei New Order. Nessuno di noi ha dimenticato la loro venuta a Taranto (19 giugno 1982) quando salutarono il pubblico con la promessa di ritornarvi. Per ora accontentiamoci di ascoltare il loro secondo album pubblicato in questi giorni in italia sotto il titolo “Power, corruption and lies” ovvero “Potere, corruzione e bugie”, con una splendida copertina che è poi una splendida natura morta (rose) custodita nella National Gallery di Londra.

Peter Hook (basso, chitarra), Gillian Gilbert (synths), David Morris (batteria) e Bernard Dickin (chitarra, voce) sono dunque tornati dopo diciotto mesi e al primo, intero ascolto del loro ultimo album si nota la riuscita alleanza che synths e chitarre hanno definitivamente conclamato.

Questa è musica che allaga di venti primavere le valli più profonde, “Leave me alone”, che sigla in maniera imperiale l’ellepì, è musica di piccole onde che rotolando sulla battigia. “Your silent face” non è altro che una poesia che scende giù come le gocce di pioggia alla finestra. “The village”, già proposta dal vivo a Taranto, è una ballata elettronica molto dolce, che ricorda volti di bimbi ammaliati dalle giostre. In “Ultraviolence” invece i toni si fanno più duri, i ritmi si moltiplicano e ne sortisce una cascata di colori. Ma è in “Age of consent” che nasce forte e netta la forza dei New Order e subito ti rammenti del loro passato: “Ceremony”, “Procession”, “Temptation” e “Dreams never end” e capisci che la loro è una colonna sonora che va bene a ciascun istante della tua vita.

Marcello Nitti © Geophonìe

19.06.1982. I New Order al Tursport

 

Corriere Del Giorno, 15.06.1982

Un altro spettacolare appuntamento con la musica rock al Tursport. Sabato 19 giugno saranno di scena nel palazzetto a San Vito i New Order in concerto. E’ sicuramente il gruppo rock attualmente più amato  e più seguito dai giovani appassionati a questo genere musicale. I New Order possono essere meglio ricordati come Joy Division, era questo il nome del complesso fino a due anni fa.

Dopo i Bauhaus, i New Order sono il secondo gruppo di fama mondiale a scendere qui a Taranto. E proprio a seguito del successo musicale e di incasi riscosso in quell’occasione, si prevede, con la serata di sabato 19 giugno, un secondo “pienone” nel palazzetto del Tursport.

Anche i New Order sono messaggeri di un tipo di rock piuttosto tagliente ma che suscita allo stesso tempo emozioni indimenticabili con una scenografia senza precedenti. Con il concerto di Taranto saranno in Italia per la prima volta. Già da numerosi centri della Puglia sono pervenute massicce prenotazioni da parte di giovani interessati ad un appuntamento musicale senza precedenti e di portata davvero mondiale. Lo spettacolo avrà inizio alle ore 22.

Marcello Nitti © Geophonìe

1983. David Bowie

 

Corriere Del Giorno, 1983

David Bowie, un singolo “riscaldato”

Durante il suo tour forse una tappa in Italia

Attesa tournèè di David Bowie, che ha pubblicato da pochi giorni il singolo “Let’s Dance”. Il prodotto è frutto di una collaborazone con Nile Rodgers, meglio conosciuto come il creatore degli “Chic”, che fra le altre cose ha scritto anche per Diana Ross ed altri. Il risultato è deludente per non dire fallimentare, e il singolo – che farà in ogni caso il giro del mondo – non è altro che una “song” di sette minuti con i tipici suoni alla “Chic”.

In definitiva un risultato di ovvia disco-music, che verrà dimenticato in poco tempo. Il retro del singolo contiene una versione inutile di “Putting Out Fire”. In colclusione è bene che attendiamo l’uscita del nuovo album, che a quanto informa la stampa americana si chiamerà come il singolo, “Let’s Dance”.

Per il suo giro europeo già molte sono le date stabilite. Il tour prevedeva tappe in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Austria e forse in Italia, dove si sta studiando la possibilità di effettuare almeno uno spettacolo.

Per il momento in Italia ci saranno le esibizioni di gruppi come Polyrock (USA), Modern English e Blue Rondo a la Durk (GB). Come novità discografiche, tra le tante di questa primavera è da segnalare l’uscita del gruppo “Duet Emmo” meglio conosciuti come Lewie e Gilbert, ex Wire, che finalmente ci propongono suoni più accessibili e godibili. L’album è edito da Mute Record.

Marcello Nitti © Geophonìe

26.05.1983. David Bowie

 

 

Corriere Del Giorno, 26.05.1983

Una corte di miracoli per il bel Duca Bianco

Siamo andati a Monaco sulla rotta di David Bowie, l’indiscussa rockstar del momento.

Diecimila fans in una situazione da delirio. 

Bowie non ha centrato il concerto. E’ stato accompagnato da un gruppo di musicisti che ha deluso: non andava al di là di una bravura artigianale.

Lui è stato grande quando, impugnato il sax, ha intonato Modern Love.

 

MONACO – A cinque anni dalla sua ultima apparizione, è tornato il Duca Bianco. David Bowie si è riaffacciato sui palcoscenici il 18 maggio scorso, a Bruxelles, incensata alba dei riti di questa sua lunga tournèe mondiale.

Il 1983 sembra essere il suo anno “in”: due films di successo, presentati all’ultimo festival di Cannes (“The Hanger”) con Catherine Denevue e “Merry Christmas Mr. Lawrence” del giapponese Oshima); un album coprodotto con Nile Rodgers degli “Chic” e infine questa imponente escursione mondiale.

A Monaco, dove sono andato a vederlo, i biglietti erano esauriti da oltre due mesi, tolta una piccola scorta che il botteghino ha venduto centellinandola come si trattasse di diamanti (i prezzi alle stelle).

Quando sono giunto a Monaco – cuore del bifronte “continente Germania”, capitale della Baviera operaia – sapevo di assistere a qualcosa di storico. Premunitomi acquistando i biglietti di entrambe le serate (sabato 21 e domenica 22), la sera del sabato alle nove e un quarto, con soli 15 minuti di ritardo, nello strabbocchevole “Olimpiahalle” di avveniristica concezione, David Bowie fa il suo ingresso accolto dall’ovazione di forse 10-15mila spettatori. Echeggiano subito le prime note di “Jane Genie”, ma è un bluff. Ed ecco, poderose “star”, si accendono le luci: Bowie è addobbato con un abito verdeacqua, cravatta, bretelle e … la sua voce.

Non sono pochi a vederlo per la prima volta dal vivo. Assisto, in una situazione da delirio collettivo, a volti inebetiti, sorridenti, abbacinati. Non mi sfiora il minimo dubbio: qui lo amano tutti. Ti guardi intorno e vedi che ci sono molti italiani: Monaco, non dimentichiamolo, è zeppa di emigrati, è una metropoli industriale, una città formicolante di operai. Ad ogni brano la folla deliquia: “Heroes”, “Wild is the wind”, “Fashion”, “Let’s Dance”, il fortunatissimo singolo “Cat People” scritto con Giorgio Moroder. Ma il pezzo forte del primo tempo è indubbiamente “Scary Monsters”, siglato da un vibrare impazzito di luminosità verdi che ricordano non a caso il Super-ragno della canzone.

Ma piano piano ti accorgi che qualche cosa non va, non funziona. I musicisti sono poco interessati, vivono come in una situazione altra, esterna. Il batterista, Tony Thompson degli “Chic” porta soltanto il tempo e non è buono per suonare brani come “Ashes to Ashes” o “Hang on to yourself”. Il bassista Carmine Rojan sembra che non ci sia. E il chitarrista Earl Slick insegue il fantasma pendulo di Jimi Hendrix.

Si capisce subito che i musicisti sono solamente degli ottimi artigiani, degli ottimi mestieranti e che comunque non possono andare al di là dei loro profondi limiti creativi. Ergo: solo Bowie trascina un pubblico completamente eccitato alla sua vista.

Tuttavia va detto che il Duca Bianco non ha particolarmente centrato il suo concerto di Monaco. A suo vantaggio ha il fatto che il tutto è molto semplice, acqua e sapone, in un’epoca in cui si escogitano artifici di ogni colore pur di sbalordire. Indubbiamente la bravura di Bowie è venuta a galla, in tutta la sua potenza, specialmente nell’ultimo brano “Modern love”, in cui David ha suonato il sax alla grande.

Noi siamo sfiniti. Averlo visto è sempre una ricca esperienza. Col suo sorriso sottile si nasconde dietro una luna di cartapesta, se ne va e noi tutti a guardarci negli occhi e a camminare, di notte (notte fonda), fra semafori e lattine di birra.

Arrivederci Bowie, a Parigi, 8 giugno.

Marcello Nitti © Geophonìe

12.05.1983. Nick Heyward

 

 

 

Corriere Del Giorno, 12.05.1983

Il monarca Nick Heyward ha deciso, fa tutto da sé

Dopo aver abbandonato il gruppo “Haircut 100”. E’ uscito il suo singolo “Whistle down in the wind”. Non mancherà la polemica risposta del gruppo.

Nome assai strano quello degli “Haircut 100”, che tradotto è pari a dire “taglio di capelli cento”. In ogni caso siamo ormai abituati a cotanta stramberia. Gli Haircut 100 hanno a tutt’oggi pubblicato  un album e cinque singoli (1982). La loro musica era una miscela ben riuscita di vari stili musicali: samba, calipso, rock e pop, al punto da renderli unici e inconfondibili nei confini di quel sound.

Tutti brani di successo, tutti assai programmati in radio e in discoteca, ma, soprattutto, tutti firmati da Nick Heyward. Era lui in pratica il leader, l’archimede di quei successi e come solitamente accade ai monarchi assoluti – prima o poi sarebbe stato esautorato. La cronaca ci dice che mentre erano in corso le registrazioni di un secondo album Nick, giustamente, pretendeva che l’opera risultasse complessivamente di alto livello, senza limitarsi a produrre uno o due pezzi di successo e d’altro verso solo brani da dimenticare. Andò che l’egemonica presa di posizione di Nick sembrò tanto asfissiante che la realizzazione del lavoro fu interrotta (ma c’è ancora chi spera possa essere ripresa in coro). Nick salutando tutti lasciò il gruppo e si separò dal marchio “Haircut 100”, decidendo di seguire la propria strada.

A Londra, il Melody Maker e il New Musical Express hanno parlato a lungo di questa fronda da parte di Nick, non dimenticando di segnalare l’avvio quasi immediato del lavoro da solista dello stesso Heyward. Nick si fa accompagnare in studio da alcuni amici e, sorprendendo perfino i suoi vecchi “Haircut” prima ancora che essi si siano ripresi dalla sua perdita, pubblica il singolo “Whistle down in the wind”. Una pop song, stile Heyward al cento per cento. Mancano i fiati che lo hanno sempre contraddistinto: sono stati sostituiti però da un piano delizioso. E non c’è dubbio: la parte strumentale del brano è la più riuscita.

Non mancherà, crediamo, la risposta degli Haircut 100, che certo non hanno smarrito la voglia di successo. Anzi punteranno a far dimenticare l’esistenza di Nick ai suoi innumerevoli fans.

Marcello Nitti © Geophonìe

23.08.1983. Midge Ure e Mick Karn

 

Corriere Del Giorno, 23.08.1983

Il fascino della coppia

Raggiunto ormai un livello artistico abbastanza elevato in campo musicale, gli artisti vanno a caccia di collaborazioni esterne ai gruppi di origine per poter guadagnare ulteriori interessi al proprio lavoro. Caratteristica di questi ultimi mesi dell’83 è la pubblicazione di numerosi singoli (se non, in qualche caso, di albums) prodotti in coppia.

E’ il caso di Sylvian con Sakamoto, di Marc Almond con Matt Johnson, e ora di Midge Ure degli “Ultravox” insieme con Mick Karn, ex batterista dei “Japan”. I due hanno recentemente pubblicato un 45 giri e un E.P. (extended play) dal titolo “After a Fashion” (ovvero “Dopo una moda”) dove uniscono le forze per un brano che ricorda non da lontano gli Ultravox. Ma, al di là dei soliti paragoni, la composizione raggiunge la perfezione, e troviamo elementi d’ascolto abbastanza godibili: basso e batteria elettronica in simbiosi e sempre alla ricerca di solide  ragnatele: e poi la voce sempre più matura di Midge Ure.

Il tutto è farcito di tanti piccoli  arrangiamenti veramente notevoli (solo a pensarci): violini, mandolini elettronici (nella versione E.P.) e percussioni che accentuano le origini e le influenze di  Mick Karn e dei suoi ex Japan.

In sostanza in un futuro queste collaborazioni probabilmente aumenteranno. E visto che in campo musicale sono state tentate tutte le miscele possibili, non resta altro che immaginare quali nuove collaborazioni salteranno fuori.

Ad ogni modo l’esito della coppia Ure-Karn è senz’altro positivo e non è difficile ipotizzare che il lavoro della coppia sia andato al di là di “After a Fashion”, tanto che forse un album verrò a completare il loro rapporto artistico sfociato in un’avventura in Egitto.

Dimenticavo: il 45 giro e l’E.P. sono per il momento importati e costituiscono due versioni leggermente differenti. Io ai casalinghi consiglio la versione a 45, mentre per chi debba farne uso in discoteca o per radio, la versione più lunga dell’E.P. In ogni caso è un disco da non perdere.

Marcello Nitti © Geophonìe

12.08.1983. Bill Nelson

 

Corriere Del Giorno, 12.08.1983

E’ tornato l’amore.

“Chimera”, un mini-ellepì di Bill Nelson

Vi ricordate dei “Be Bop de-luxe”? Nel pieno degli anni Settanta pubblicavano anno dopo anno lavori molto interessanti, un rock mai di plastica. Ma i Be Bop forse furono rei di non aver avuto una hit-song che li consacrasse. In questo gruppo militava Bill Nelson, cuore e cervello dei “B.B. de-luxe”, che adesso ritroviamo nelle vesti di primattore.

Nelson è un polstrumentista che spazia tra synths, chitarre e percussioni elettroniche con naturalezza. Va detto inoltre che tutti i brani sono cantati e composti da lui. I suoi lavori più convincenti rispondono al titolo di “The love tath whirls” (l’amore che accarezza), che comprendeva un altro album in omaggio con una libea composizione di “la bella e la bestia” da Jean Cocteau, e “Chimera”, l’ultimo lavoro, un mini-lp (vengono chiamati così perché includono 5-6 brani al massimo).

Questa produzione conferma la fantasia e la poliedria di Bill che attualmente ha stretto legami di collaborazione con Mick Karn, l’ex batterista dei Japan, e con Yukihiro Takahashi, già con la “Yellow Magic Orchestra”. Lo  sviluppo dell’elettronica non trova in Bill Nelson un sostenitore della periferia, ma piuttosto un valido ricercatore nella jungla delle sette note.

Partito per il Giappone dove ha lavorato appunto con Yukihiro Takahashi, ha notevolemtne arricchito il suo sound con leggerissime sonorità. Le sue realizzazioni sono continue affrescature dove i colori hanno le tinte del basso sinuoso e sensuale di Mick Karn o dei synths veloci e gentili di Bill. A ogni modo si tratta di albums che non incontrano un vasto favore di pubblico per la semplice ragione che non trovano una collocazione fra i prodotti di “largo consumo”.

Non si può non aggiungere, a questo punto, che meritano molta attenzione i video realizzati da Bill, in particolare “Flaming Desire”, forse uno dei migliori video mai prodotti in Inghilterra. Alcuni fotogrammi possono essere ammirati nella copertina di “Chimera”.

Marcello Nitti  © Geophonìe

Ciao Ennio

Omaggio a Ennio MorriconeQuando all’improvviso dal mondo scompare un grande, quello è il momento in cui si comprende davvero quanto sia enorme il vuoto, il cratere che una tale perdita produce. Lo si scopre subito, in un attimo, non appena si viene raggiunti dalla percezione dell’incolmabile che emerge dal raffronto con l’ordinaria capacità degli altri, la sensibilità degli altri, il talento degli altri, di tutti gli altri.

I grandi sono insostituibili, sono persone speciali, straordinarie, col proprio genio sono in grado di spingere il mondo in avanti, di superare il limite della conoscenza, creando ciò che prima di loro non esisteva.
Ci si guarda intorno e in un solo attimo si realizza che nessuno è al loro livello. Ed ecco che il vuoto, il cratere, lo si vede in tutta la sua evidenza.

Ennio Morricone con la sua musica visionaria ha portato avanti il cinema, gli ha fatto compiere un balzo enorme, così come come lo ha fatto compiere alla musica tradizionale dai cui territori per i suoi studi accademici proveniva, mescolandola con suoni che hanno esteso in modo sconfinato il campionario delle sonorità che oggi definiamo “musica”.

In un saggio di musicologia di qualche anno fa, “Superonda. Storia segreta della musica italiana” (Valerio Mattioli, Baldini&Castoldi, 2016, ISBN 9788868529031) con stupore si scopre – in un capitolo specificamente dedicato a Morricone – che il Maestro “esercitò quasi immediatamente una sottaciuta influenza proprio in America” tra gli sperimentatori di tutti quei suoni espansi e fisici che poi diedero vita alla musica psichedelica. Il western all’italiana prodotto tra il 1964 di Per un pugno di dollari e il 1968 di C’era una volta il West introdusse in America quel campionario di campane, schiocchi e rintocchi, fischi, armoniche solitarie, chitarre spagnoleggianti, trombe messicane, cigolio di porte, rumori di bosco, di venti impetuosi, gocciolii ossessivi di acqua, suoni deformati di gong e di echi, luci abbaglianti di sole portatrici di allucinazioni e miraggi che condussero gli sperimentatori d’oltreoceano verso il rock lisergico.

Ma l’influenza della musica di Ennio Morricone ha raggiunto tantissimi generi e stili musicali.
La sua scomparsa ci commuove e ci induce ad affermare, ma anche incentivare, il sentimento di gratitudine e di ammirazione che si deve ai grandi e che invece, colpevolmente, una società massificata e qualunquista, superficiale e demagogica tende talvolta a sminuire, trascurare o proprio oscurare, quasi come se l’essere geniali e speciali sia un disvalore di cui vergognarsi. Saranno pur beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Ma i grandi di spirito, quelli che svelano i nostri limiti e riescono a farceli accettare senza invidia e rancore, compensandoci con la loro arte salvifica, meritano onore e gloria qui in terra.

Grazie Maestro Morricone. Ci mancherai.

6/7/2020
Giuseppe Basile © Geophonie

14.04.1983. I Romeo Void, California

 

Da San Francisco ecco i benefattori del rock.

14.04.1983 Corriere del Giorno

E’ americano, è solido, dal sound ben definito.

Sorvoliamo l’oceano. In California troviamo una città, San Francisco, in continuo fermento. Forse la città più europea degli States, la città dei Jefferson Airplane, dell’acid rock e dei dimenticati hippies.

Oggi anche a San Francisco aumentano gli stili: bands elettroniche, numerosi gruppi punks e decine di gruppi rock che hanno trovato nell’etichetta “415 Records” un valido aiuto per essere conosciuti nel mondo.

I Romeo Void sono autori di un rock tipico americano, ma con in più la voce di Debora Lyall la quale caratterizza con il suo modo rap (a volte) il loro sound. Si sono fatti conoscere nel 1981 con la pubblicazione di “It’s a condition” con una splendida copertina in grigio, che faceva capire come il gruppo si orientasse su modelli diversi dagli stereotipi americani.

“Myself to myself” contenuta nell’album era il loro brano che più faceva presa dal vivo. Ma l’affermazione i Romeo Void l’hanno ottenuta lo scorso anno con l’uscita del secondo album “Benefactor”, solido rock americano: basso e batteria, cuore e polmoni, e il sax sicuro ed efficace.

In “Benefactor” troviamo “Never say never” pubblicata come singolo alcuni mesi prima, autentico inno del gruppo. Il brano fa il giro del mondo e adesso il gruppo è particolarmente conosciuto in Inghilterra.

Complessivamente il sound dei Romeo Void è ben definito. L’unico rischio che corrono è quello di ripetersi se si lasceranno andare a un successo improvviso.  Per chi ama ancora quei gruppi che suonano un buon rock, non certo alla “Saxon” o “Wishbone Ash” potrà trovare in questa band californiana un nuovo punto di riferimento.

Marcello Nitti©Geophonìe

03.05.1983 La poltrona di The The

03.05.1983, Corriere Del Giorno

 

Caro Johnson

E’ uscito “Perfect” con un’armonica in bella evidenza

Caro Matt Johnson, hai soltanto ventun anni e già occupi una comoda poltrona in questa caotica “new wave”. E sì, signori, il buon Matt ( o “The The”, se preferite), ha trovato la formula del successo immediato con l’impiego del minimo sforzo. Anche per lui è stato utile fare la conoscenza di Stevo, boss dell’etichetta “Some Bizarre”, il quale in soli sei mesi gli ha fatto pubblicare due singoli di una bellezza rara.

Tuttavia Matt aveva già proposto alcune sue composizioni, che non erano andate al di là dell’ascolto critico da parte degli addetti ai lavori. I risultati non erano stati assai soddisfacenti, e quindi Matt pensò bene di introdursi più saggiamente nella giungla discografica.

Stevo lo affidò alle cure dell’entourage dei Soft Cell (dei quali avremo modo di parlare), produttori e ingegneri, e fu così che andò in gestazione l’esordio di “Uncertain smile”, primo capolavoro di Matt Johnson. Il brano, pubblicato come E.P. e come 45 giri, era permeato da un incedere così caldo e pulito che fu subito un successo; grazie anche a un preciso ritmo che ne ha fatto poi un inno da discoteca.

La sorpresa in “Uncertain smile” veniva soprattutto dall’uso dello xilofono che, quasi in primo piano, dava una ventata di novità alla composizione, esaltata inoltre dalla giusta e riposante voce di Matt che andava a fondersi incantevolmente con l’insieme.

Come dicevo, i singoli erano due e ripetere il successo del primo appariva arduo. Tuttavia a febbraio è uscito “Perfect”, dove abbiamo trovato in bella evidenza l’armonica suonata da David Johansonn (ex “New York Dolls”) e quasi tutti gli ingredienti del trascorso “Uncertain smile”.

“Perfect” si pone indiscutibilmente come brano di successo, raffinato e, oserei dire, di lusso.

“The The” è diventato una realtà: molti lo imitano, mentre noi aspettiamo un album intero da ascoltare sotto il prossimo sole.

Marcello Nitti © Geophonìe

Astrid Hallén. Alla terza nuvola, continua avanti.

© Johan Ahlbom

Comprendere la propria attitudine e lavorarci con passione  è il valore che Astrid Hallén persegue per esprimersi interiormente nella recitazione. Un sogno, quello di recitare, che viene da lontano o, semplicemente, il vero desiderio, che in assoluta naturalezza è per Astrid esaltante, nel vivere questa bellissima avventura di essere se stessi cambiando pelle. Raggiungiamo Astrid in video chat per conversare di quello che sta diventando la sua professione e di come sono stati i suoi inizi nel mondo della recitazione. Astrid risponde dalla lontana Svezia e circondata da piante verdissime che sembrano darle linfa ed energia per il suo lavoro le chiediamo subito quanto ami recitare: Vogliamo parlare della tua personale esperienza nel mondo della recitazione?

© Johan Ahlbom

Recitare è il sogno della mia vita e la perseguo con dedizione. Voglio fare bene e la mia concentrazione è massima. Sento che è parte di me e non semplicemente un lavoro. Il mio impegno è volto a migliorarmi e a scoprire nuovi angoli nascosti di questa bellissima professione. Dedico il mio tempo a provare nuovi testi e a volte uso il mio telefonino per filmarmi e rivedermi. E’ importante capire dove recito meglio e in cosa devo migliorare. Astrid è svedese e naturalmente la conversazione si svolge in inglese. E’ molto attenta e scorgo una attenzione a spiegare per bene quello che lei vuole trasmettere anche dalla nostra semplice conversazione. Parlare del mio lavoro di recitazione è come spiegare un po’ come siamo fatti e voglio aggiungere che recitare per me è come esplorare un mondo nuovo. Inoltre si ha un contatto particolare con se stessi e quando studio un nuovo dialogo di una sceneggiatura è come immergersi in una nuova fantastica avventura. Chiedo ad Astrid quali sono stati i suoi primi passi nel mondo della recitazione e se ha sostenuto particolari studi:

© Tim Kristensson

Ho studiato in una scuola che si chiama Sinclair a Uddevalla  a 16 anni e lì ho imparato molto come recitare. Si recitava tutti i giorni e la mia forza di volontà ha fatto il resto. Posso dire di essere autodidatta anche se le basi le ho avute al Sinclair. A 16 anni ho incominciato a vivere da sola e a potermi concentrare su quello che veramente volevo studiare. Recitare. Continuando a dialogare con Astrid le chiediamo di coinvolgerci maggiormente nelle sue idee e opinioni riguardante il suo mondo della recitazione. Mi piace molto seguire il regista che mi consiglia e mi chiede, e nello stesso tempo cerco di improvvisare, considerandola come una sfida ad avere più forza interiore nello spingermi a capire le mie possibilità. Bisogna viverlo il momento, e metter fuori i propri sentimenti. E’ un gran momento in cui avviene un bellissimo contatto con me stessa. Sento come espandere la mia vita e renderla più grande e più intensa tutte le volte che recito.

© Anna Osk Erlingsdottir

Nel cuore della conversazione,  Astrid mi spiega che : Sai, trovo molta ispirazione nell’incontrare nuova gente con cui potermi confrontare sulle idee. E’ essenziale aprire dialoghi con mentalità differenti ed io in particolare lo trovo molto stimolante per il mio lavoro. Anche  leggere o vedere film accresce in me la fantasia e l’entusiasmo per esprimermi nella recitazione.

© Johan Ahlbom

E qui che Astrid da sola mi parla della sua esperienza più importante ….. La mia ultima esperienza di recitazione è stata quella di prestare la mia voce e la mia emozione di donna in un corto di Monica Mazzitelli. Una bravissima regista italiana che vive in Svezia e con la quale ho partecipato al suo “The Wedding Cake”. Sai, un corto a sostegno della condizione della donna nel mondo il cui tema è da me condiviso con molto interesse. The Wedding Cake ha avuto la sua anteprima mondiale in Islanda, al Reykjavík Feminist Film Festival, dove ha vinto il primo premio. Due settimane dopo c’è stato il debutto al più importante Festival del cinema scandinavo, il “Göteborg Film Festival” in Svezia. Sono poi seguite molte altre vittorie e nominations internazionali e questo è stato per me un’enorme soddisfazione. Aver potuto partecipare a questo progetto  e lavorare con la regista italiana è stato molto gratificante e in maniera inaspettata è arrivato anche il successo perché il corto ha vinto il primo premio al concorso del “Feminist Film Festival’s International Sister Competition” a Reykjavik.  Il mio incarico era di narrare con la mia voce la storia di una donna alle prese con le avversità della vita. Anche se sono stata solo la voce narrante, sentivo molto dentro di me il carattere del personaggio che dovevo interpretare e nello stesso tempo sapevo che il mio lavoro sarebbe dovuto arrivare alle donne del mondo affinché ricevessero solidarietà. Sicuramente uno dei ruoli più importanti che io abbia realizzato.

Astrid mi coinvolge con le sue parole e il dialogo diventa molto interessante quando affrontiamo l’argomento che riguarda la scena femminile nel cinema o nel teatro in Svezia. Sai Marcello, da quando il movimento #metoo è diventato globale c’è stato molto fermento nel mondo femminile della recitazione e anche da noi in Svezia ci sono molte nuove sceneggiature. Penso che stiamo vivendo un periodo intenso per l’interesse a portare sul palcoscenico o sullo schermo nuove storie, e soprattutto provenienti dalla realtà. Rimane sempre una realtà conservatrice nell’industria del cinema. I ruoli che mi hanno affidato sono quasi sempre molto femminili, come essere una moglie, o una fidanzata. Ho recitato in produzioni video musicali e i miei ruoli erano quelli tradizionali per una donna. Mi piacerebbe molto recitare in ruoli nei quali la donna ha una presenza forte e di comando o rappresentare uno strano personaggio femminile anche per crescere in nuovi ruoli.

Quindi recitando senti che la tua autostima cresce? Si può dire che recitare accresca sicurezza e determinazione? Penso di si. Perché no. Dai differenti ruoli che si interpretano, a poco a poco si impara sempre di più e l’autostima arriva quasi spontaneamente. Se il ruolo ha bisogno di una persona con autostima allora recitando quel ruolo io cresco e diventa qualcosa di unico dentro di me.

© Sean McLatchie Lewthwaite

Nel dialogare con Astrid non si poteva non conversare sui suoi preferiti nel cinema, registi e attori …. Mi piace molto vedere come recitano alcuni attori e tra i miei preferiti ci sono quelli che recitano sembrando se stessi,  mi piace anche vedere l’unicità di un set di come è stato preparato. Non gradisco scene già viste perché l’originalità nel cinema per me è importante. Ci sono molti film che si assomigliano e ovviamente preferisco nuove storie originali. Se sento di aver appreso qualcosa da un film allora posso dire che mi è piaciuto e che è un film importante per me e la mia carriera. Tarantino mi piace e anche Spike Jonze che ha diretto “Essere John Malkovich” che mi è molto piaciuto e ha diretto diversi video musicali. Tra le attrici Uma Thurman e non dimentico la bravissima Cate Blanchett. Auguro ad Astrid Hallén una splendida carriera e il sole che spunta dalle nuvole sembra essere di buon auspicio. La nouvelle vague del cinema Svedese si completa con questa interessantissima attrice.   Marcello Nitti © Geophonìe 27 Giugno 2020 Diritti riservati

Foto di copertina © Peter Gaudiano

22.04.1983. Ultravox, una lunga storia

 

 

Corriere del Giorno, 22.04.1983

Fu un colpo di fulmine.

Nel ’77 Brian Eno incontra John Foxx che ha da poco fondato gli Ultravox. Brian ne diventa il produttore e quello stesso anno pubblica il loro primo album.

La musica degli Ultravox era sottile e tagliente con una splendida voce di John Foxx che vi contribuiva in modo determinante. Eno così come era giusto se ne andò e Foxx rimasto orfano pubblicò con gli amici rimasti due album incantevoli “Ha! Ha! Ha!” e “Systems of Romance”.

Molti furono in quel periodo i gruppi che nacquero imitando gli Ultravox i quali, non a caso, godevano della stima della stampa inglese arcinota per la sua taccagneria sul piano del consenso.

Ma le sorti del gruppo continuarono ricche di avvenimenti: John Foxx li abbandonò e tutti, allora, pensarono che degli Ultravox nessuno avrebbe più sentito parlare.

Andò invece che le redini del gruppo vennero prese da Midge Ure grazie al quale cambiò anche la musica degli Ultravox. Le relazioni pubbliche aumentarono, Warren Cann, Chriss Corss e Billy Currie uscirono allo scoperto.

Nell’80 viene pubblicato “Vienna”.  I nostalgici della vecchia formazione urlano allo scandalo; coloro che sanno che la vita può imporre profonde trasformazioni si dimostrano ottimisti. “Vienna” è un successo. E’ l’era dei “video” e quelli degli Ultravox sono spettacolari: il filmato che riguarda “Vienna” è solo secondo a quello di Bowie per “Ashes to Ashes”.

Seguiranno poi “Passing Strangers” da “Vienna”, “The Voice” e “Thin Wall” da “Rage in Eden” fino a giungere a “Reap the wind” e “Hymn” dal loro ultimo album “Quartet”.

Visti quest’inverno dal vivo in Francia, gli Ultravox hanno allestito il loro show servendosi di una scenografia suggestiva, la stessa che poi è stata riprodotta sulla copertina del loro ultimo album. Inoltre godevano dell’ausilio di due vocalist che hanno mandato in visibilio la platea. In Italia si esibirono nel dicembre ’81 e forse ritorneranno la prossima estate.

Frattanto è stato pubblicato un singolo di Midge Ure che interpreta una canzone di Tom Rush. Gli Ultravox da parte loro propongono un E.P. con la versione live di “Reap the Wind”.

Marcello Nitti © Geophonìe

23.04.1983. I Thompson Twins, dai cartoon alle isole Bahamas

 

Corriere del Giorno, 23.04.1983

Quel suono sporco, africano.

Debitori verso profonde culture giovanili cone il “reggae” e il “punk”, i “Thompson Twins”, ovvero i gemelli Thompson, stanno conquistando le classifiche di mezzo mondo.

Due notizie: il nome lo hanno tratto da un celebre cartone animato che aveva per protagonisti due balbuzienti investigatori “Thompson and Thompson”; la loro avventura musicale è cominciata nel 1977. Come dicevo le radici dei Thompson Twins sono il reggae e il punk ma il loro sound è una “dance music” raffinata. Amano tinteggiarsi i capelli ornati spesso da lunghe trecce e indossano abiti di grande effetto.

Attualmente sono in tre e vengono guidati da Tom Bailey che è inglese, mentre la giovane Alannah Currie è della Nuova Zelanda e Joe Leeway è nigeriano. Alla formula a tre sono giunti da poco e comunque hanno già all’attivo tre album l’ultimo dei quali è “Quick step and Side Kick”. Originariamente i Thompson nacquero come settetto, diventarono quindi  un quartetto per trasformarsi definitivamente in un terzetto. Una riduzione che però non li ha dennaggiati in qualità.

Con un discreto seguito a livello mondiale, hanno suonato in Europa, Giappone e Australia esibendosi inoltre due volte al “Ritz” di New York. Sono infuenzati moltissimo dal suono africano, acerbo e sporco. Tom Bailey ha dichiarato di provare una intensa eccitazione all’ascolto di quei suoni. I Thompson scrivono testi permeati da storie d’amore, le più frequenti, le più normali: vittime delle illusioni dell’amore, traditi e traditori, affascinanti carogne che ingannano l’amato o l’amata ricevendo in ogni caso fiducia, fedeltà amore e passione.

Sono internazionali. Incidono in costosissimi studi di registrazione a Nassan nelle isole Bahamas e, bisogna dirlo, sono estremamente simpatici.

L’aspirazione dei “Thompson” è di divertirci dopo una parentesi davvero lunga di decadimento della disco-music; aspirano anche a guadagnare molto e abbastanza in fretta.

Capaci di shows unici, tutti giocati su ritmi miscelati con sintetizzatori e percussioni e con parti vocali sempre in bella evidenza, i Thompson ballano e zompano instancabilmente.

Curano con mania perfezionistica il palcoscenico, pullulante di decine e decine di coloratissimi spot che ben si confanno ai colori vivaci trasmessi dai Thompson Twins.

Marcello Nitti © Geophonìe

07.04.1983. E’ uscito il nuovo 33 dei Pig Bag

 

Corriere del Giorno, 07.04.1983

Seconda prova su vinile dei Pig Bag, gruppo nato dalle ceneri del Pop Group. Dopo “Dr.Meeckle and Mr. Jive”, i Pig Bag propongono “Leand an ear”, un disco che viene pubblicato in un momento particolarmente piatto di qualità musicali.

Intendiamoci. La miscela dei Pig Bag è immancabilmente frizzante: ritmi jazz mescolati in soluzioni fiatistiche molto convincenti. Ma tutto questo non basta ad elevare “Lend an ear”.

I Pig Bag rimangono soprattutto una “band live”. Le loro performance sono veri e propri appuntamenti di allegria e di gioa. Gli stessi  musicisti (sette), pieni di verve, comunicano brio e voglia di ballare.

Il gruppo è inglese e incide per la “Y Records”, una piccola etichetta alternativa. Vi anticipo che è in programma una piccola tournèe italiana. Non perdetevi duqneu questo nuovo incontro con i Pig Bag.

Marcello Nitti ©Geophonìe

09.04.1983. Bossanova e amore. A voi gli Antena

 

DISCHINOVITA’ / “Camino del Sol”

Corriere Del Giorno, 09.04.1983

Con l’ondata post-punk, centinaia di ragazzi, affascinati dal mito di un rapido successo, hanno imbracciato una chitarra e hanno subito cercato la strada dell’incisione discografica. A questo punto sono spuntati nuovi stili, nuove miscele musicali e non è stato trascurato alcun filone. Gli “Antena”, per esempio, sono belgi e amanti della bossanova e dei ritmi latini. Hanno proposto una versione della famosissima “The girl from Ipanema” ottenendo consensi in Francia, Svizzera e Belgio.

“Les disques du Crepuscule”, la loro attuale casa discografica, ha dato loro l’opportunità di incidere e pubblicare recentemente un mini-ellepì, decisamente splendido. La musica degli “Antena” è fatta per sognare, piena di tenui calori e ritmiche leggere e dolci. Il loro ultimo lavoro ha per titolo “Camino del sol” e narra di avventure amorose da trascorrere in hotel sulla riva del mare durante estati assolate.

Le due donne del gruppo (gli elementi sono tre in tutto), con le loro voci hanno sicuramente arricchito le composizioni che formano “Camino del sol”. Signori, è musica da ascoltare la prossima estate, quando andrete in calore; ma naturalmente è pure musica da non disprezzare in altre occasioni.

Non credo comunque che vi sarà mai un notevole successo commerciale per gli “Antena”. La loro rimarrà semplicemente musica (soave) per pochi eletti.

Marcello Nitti ©Geophonìe

12.04.1983. Billy McKenzie da solo propone “Ice Cream Factory”

 

Corriere Del Giorno, 12.04.1983

Associates dissociati (per quanto?)

Compagni di etichetta dei Cure, gli “Associates” pubblicarono nel 1980 “The Affectionate Punch”, che nonostante fosse un lavoro molto nuovo, passò inosservato, tanto che il duo Mckenzie-Rankine dovette insistere con coraggio anche perché la casa discografica non gli diede più fiducia.

Ed è così che sfornarono una serie di singoli di notevole bellezza. La raccolta che ne nacque fu un album dal titolo “Fourth deawing down”.

Una musica che ricorda drammi da palcoscenico, con una straordinaria voce di Billy McKenzie, capace di alzarsi e farci scendere a suo piacimento, e l’innesto del fatto elettronico mai fine a se stesso.

Tuttavia la loro affermazione è arrivata con la pubblicazione del singolo “Party Fears Two”, un qualcosa di inaudito, un pezzo di rara bellezza, corale e trascinante. L’album che lo ha seguito subito dopo, “Sulk”, ha confermato lo stato di grazia degli “Associates” i quali caparbiamente si sono riproposti al pubblico inglese che, solo, ha avuto finora il piacere di ascoltarli dal vivo.

Frattanto, sulla scia del loro attuale successo, la “Wea” pubblica il primo album, completamente “rimixato” in modo da rendere attualizzato il suono “Associates”.

Anche per questo motivo la pubblicazione del quarto album del duo ha subìto un rinvio, mentre, sorprendendoci, Billy McKenzie pubblica un nuovo singolo con musica di “Orbidoig” dal titolo “Ice Cream Factory”. Un lavoro impressionante, dove la voce di Billy non si smentisce in creatività e sicurezza.

Rankine invece collabora con un gruppo inglese a livello di produzione, in attesa che giunga il momento adatto per pubblicare il nuovo album come “Associates”.

Marcello Nitti ©Geophonìe

31.03.1983. The Stranglers. Occhiate furtive all’Europa

 

31.03.1983, Corriere del Giorno

Un gruppo al di sopra delle etichette. Amano l’Europa e di tanto in tanto risiedono in città come Parigi, Bruxelles, Zurigo …

Sono gli Stranglers. Hanno all’attivo nove album dei quali uno registrato dal vivo. Nel dicembre ’82 è uscito il loro ultimo lavoro dal titole “Feline”. Occhiate furtive e nitide di questa Europa intramontabile. Un prodotto sincero, immediato. Almeno due canzoni rimarranno dei classici. Stiamo parlando della fantastica e geniale “The European Female” e della corale “Paradise”.

Jean Jacques Bournel e soci ci hanno così regalato un’altra gemma dopo lo splendido “La Folie” e come di solito accade è sempre difficile mantenersi di lavoro in lavoro ad alti livelli. Gli Stranglers ce l’hanno fatta e speriamo di  poterli vedere in una tournee italiana.

Marcello Nitti ©Geophonìe

Polyrock un po’ figli di regina

 

A Triggiano l’atteso concerto del gruppo americano. Venerdì 15 arrivano i “Virgin Prunes”.

Triggiano – Nel palazzetto dello sport di Triggiano venerdì sera sono arrivati venerdì sera molto più numerosi che al precedente concerto degli Echo and The Bunnymen. Diciamoci la verità: i “Polyrock” erano attesi con grande curiosità dai pugliesi.

Dopo l’esibizione dei “Vox Rei”, un gruppetto locale, alle 23 i Polyrock sono saliti sul palco turbati subito da un piccolo incidente occorso a Billy Robertson, il cantante chitarrista, che nell’imbracciare la chitarra si è colpito involontariamente col manico su una sopracciglia ferendosi a sangue. Poca roba comunque. Così gli “americani” hanno aperto lo spettacolo con “Indian Girl” tratto dal loro ultimo album. Ma è stato con il secondo brano che siamo entrati nel mondo del “Polyrock-sound”.

M.Nitti © Geophonìe

Una musica ritmatissima e colorita dai rari appunti dei synths. Billy Robertson è al centro, ed è proprio lui che ha prodotto le migliori canzoni.

Ma la vera sorpresa è stata data tuttavia dal nuovo entrato, che ha preso il posto di Tommy, fratello di Billy, alla chitarra.  Pulito, versatile e qualche volta trascinante, ha tenuto bene la scena producendosi in due “bis” veramente azzeccati.

M.Nitti © Geophonìe

I Polyrock hanno eseguito le loro migliori canzoni, da “Changin Hearts” a “Love Songs” , da “Like Paper on a rack” a “Working on my love”. In conclusione due bis di due brani ciascuno. In definitiva si tratta di un gruppo che strizza l’occhietto a qualche cosa di inglese, ma con una propria indiscutibile identità. Una band che sicuramente riuscirà in breve ad imporre il proprio sound, senza cadere nella trappola del commerciale bolso e scontato.

L’unico neo forse è da cercare nella pochezza dell’impianto luci che avrebbe meritato più considerazione, data la musica particolarmente pulsante dei Polyrock.

Vi ricordo che il prossimo venerdì 15 aprile a Triggiano si esibiranno anche i Virgin Prunes, gruppo irlandese. Ma ne parleremo in futuro.

Marcello Nitti © Geophonìe

MUSICA /«Black Heart», canta Marc Almond (Soft Cell)

 

Mi faccio strada col piccolo E.P.

Gli E.P. (extended play) sono nati per precise esigenze commerciali: anzitutto per una migliore resa della parte incisa, che tranne in alcuni casi è quasi sempre a 45 giri; In secondo luogo per un migliore uso in  discoteca, essendo un 12”; infine per promuovere con più frequenza i gruppi o i cantanti da parte delle case discografiche.

Ultimamente gli E.P. svolgono una incisiva influenza sulle vendite successive degli ellepi. Se l’E.P. è di successo, anche l’album che lo seguirà avrà buoni indici di vendita. E’ il caso per esempio di «New Gold Dream» dei Simple Minds i quali, prima di pubblicare l’album, fecero addirittura uscire ben due E.P., il superfamoso « Glittering Prize» e «Promised you a miracle».

 

Di questi giorni è d’altra parte la pubblicazione per l’etichetta «Some Bizzarre» di un 12’’ di Marc And The Mambas che altri non è che Marc Almond, la metà dei raffinatissimi Soft Cell.

Dopo aver pubblicato nello scorso dicembre un album con incluso il solito 12’’ in omaggio, ora Marc Almond pubblica «Black Heart» (comprendente «You Aura») che piace al primo ascolto. Marc è la voce dei Soft Cell, gruppo ormai famoso anche per il remake di «Tainted Love».

In questa sua nuova avventura, senza separarsi dai Soft Cell, Marc si fa aiutare da Matt Johnson, meglio conosciuto come The The. Il lavoro che ne è scaturito è molto esaltante, due composizioni romantiche cantate magistralmente da Marc e accompagnate da un gruppo di suoi amici per quanto riguarda i fiati e i violini.

Il tutto risulta senza dubbio un piccolo gioiello e le fonti d’Oltremanica ci informano che presto sarà pubblicato un nuovo album ricco di sorprese e che anche Matt Johnson o The The sta preparando il seguito dei suoi due successi, «Uncertain Smile» e «Perfect».

Vedremo chi di questi amici-rivali riuscirà a impressionarci di più.

Marcello Nitti © Geophonìe

Heaven 17 Una  tentazione da ballare in elettronica

 

In attesa che esca alla fine di aprile l’atteso album degli Heaven 17, ecco che viene pubblicato “Temptation”, un EP con tre brani. Dopo il successo dell’81 di “Penthouse and Pavement”, il gruppo si è mantenuto in una fase di edificazione e di mantenimento del proprio successo, pubblicando nell’ottobre ’82 un singolo di qualità, “Let me go”. Grazie a un bellissimo video, il singolo ha trovato posto dappertutto; radio, discoteche, tivù, ed è praticamente da allora che gli Heaven 17 stanno pensando e preparando il prossimo lancio discografico.

L’atteso album del terzetto di Sheffield avrà per titolo “The Luxury gap”. A mio parere gli Heaven 17 sono unici nel proporre musica elettronica da ballare a questi livelli. Non c’è nessun gruppo capace, in maniera originale, come loro.

“Temptation” si discosta da “Let me go”. Vi troviamo “We live so fast”, velocissimo brano di electronic-dance portata a livelli raffinati, con un intreccio di synths sbalorditivo, con una ventata di freschezza immancabile. Inoltre l’omonimo “Temptations” cantato in coppia con Karol Kenyon; e infine “Who’ll stop the train”, già pubblicato sul mercato americano.

In definitiva gli Heaven si confermano sicuri della loro “società commerciale” e cercheranno di portare ovunque il proprio marchio. Attendiamo il calendario dei concerti per gustarci i loro hits.

Marcello Nitti © Geophonìe

31.10.1984. Pete Wylie chi è costui? (leggete e scoprirete)

 

Il suo è  forse il più bell’album dell’84

A molti, il nome non dirà granchè, visto che i suoi lavori non hanno un seguito entusiasasmante e che lui ama firmarsi con il nome di Mighty Wah. Inglese, grande amico-nemico di Ian McCulloch degli Echo and the Bunnymem e di Julian Cope dei Teardrop Explodes, Pete Wylie collaborò proprio con questi musicisti in una Liverpool sempre rivolta ai Beatles intorno al ’77-’78.

Pete Wylie dei tre ha avuto meno successo, ma non per questo è da considerarsi il meno preparato; anzi forse dei tre è quello che più è riuscito a spaziare in diversi generi musicali. Indubbiamente, una varietà di stili ha disorientato la sua audience, ma ha arricchito notevolmente le sue attuali composizioni. Pensate che Pete Wylie non riusciva ad ottenere un contratto discografico perché le sue canzoni erano valutate in maniera disastrosa.

Per fortuna nell’estate dell’84 veniva pubblicato un E.P. che era il preludio alla pubblicazione di un album; il titolo del singolo “Come Back”,  ovvero un gradito ritorno all’eclettico Wah. Subito dopo esce l’album “A word to the wise guy”: un capolavoro. L’album contiene in omaggio un E.P. dal titolo “You Learns” cantata in un “rap elettrico” da Eugene Lange, e un opuscolo con testi delle liriche. I brani contenuti hanno il potere di accennare entusiasmi, di far vorticare sogni-idee-pensieri, di soddisfare passione e di far amare.Ogni perla di questa collana ha il suo colore nutrito da altri colori, forse il più bell’album del 1984.

Provate ad ascoltare “Weekends” o “I know was somethings” e le influenze soul penetreranno nella pelle, o ancora “Come Back” o la grandiosa “Body ‘n’ soul” dove fiati e cori sembrano fiumi di farfalle volteggiare in un’aria di festa, fino a raggiungere il vertice con “The last Generation”, dove il buio ha vergogna di esistere.

In questi giorni appare sul mercato un altro E.P. di Pete Wylie (in arte “Wah!”) e contiene tre differenti versioni di “Weekends”, “The lost generation” e “Body ‘n’ soul”, trattate con semplicità acustica e con un’intimità da rispettare. Il miglior album dell’84, dicevamo, ha come titolo “A word to wise guy” e Pete Wylie ne è l’autore, e lui stesso, forse con una punta di presunzione, che a volte non guasta, ci ricorda che “le cose di qualità non hanno paura del tempo”.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

Vecchi cari Soft Cell traditi

 

Rock / Down in the subway / In strict tempo

I Soft Cell si sono divisi, viva i Soft Cell. Questa notizia infuriò l’estate scorsa, e sorprese non poco, Marc Almond annunciò che anche il suo progetto con i Mambas sarebbe finito di conseguenza, e che nuove strade avrebbero percorso, lui e Dave Ball. Un nuovo E.P. dei Soft Cell era annunciato da alcune settimane, e tutto lasciava ben sperare come immancabilmente Almond e Ball ci avevano abituati.

Invece, dopo aver ascoltato «Down in the subway» per la prima volta rimango deluso e scarico le responsabilità sulla casa discografica, rea a mio parere di aver pubblicato questo singolo solo per cercare di ottenere quel guadagno sicuro che un nome come i Soft Cell può garantire. L’E.P. contiene due brani nel lato B e sono “Disease and Desire” e “Born to Lose” di Johnny Thunders degli Heartbrakers. Anche “Down in the subway” è un remake della versione originale di Jack Hammer, ma il tutto non convince anche se le esecuzioni di Ball e la voce di Almond sono impeccabili. Anzi forse verrà edito un album dei Soft Cell con registrazioni effettuate nel periodo di sodalizio della coppia, sperando che non vengano pubblicati materiali di scarto, che la vecchia volpe di Stevo pare abbia gelosamente conservato.

E mentre Marc Almond era impegnato con le sue Mambas la sua metà (Dave Ball) registrava «In strict tempo» e produceva delle canzoni per i Virgin Prunes. «In strict tempo» è stato pubblicato nel novembre dell’83 e oltre alla splendida copertina, troviamo uno stuolo di collaboratori. Tra i rilevanti al flauto c’è Virginia Astley e al sax Gary Barnacle, ma l’apporto più sorprendente è di GenesisP.Orridge, ex Throbbling Gristle e neo Psychic Tv che canta in due brani dove le liriche sono state scritte da lui.

«In strict tempo», più che uno sforzo solistico di Ball, è una riunione di amici che aiutano il più esperto a completare quelle idee che covavano nei cassetti della mente. L’elettronica di Ball è soffice, le sue tastiere sono ad ampio respiro, si muovono a piccoli passi e piano piano ti avvolgono baciandoti e coccolandoti. I fiati e i violini servono a dar sostegno e la voce di Genesis P. Orridge la troviamo in  “Sincerity” e in “Man in the mam”, due brani che hanno il tocco del vento nei capelli. Occhi vogliosi guardano sempre più giù, e così di fila ci riempie con “Mirrors”, “Passion of a primitive” e “Only time”.

In definitiva, un esordio convincente, certamente non privo di quegli errori dovuti ad egocentrismo, che solo due occhi luminosi potranno capire.

Marcello Nitti © Geophonìe

“The Hurting” dei Tears For Fears. Volo di Gabbiano.

Era impensabile che sul mercato italiano potesse essere introdotto un singolo dei Tears For Fears. Ma avvenne. Erano gli albori del 1982, il disco si intitolava “Pale Shelter”. Il brano era prodotto da Mike Hawlett ex  “Gong” (chi ha superato la ventina se li ricorderà) il quale ne fece un successo anche di critica. Poi Hawlett si smarrì seguendo la produzione di altri gruppi, mentre Curt Smith e Roland Orzabal dovettero continuare per altre strade. Frattanto, e forse a loro insaputa, in quel giro che conta a Londra i Tears For Fears stavano diventando una realtà assai solida con due singoli ugualmente validi, “Mad World” e “Change”. Ricchi di arrangiamenti cesellati, di armonie che si intersecano come nei circuiti di un video game, di synths adoperati sempre con creatività, i due pezzi in questione giunsero senza difficoltà in vetta alle classifiche inglesi.

La prova del 33.

A questo punto era necessaria una prova a 33 giri: le “lacrime della paura” si lasciano così aiutare nella produzione di Chris Hughes, già noto per “Adam and The Ants”. L’album, “The Hurting”, conferma in pieno qualità e attitudini dei Tears For Fears, qualità e attitudini peraltro ampiamente palesate nei precedenti singoli. “The Hurting” viene pubblicato dalla Mercury grazie anche al laborioso aiuto di Phil Palmer e di Mel Collins. Palmer ha già collaborato con Joan Armatrading, e Collins – indimenticato membro dei King Crimson  (seconda edizione) – è session man di primo rango in tantissimi gruppi tra i quali è facile ricordare i Rolling Stones.

L’ascolto di “The Hurting” è consigliabile a tutti, il sound non richiede particolari attenzioni e la sua energia sta proprio nel concentrare le variegate emozioni e sensazioni che si trovano racchiuse in queste esili canzoni, permeate tutte di quei suoni cari, adesso più che mai, alla vecchia Inghilterra: naturalmente sto parlando dei synths che qui appaiono come gabbiani in volo.

Per finire posso segnalare il nuovo E.P. dei Tears For Fears: contiene una versione remixata di “Pale Shelter”.

Marcello Nitti © Geophonìe

Ma la testa più grossa è quella di David Byrne

Dopo lo scioglimento dei Soft Cell, dei Bauhaus e dei Rip Rig and Panic, ci giunge ora notizia che Mick Jones, chitarrista dei Clash, è stato allontanato dal gruppo da Paul Simonon e Joe Strummer. I due rimproverano a Jones di aver deformato musicalmente l’idea originale del gruppo. In un comunicato stampa dei Clash (1° settembre) c’è stato l’annuncio ufficiale della defezione – allontanamento di Mick Jones, proprio mentre il gruppo era alla vigilia della pubblicazione di un doppio album live.

Passando a New York, al “Forest Hills Stadium”, i Talking Heads si sono esibiti davanti ad una folla strabocchevole: David Byrne fa il suo ingresso da solo, e con la chitarra e una “rhythm machine” propone una versione inedita di “Psycho Killer”. Con l’ingresso dell’amata bassista Tina Weymouth, del batterista Chris Frantz e finalmente del polistrumentista Jerry Harrison, vengono una dopo l’altra canzoni come “Heaven”, “Thank you for sending me an angel” e “Love goes to building on fire”. L’effetto è come un viaggio nel tempo, una sorta di lezione di storia musicale. Un po’ più tardi fanno il loro ingresso il percussionista Steven Scales, il chitarriasta Alex Weir, il funk-tastierista Bernie Worrell e una coppia di ballerini.

Le composizioni successive travolgono i presenti, “Swamp”, e “Girlfriend is better” tratte da “Speaking in Tongues” in giusta contrapposizione a “Big Blue Ply Mouth”, “When a day that was” e “Big Business” tratti dall’album solo di Byrne “Catherine Wheel”.

I ritmi afro-moderni tanto cari alle famosissime “Teste parlanti” si ritrovano in ogni brano e mai sopprimono le originali radici del gruppo. Poi ancora “I Zimbra” e “This thust be the place” (con David Byrne che diventa un novello Fred Astaire) insieme a “Once in a lifetime”. Come piatto speciale a conclusione di questo isolato concerto nuovayorkese, i “Talking Heads” eseguono “Genius Of Love” dei Tom Tom Club e “Burning Down the house”.

Il concerto ha confermato ancora una volta che la “testa” più alta è quella di David Byrne, il quale ha saputo fondere con precisione da alchimista le influenze americane, europee e africane.

Marcello Nitti © Geophonìe

05.03.1984. Bologna, Depeche in concerto.

L’esibizione italiana in due date.Qualche delusione.

 

A Bologna lunedì scorso, per l’esordio italiano dei Depeche Mode. Dopo la recente trionfale tournèe in Germania, due erano state le date fissate in Italia, in marzo: il 5 a Bologna, il 6 a Milano. Al teatro Tenda di Bologna alle 19 c’è già folla. Dopo vari posti di blocco riesco ad arrivare nel recinto del servizio d’ordine. La tenda, a vista d’occhio, mostra una capienza di seimila posti. Tanti presenti, persona più persona meno, pochi minuti prima che lo spettacolo cominci.

Alle 21.33 le luci si spengono. Un boato accompagna le note introduttive di “Everything counts”. Il concerto ha inizio. Alan Wilder, David Gahan, Andrew Fletcher alle prese con le loro tastiere. Martin Gore è il “front man”: la voce dei Depeche.

Le composizioni si susseguono: “Told you so”, “And then”, “See you”, “Photographic”, “Love in itself”, “More than a party” . Nonostante il continuo incitamento del pubblico, avverto difetti di base. I suoni impeccabili ricordano perfettamente il lavoro di studio, la bravura del singer Martin Gore. Le basi preregistrate anticipano ogni esecuzione.

La mancanza di atmosfera esterna, in ogni brano, sminuisce ogni sogno o ricordo che attribuivo alle loro canzoni. La totale calma e la compostezza degli altri tre, dietro le tastiere, insospettisce: nessuno per tutto il concerto vedrà muovere le dita sui propri strumenti ad Alan, David e Andrew.

Lo spettacolo è scivolato via per un’ora. Il momento più intimo è stato “And then …”, ballata elettronica tratta da “Construction time again” pubblicato lo scorso autunno. Dopo la rituale richiesta di bis, i Depeche Mode escono. La terza uscita uscita dei Depeche riserva un piccolo giallo: durante l’esecuzione di “Just can’t get enough” un’improvvisa interruzione per mancanza di energia elettrica.

Leggera disapprovazione del pubblico e primo annuncio: il concerto non può proseguire perché un cavo generale passante tra il pubblico e collegato al mixer è nettamente tranciato. Il secondo annuncio placa gli animi eccitati: il problema tecnico è risolto. Il concerto, dopo le scuse dei Depeche Mode, riprende con altri due brani. Con il replay di “Just can’t get enough” il quartetto porta a termine il concerto con la quasi totale approvazione di un pubblico divertito e soddisfatto.

Marcello Nitti © Geophonìe

Quando guanto significa “The Glove” (e onore)

Il guanto sostituisce la crema protettiva per le mani.

Un tempo, i tempi del Bois de Boulogne, veniva sfoderato per risolvere vertenze di onore. E’, a conoscenza di popolo, un feticcio primario, come la sciarpa. Nel nostro caso, direttamente dalle stanze più altolocate della «new-wave» inglese, il guanto si accompagna a una precisa realtà musicale.

«The Glove» (ovvero il guanto) è una nuova formazione che, nata più per caso che per necessità, in poco tempo vedrà assumere il primo lavoro «Blue Sunshine» a modello per i prossimi anni a venire. «The Glove» in sostanza significa Robert Smith, il padrone assoluto dei misteriosi «The Cure», diventati ormai un rinomato marchio di fabbrica. Smith impera sui «The Cure»: ecco quello che ha detto a proposito di «Let’s go to bed» il singolo un po’ ottimista musicalmente per mano «The Cure».

«Avevo voglia di scrivere un brano che potesse funzionare in discoteca, non credo di dover rendere conto a qualcuno se ho trascorso un periodo della mia vita in piena felicità; anzi, spero che si ripeta!».

Ad affiancare Robert Smith c’è Steven Severin che è il batterista dei mitici «Siouxsie and the Banshees». I due, incontratisi a Londra in assenza di «Siouxsie e Budgie» (l’altro 50% dei «Siouxsie») impegnati alle Hawaii con le registrazioni del loro primo album color-tribale «The feast» sotto il nome di «The Creatures», hanno dato vita a composizioni di riguardo. “Punish me with kisses» fu scritta al primo parto, con l’aiuto di Landray (dolce voce femminile) e Andy Anderson alla batteria e il progetto cominciava a coinvolgere sempre più i nostri protagonisti. L’album ha bisogno di essere ascoltato più volte e, al di là dalle apparenze, non è frivolo confermandosi viceversa come il miglior lavoro dell’83. I brani sono uniti da una sottile vena di passione, nella quale ognuno può trovare una propria ragione di agio. Complessivamente l’album contiene dieci pezzi, di cui due strumentali, due cantati da Robert Smith e sei cantati da Landray.

Il tutto risulta senza dubbio come frutto di equipe e meraviglia l’ottima intesa che ne traspare. «Like an animal», che apre i solchi, ha fatto anche la sua comparsa come singolo, e tutto ciò che lo segue dà la chiara sensazione di trovarsi di fronte a piccoli capolavori. “Looking glass girl», primo tra tutti, è struggente e bellissima; «Perfect Murder», cantata da Robert Smith, insegue sinuosamente stelle e arcobaleni: «This green city», «Mr. Alphabet Says» e «Orgy», in un vortice di piacere, fanno desiderare amori forti e luminosi. Con «Relax» si chiude l’album e, naturalmente, siamo convinti che è nata un’altra stella, dopo quelle scintillanti dei «Wire» e dei «Joy Division».

Marcello Nitti © Geophonìe

I Culture Club, figli di Strange

Londra, notte.

Fra le nebbie di Londra negli ultimi due anni sono spuntati innumerevoli locali abbastanza particolari, fra i qualil il “Blitz” e il Futura”. Club esclusivi dove sono nate culture del vestire che poi a loro volta hanno rappresentato le identità di altrettanti gruppi.

Steve Strange nel suo locale il martedì  programmava unicamente musica di David Bowie, tanto che la serata veniva soprannominata “Bowie Night”:  lo stesso Steve Strange che  insieme agli Ultravox (Midge Ure), ai Magazine (Adamson) e ai Banshees (John Mc Gough) creò i “Visage”.

Erano serate stravaganti cui prendevano parte molti nomi della “new wave” più seguita. E naturalmente la voglia del successo, che sopraggiungeva a cucchiaiate, determinò un ulteriore incremento dei gruppi nascenti, uno dei quali, al primo lancio discografico ha già fatto centro: sono primi in Inghilterra, sesti nelle classifiche Usa. Il loro singolo di successo è “Do you really want to hurt me”, loro si chiamano  “Culture Club”. Boy George sembra esserne il leader, se non altro per il motivo che sessualmente è equivoco e inoltre perché la sua immagine ci ha già affascinati.

Il “video” del singolo ha ottenuto grandi consensi e il lento andare del filmato ben si addice all’avanzare languido e reggheggiante del brano in questione.

L’album si chiama “Kissing To be clever” e tutti i pezzi sono permeati di un funky bianco ben strutturato e assai orecchiabile.

Tra i musicisti del gruppo c’è Jon Moss che – non dimenticatelo – era il primo batterista dei “Clash”.

Organizzatori italiani contano di trascinare in Italia i “Culture Club” per i prossimi mesi di giugno-luglio. Speriamo di poterci godere dal vivo una di quelle serate londinesi.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

02.12.1982. Ricordati Barbara quella notte di stelle a Ginevra

Dischi. Vi segnalo i “Passions”, con una Gogan dalla voce elegantissima.

Vi propongo i “Passions”. E ve li propongo raccontandovi un mio ricordo personale. E’ il 2 dicembre 1982. I “Passions” sono attesi a Ginevra, in Svizzera. Acquisto il biglietto in prevendita e cerco di immaginare se dal vivo il gruppo riuscirà a confermare quel talento che dimostra negli album. Arrivo in netto anticipo sull’orario del concerto e, dopo aver bevuto qualcosa, mi sistemo proprio sotto il palco, insieme con un amico. Alle 21, puntuale come un orologio svizzero, il gruppo fa il suo ingresso, e immediatamente le note di “The Swimmer” inondano il grande salone del 1700 dove si svolge lo spettacolo.  Il pubblico, poco numeroso, si dimostra subito svogliato, applaude timidamente alla conclusione di ogni brano. Ma, ad ogni modo, lo spettacolo cresce in qualità canzone dopo canzone. Tanto che, dopo la prima mezzora, stiamo delirando per “I’m in love with german film star”, una versione impossibile, con una nuova al sax e alle tastiere, che accompagna i Passions in tour.

Barbara Gogan, Ginevra, 2.12.1982. (Marcello Nitti © Geophonìe)

Barbara Gogan, con la sua voce elegantissima, sciorina via via tutti i migliori brani: la favolosa “Into Night”, la toccante “Sanctuary”, la veloce “Jump for Joy”. Il pubblico è appagato, tutti si mettono in movimento, i bis sono addirittura quattro. Entusiasmante. Barbara ringrazia in francese e la sua esile figura scompare dietro le quinte, dove la raggiungo per poterle parlare.

La chiacchierata ha luogo in uno chalet-ristorante, con Barbara che tra un boccone e un bicchiere di vino mi racconta quanto le piacerebbe poter suonare in Italia. Per il resto, abbiamo parlato come due vecchi amici. Alle tre del mattino ci salutiamo. Barbara mi garantisce che presto verrà in Italia. Andiamo a casa sotto un cielo stellato, con le luci notturne di Ginevra e la musica dei Passions come colonna sonora.

Marcello Nitti © Geophonìe

11.09.1983. Peter Hammill. Quanta gioia in quella rabbia.

Ricorderete senz’altro i famosi «Van der Graaf Generator», guidati da Peter Hammill, che nei primi anni ’70 ebbero un largo successo in Italia insieme ai Genesis e ai Gentle Griant. Ebbene, dopo il concerto d’addio del gennaio ‘78, come componente dei «Van der Graaf Generator», Peter Hammill ha continuato la sua attività solistica di cantore sempre alla ricerca di soluzioni della sua sete di sapere e dei perchè della vita. Peter Hammill ha da poco pubblicato il suo dodicesimo album da solista dal titolo «Patience», che è molto bello e soprattutto molto «vero». In questo mese di settembre Hammill sta nuovamente affrontando i palcoscenici italiani (Lugo, Modena, Peschiera del Garda, Mestre). Noi l’abbiamo ascoltato e intervistato a Lugo di Romagna (Ravenna) il 7 settembre scorso, in occasione del suo spettacolo.

Peter fa il suo ingresso con il fido amico Guy Evans (batteria – ex Van der Graaf) e con John Ellis (chitarra) che ha suonato anche con Peter Gabriel nel tour italiano dell’80. Peter, sorriso simpatico, si siede al piano elettrico, e comincia subito a creare quelle atmosfere a lui tanto care e a noi tanto note. Le sue composizioni sono intrise di rabbia, solitudine, gioia e tristezza. E’ un piacere essere qui ad ascoltare questo trentasettenne che sembra un ragazzino. La sua voce, da sola un universo musicale articolato e composito in cui è possibile trovare traccia dell’ispirazione di tutti i suoi lavori, è perfetta, capace d’essere modulata in ogni modo. La sua voce è vera, è il suo primo strumento, ti colpisce, è una delle più belle voci del rock in senso assoluto. Hammill esegue brani del periodo «Van der Graaf», «The Sphinx in the face» tra le altre, e ancora «In my room», «The Jarkon King», «Last frame», «The future now», e altre ancora ripescate da tutti i suoi precedenti album.

Il concerto si conclude con un bis molto sofferto e Peter Hammill, applauditissimo dai presenti, salutando in italiano, si allontana. Lo incontriamo subito dopo il concerto, ci invita a parlare  in italiano, parla la nostra lingua e la capisce molto bene. Peter, occhi blu-verdi, magro, sorriso sulle labbra incomincia dicendomi che «è sempre contento di suonare in Italia». Ed è così, tournèe dopo tournèe, che ha imparato la nostra lingua.

Nell’album Pawn Heart dei V. D. G. G. — gli chiediamo — di molti anni fa dicevi «Who am I ?» (Chi sono io?). Hai mai trovato una risposta? «Non c’è risposta a questa domanda. Se sei triste o felice non lo saprai mai».

Sei felice del tuo lavoro? «Abbastanza. Ho sempre lavorato. Mì piace molto lavorare e fin quando avrò forza farò sempre questo. Ma nella mia vita non c’è solo la musica, c’è anche la mia famiglia».

Hai amici nel mondo della musica? «No — risponde secco — Ognuno pensa sempre e soltanto a raggiungere il successo e a far emergere il proprio Io. E’ proprio un mondo impossibile».

Di che cosa parla il tuo album “Over” del 1977 ? «E’ per me un lavoro molto caro – risponde con un tono un po’ imbarazzato Peter – perché racconto la storia di un vero amore che sta finendo. Io parlo sempre di cose vere”

 Marcello Nitti © Geophonìe

Synne Sanden. Come un incanto fra sussurri e foglie

Photo : Linnea Syversen

30.01.2020
Live in Taranto, Italy.
Caffè Letterario “Cibo per la mente”.

Come un incanto fra sussurri e foglie. Forse il segreto è nella natura delle cose semplici. Se si accede alle sue profondità non sarà facile allontanarsi: è questo  ciò che accade quando ci si abbandona all’ascolto del nuovo lavoro di Synne Sanden.

L’artista norvegese raccoglie purezza e linfa vitale dalla natura per darle forme musicali sublimi e nello stesso momento è capace di infondere tenerezza e sollievo.

Photo Marcello Nitti © Geophonìe

Le canzoni dell’album “Imitation”, pubblicato nel 2019, sono un elisir di luminose ombre e di risplendenti sussurri di nostalgia. L’ascolto del suo intero lavoro conduce lungo un percorso interiore, è come seguire un destino di felice poesia dentro noi stessi, come riflettersi nel nostro sogno ideale da sempre conosciuto.

“Imitation”, CD/ LP, Sept. 2019 (Nordic Records Int.)

Synne Sanden, aiutata da Julie Falkevik all’organo, da Axel Skalstad alla batteria, da Lars Fremmerlid al basso e da Henrik Schmidt alla chitarra tessono con note e foglie che rincorrono farfalle un universo di dolce abbandono al contatto con la linfa delle stelle.

Il canto di Synne Sanden è il vertice della sua arte. Un incontro fra Lisa Gerrard e un coro di angeli. Non è facile scrivere melodie per voce che inseguono momenti di interiore esaltazione. Dal vivo la scena cambia e Synne, con l’aiuto di Julie Falkevik alle tastiere e del chitarrista Henrik Schmidt, dialoga con il pubblico e racconta con la sua voce poetica i sogni raccolti nella natura che la circonda.

Photo : Linnea Syversen

Il concerto di Taranto (30 gennaio 2020), al Caffè Letterario “Cibo per la mente”, vede Synne Sanden esprimersi con gioiosa calma e con giochi vocali intensi ed emozionanti: atmosfere che avrebbero sicuramente fatto breccia nell’intimo di Ivo Watts-Russell, echi a la “This Mortal Coil”, senza indulgere in somiglianze, ma piuttosto in uno spirituale cammino verso il punto luce più in alto. “Imitation” di Synne Sanden è sicuramente un capolavoro assoluto. La verità si afferma sempre.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

 

 

Adrian Borland Tribute, Chronicles of a Perfect Day (26.04.2019, London)

At one time the “travel diaries” were fashionable, those that served to record every precious moment of an experience that was known to be extraordinary and unrepeatable. Travelling was not a habitual fact, it rarely happened, you did not have so many resources and opportunities. Going to a concert in the 60s, 70s, 80s, was an epic event, a heroic feat, an expedition towards a victory. The photographs, the recordings, the video tapes, were priceless trophies. Of the trips I made as a boy, to winning a front row seat under the stage of my most beloved artists, I remember every detail: the delay of a train; a lost coincidence; the pub where they happened to have stopped to eat; the music radiated by the large amplifiers before the start of the concert; the waiting. These events were more unique than rare, then talked about for months and years, as in a perpetual commemoration.

With the increasing spread of events, with the succession of world tours of thousands of artists, then with the addiction, the people of music have become more balanced, perhaps colder, detached. The ability to see and review that event everywhere, the total availability of images and finds, the ease of listening, has made many of our ancient impulses devoid of any tension and intensity. We have grown up, we are much more stocked than we used to be, there is no longer any need to spend a sleepless night, worried of not being able to sneak a camera into the concert venue, nor does it happen more than having to remain suspended, in waiting for the shopkeeper to develop and print our (unique) 24 or 36-photograph film, with the worry that those shots are not as we hope.

Lazy and indifferent, full of everything, we go to see shows that no longer excite us, that we look with different eyes, aware that that event is certainly not unique and unrepeatable, indeed, it is one of many. But when you know that an event is really unique, and that what’s going to happen won’t happen again, all of a sudden you feel that the emotion comes back, it’s going to flare up, it’s going to assault you. You come back guys, the emotional makes us vibrate, it shakes us.

It is worth writing, then, as it used to be. Paper and pen, camera ready as a loaded weapon of war. Something beautiful is about to happen and I’m here, so many times in the past I hadn’t been able to be there, but this time I’m here. I left my wife, sons, job, I forgot the usual economic worries, I even sent to the devil the health problems that sometimes conditioned me and caused me not to be there, not to do, not to go, to give up.

Adrian Janes, Bob Lawrence, The Outsiders (© Photo J.P. Van Mierlo)

This time I will not give up: I will go to see The SOUND, with Mike Dudley on drums, with Adrian Janes and Bob Lawrence, the original OUTSIDERS that I have never seen and known. I will meet all their friends, musicians, professionals and amateurs, their wives, girlfriends, and this time the life will be all to me, for everything else there is time, the rest of the world stays where it is, I will find it exactly as I left it, and I will resume living the my routine. But not today. Today I go to take, full hands, the world-all-mine, the one that belongs only to me, my secret world that accompanies me in the daily routine between banks, offices, supermarkets, taxes to pay, love to chase and cultivate, pains and projects to realize. That inner world that supports me, in the daily life of the real (but which is also “real”, it’s not fantasy, it’s true passion), well, that inner world, now I go to touch it with my hand. I want to spend two -three hours looking, with enchanted eyes, at the musicians who will play for me the music that I loved the most and that every day, invariably, peeps into the silence of my thoughts, warms me up.

The Meeting of April 26, 2019, a tribute in honor of Adrian Borland, falls on the 20th anniversary of his death. Audrey Eade and her husband Robert Eade, friends of Adrian and the band since the early 1980s, organized it in London. Also in 2018 there was a meeting-tribute, also at the Cavern, but from Italy no one was able to take part. This time, however, we move well in advance. We make air tickets three months in advance, we book a hotel near the Cavern, we try to make ends meet all our commitments. And on the evening of April 24th, in Bologna, we meet: Marina Derosas from Turin, Patrizia Prisciandaro from Florence, I from Modena, everybody happy and full of emotion, we go to dinner together, we take taxi, drink wine and wait for the departure by plane the next day to the first hour. Manuela Nessi, from Turin, will then join us, who leaves for London from another airport.

On 25 April, at the first hour, we leave Marconi Airport and after two serene hours of travel, in a beautiful clear and clear light, we land at Heathrow, the most convenient stopover in south London to reach our destinations, Wimbledon and Raynes Park, in the same area. I know the places well: Wimbledon is the neighborhood where Adrian lived with his family. After the death of Robert Borland, Adrian’s father, the house was renovated and put up for sale by the scientific research institute which acquired the property. The place for us represents something, while Raynes Park, a suburb located in the same area, a few bus stops from Wimbledon is a suburb we do not know and that we only know to be the area where are located the Cavern and our hotel. We’ll get a little bit into the gigantic Heathrow Airport by taking measurements of our travels, including subways, trains, buses, Oyster Cards and various maps, then we get robbed by an inconvenient money changer, we wander between shops and cafes, finally we head to Wimbledon.

At Wimbledon tube station we could directly change track and get on a train that would take us in a few minutes to Raynes Park, the ladies would leave their luggage in the hotel and could then prepare for the first tour around London, but I insist in advising a stop, “let’s look outside the station, in the forecourt, come on, come on!”, “We’re at Wimbledon, let’s take a look, even just to breathe the city air, the colors, until now we’ve been closed in subways, airport tunnels and trains”, “come on, let’s stop for a moment, let’s take a coffee in the center of Wimbledon” …. Patrizia and Marina give in to my insistence and agree to sacrifice another bit by dragging their luggage with them, so we leave the metro station, we look around, it’s a beautiful day.

Marina Derosas, Mike Dudley, Patrizia Prisciandaro

25.04.2019 (©Photo G.Basile)

We are with our eyes to the sky impaled, looking at the signs of shops, roofs, cars and windows, when suddenly I hear someone behind me who guides my life and whispers in English something incomprehensible in my ear …. I jump in the air scared but as soon as I turn i see that my bomber is Mike Dudley, he’s there just then, the moment we decided to put his nose out of the station, he made a joke of me, we laugh and greet each other between kisses and hugs while we see we see a very tall and burly boy arriving with a quick step, a stride, and the finger pointing at me approaches and tells me: “You are Giuseppe Basile!”. It’s Martijn Prins, he will play at the Cavern in the various sets that the friends musicians are preparing. We talk and joke: waiting for Kevin Hewick, they have a car parked in a parking ban on the forecourt, “we wait for it because we have to go and try in a studio here in the area”, but Kevin tells them to be a little late, we hold back and we continue to converse for a while, so we separate, Mike and Martijn go to do their rehearsals, we head to Raynes Park to get to the hotel, not before a stop in a beautiful pub, classic, perfect English style, in the center of Wimbledon.

London is an incredible place for those who have lived feeding on English music culture. We wander around Leicester Square, Piccadilly Circus and Regent Street all day, we meet Manuela Nessi who has just arrived downtown, we go to another pub to dine together, but in the meantime the music runs through our minds, we are reminded of each what, from the bright signs, from the names of the squares (“Jeoffrey Goes To Leicester Square”, the song by Jethro Tull), “Man on the platform …” sings Marina (thinking of Sound’s “Red Paint”, of course) whenever she sees the signposts, Platform five, Platform six, in the metro stations.

Audrey Eade (© Photo Robert Eade)

The next day is the meeting. It starts at 7 pm, for us there is no time for presentations because as soon as we enter the pub we see that Audrey Eade is already on stage: along with her (lead vocals), there is the trusty Elliot Wheeler (guitar), Robert Eade on bass and Adrian Janes on drums. They perform a song composed by them with the line-up they have called Moon Under Water, the song is called “Lifetime” (https://www.youtube.com/watch?v-Ct0YTAo4h1g). Elliot tells me that this band was formed about a couple of years ago, “Audrey, Robert, Adrian Janes and I. We started playing around the time the first tribute meeting was organized in honor of Adrian, to his 60th birthday. I write music, Jan writes the lyrics, Audrey is the arranger. We’ve recorded several songs, but unofficially so far.”

Elliot Wheeler, Adrian Janes, Audrey Eade (© Photo Giuseppe Basile)

 

Adrian Janes, Audrey Eade, Bob Lawrence (© Photo Giuseppe Basile)

Robert Eade comes off stage and gives the bass to Bob Lawrence: I see for the first time in my life their faces, Adrian Janes (Jan) on drums and Bob on bass, or the Outsiders, the absolute initiators of Sound history. The history of music credits this band with the creation of the first self-produced album in the history of punk, it is a fact now acclaimed. Their setlist is all about the songs from their two albums: “Vital Hours”, “Break Free”, “Touch-Go”, “Freeway”, “Start Over”, “Calling On Youth”, the latter really resonates as an ode to youth, with the audience of old friends singing the punk chorus : we are still here, happy looks, smiles. It’s a good time. The set closes with an acoustic and intimate version of “Winning” sung by Audrey visibly excited. She sang with Adrian in her first outstanding solo work, “Alexandria”, in 1989, and remained close to her. This is a special evening for her. And for this line-up, Moon Under Water, it’s another piece of their journey: “We’ll be back in the recording studio in a few months” says Elliot, talking about the project, “Jan and Bob want to continue.”

Patrick Rowles, singing “Cinematic” (© Photo Giuseppe Basile)

It’s time for close friend Patrick Rowles, who now takes the stage accompanied by Rob Ball. Together they perform an acoustic set, only two guitars and vocals, a few tracks but representing something for Patrick: “The Way You Played Guitar”, “Cinematic”, “Last Train Out Of Shatterville” and finally “When A Star Dies” (the ghost-track contained at the end of the last Adrian’s record, “Harmony & Destruction”, made thanks to Patrick’s decisive contribution, his tenacity).

Patrizia Prisciandaro (© Photo Martin Prijns)

In the break between Patrick and Rob’s set and the long-awaited next set, there is also time for a debut: our Patrizia Prisciandaro takes the stage, she composed a song for Adrian, lyrics and music, it’s just a tribute, performed surprise (not even us, her fellow travelers, were aware of this intention) full of values and thoughts and that for her represents the long-awaited beginning

Simon Breed (© Photo Giuseppe Basile)

Then we get to the set with Simon Breed (vocals and guitar), Mike Dudley on drums and Martijn Prins on bass. Simon immediately performs “Winter”, alone, and then gives us a beautiful version of “I Can’t Escape Myself”, with a very intense interpretation and punk sounds. It continues with “Total Recall”, with the next “Silent Air” sung together with the audience without any instruments, only voices united (and moved), and finally with “New Dark Age” that closes the set in a beautiful musical tension. Mike’s drums, needless to point out, is a hammer, his rhythm is foresighted, relentless, takes your breath away and you see it even more in the last set, when it’s up to Kevin Hewick to lead the last trio (Hewick / Dudley / Prins) in the final ride of songs.

It’s the largest setlist, and perhaps the most vibrant. It begins with “Plenty”, a 1983 epic song released on an EP that is now very rare, unobtainable, under the name “Kevin Hewick And The Sound”. This EP, entitled “The Cover Keeps Reality Unreal”, difficult to find in Italy even at the time of its release, attracted the attention of many Italian fans of the band, intrigued by the collaboration with an external and autonomous musician compared to the Adrian’s band.

Giampaolo Salsi e suo figlio (© Photo Martijn Prins)

I was an avid reader of fanzines and new wave magazines” – writes on April 28, 2019 on Facebook Giampaolo Salsi, another great Italian fan who came from Milan to the Cavern with his fourteen-year-old son – “I still remember the sense of disbelief, frustration and anger when I read a derogatory review of “Heads and Hearts”, claiming that Sound were just drowning in their own vortex (sarcastic …), trapped in a temporal distortion along with characters like the Comsat Angels and other dinosaurs of the first New wave scene … but one day I focused on a review of an EP by “a minimalist composer [!]”, who had collaborated with Sound to publish his latest work. The EP was called “This Cover Keeps Reality Unreal”, and I started looking for it in all the record stores. I managed to get a copy from HMV, during one of my stays in London, and ran home to put it on the turntable. The first track, “Plenty”, was an epiphany (actually minimalist, but, hey, often the least is more!) and it’s still one of my absolute favorites. Last Friday, at the Cavern in Raynes Park, I had the privilege of listening to it live, played by the same “minimalist composer” accompanied by Mike Dudley and Martijn Prins. Thank you Kevin Hewick, this was wonderful and will stay with me forever.”

Kevin Hewick, Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

“Plenty” is an elegant opening, of great style, worthy of this evening and representative of an important story, as if to say proudly: “these were, these are”, Kevin performs “Plenty” very well, and the concert goes up. It goes on with songs you don’t expect, “Desire”, “Where The Love Is”, even “Whirlpool”, difficult song, as well as “Glass And Smoke”, immortal music. The fans are by now captivated by these famous sounds that are part of their essence, it’s time to let the collective joy, the pure emotion explode. Kevin, Mike and Martijn accelerate, the rhythm goes up, “Skeletons” keeps us from sitting, it’s an intense, hot version. Then we get to “Party Of The Mind” and immediately after “Sense Of Purpose”.

The Italians are moved, we are at the top, we are at the summit. Mike sounds great, the drum power is exciting, never a moment of failure, never a hesitation: they are tracks that spread an epic pathos in the venue. When you listen to them you realize that there is something definitive about this music and that at these levels you don’t get there anymore. What has been circulating for years in radio, television, everywhere, is a concentration of soulless superficiality, without genuine intensity. Kevin Hewick slows down, now offering “I Give You Pain”, a nocturnal track, as dark as Adrian’s troubled soul in that difficult 1987, the year of “Thunder Up” and the dissolution of the band. Concentration is needed to express this unique sore intensity. But we also need to close in beauty, triumphantly, winningly: we are here to share the power of our heart, and therefore “Heartland” can only be the closing of a perfect night, with Mike’s drums in full swing, irresistible: “Keep it simple and hit “It’s strong,” he told me a long time ago, at another of our previous meetings.

Glorious evening.

Giuseppe Basile©Geophonìe.
Riproduzione riservata.

Audrey’s Setlist (Watch The Photogallery)

LIFETIME (with Robert Eade on bass)
VITAL HOURS
BREAK FREE
TOUCH+GO
FREEWAY
START OVER
CALLING ON YOUTH
WINNING

Patrick’s Setlist (Watch The Photogallery)

THE WAY YOU PLAYED GUITAR
CINEMATIC
LAST TRAIN OUT OF SHATTERVILLE
WHEN A STAR DIES

Simon’s Setlist (Watch The Photogallery)

WINTER
I CAN’T ESCAPE MYSELF
TOTAL RECALL
SILENT AIR
NEW DARK AGE

Kevin’s Setlist (Watch The Photogallery)

PLENTY
DESIRE
WHERE THE LOVE IS
WHIRLPOOL
GLASS AND SMOKE
SKELETONS
PARTY OF THE MY MIND
SENSE OF PURPOSE
I GIVE YOU PAIN
HEARTLAND

ADRIAN BORLAND COMMUNITY

adrian borland photo portraitIl 18 novembre 2016 il sito www.brittleheaven.com pubblicò il suo ultimo post con cui segnalava al suo grande pubblico di utenti l’importante evento della prima proiezione del film “Walking in the opposite Direction” in programma ad Amsterdam il giorno seguente (19.11.2016, Melkweg Theatre, IDFA).

(English version of this article here)

Quella data del 19 novembre ha forse segnato la fine di una lunga storia e l’inizio di un nuovo capitolo per la comunità legata ad Adrian Borland & The Sound: da quel momento, infatti, il sito realizzato in Olanda nel 1998 e sempre curato dall’amico Rients Bootsma ha fatto registrare una battuta d’arresto,  ci auguriamo non  definitiva. Sappiamo bene che l’importanza di questo sito web per tutti noi è stata fondamentale.

E’ stato grazie all’incredibile mole di documentazione raccolta, conservata ed esposta con tanta passione, meticolosità, precisione, che la memoria dei Sound è rimasta viva. Per anni il sito è stato l’unico affidabile centro di informazioni sulla band e sui suoi componenti. Ma tutto cambia, e il mondo va veloce. Con la risonanza ottenuta dal film e con la contemporanea pubblicazione del libro “Adrian Borland & The Sound. Meaning of a Distant Victory”, presentato ad Amsterdam quella stessa sera, dopo la proiezione, Adrian ha iniziato a rivivere, a ritrovare l’attenzione di vecchi estimatori che ne avevano perso le tracce e a conquistarne di nuovi.

Il sito di Rients Bootsma ha fatto registrare circa sei milioni di visite dal momento della sua apertura nel 1998, e si è fermato all’alba di una nuova era, quella di facebook e dei social networks che con una crescita impetuosa hanno visto formarsi con incredibile dinamismo tante comunità radunatesi attorno ai Sound e al ricordo del grande Adrian.

Vi sono oggi molte pagine e gruppi che su facebook, quotidianamente, vedono convivere i fans consentendo loro di scambiarsi in tempo reale, in modo interattivo, tante informazioni. La condivisione è totale, la musica dei Sound viene ormai scambiata senza limiti tra gli appassionati e rimbalza incontrollata su varie piattaforme ove trova diffusione. Sono venute alla luce rarità, brani inediti, demos, tracce audio di concerti dimenticati o perduti, video amatoriali e naturalmente, fotografie, cimeli, memorabilia, stampa d’epoca.

Tutto cambia, e frattanto tante altre cose sono accadute.

Il 7 aprile 2017 venne a mancare Robert Borland, persona a noi cara, che avemmo l’onore di affiancare nel suo sogno di realizzare un libro e un film-documentario sul suo amato figlio.

Il 6 dicembre 2017 al Cavern Pub di Londra in Raynes Park si tenne il primo importante meeting-tributo, organizzato da Audrey e Robert Eade in memoria di Adrian.

Le proiezioni del film di Jean-Paul Van Mierlo e Marc Waltman intanto si sono susseguite in mezza Europa, di pari passo con le presentazioni del libro di Giuseppe Basile e Marcello Nitti in territorio italiano.

E’ nata la prima grande cover band professionale dei The Sound, denominata In2TheSound, con Mike Dudley alla batteria, Carlo Van Putten al canto e gli strumentisti dei The Convent, che riporta la musica di Borland e soci  sui grandi palchi internazionali.  E con la band di nuovo in pista sta trovando nuovo impulso anche la volontà organizzativa di appassionati e addetti ai lavori per la realizzazione di eventi (come quello del 28 aprile 2018 ad  Osterholz-Scharmbeck, nei pressi di Brema in Germania, uno dei primi eventi-raduno con proiezione del film e successivo concerto).

Hanno visto finalmente la luce anche nuove ristampe, con inediti, su vinile e CD (Beatutiful Ammunition nel 2017, e Lovefield nel 2019), a cura di Jean-Paul Van Mierlo.

Il 26 aprile 2019 scorso, sempre al Cavern di Londra si è tenuto un nuovo splendido meeting-tributo a vent’anni esatti dalla scomparsa di Adrian. Si sono esibiti sul palco importanti musicisti e grandi amici vicini all’Artista, in una splendida  alternanza di sonorità e di emozioni: si sono incontrate persone care che hanno dato vita ad una serata felice e commovente, in un’atmosfera di grande intimità.

E’ una nuova fase della storia quella che ha preso l’avvio, un’altra storia: anche questa da raccontare, da documentare, da conservare con cura. Come ha fatto l’amico Rients Bootsma sino al 2016.

Noi pensiamo che i social networks e le piattaforme musicali siano uno strumento di straordinaria potenza, ma sono deboli per un aspetto: non consentono un’archiviazione ordinata, sicura, stabile, affidabile. Le notizie e le documentazioni col tempo si perdono, scompaiono. E noi di Geophonìe, che siamo dei documentaristi, non amiamo che le nostre bellezze e i nostri valori si disperdano nel magma indistinto e caotico di un web che fagocita tutto e col tempo annulla ogni cosa, per far posto a tanta zavorra, spesso priva di valore.

Abbiamo perciò deciso di continuare il lavoro di Rients Bootsma e del suo importante sito ripartendo da dove Rients si è fermato e documentando il presente, per condividerlo con questa comunità di musicisti, amici e appassionati che dal Cavern di Londra sino a Facebook si ritrova ancora, fisicamente o virtualmente, a condividere la grande arte musicale di questi nostri eroi. Si tratta di una grande passione che ormai è dentro di noi, ci rappresenta, ci accompagna. Si tratta di un mondo segreto (neppure tanto segreto), tutto nostro, che coltiviamo sempre e comunque, nonostante i mille impegni, doveri e dolori delle nostre vite personali e interiori, e che quindi è giusto continuare a sostenere. Nessuno può fuggire da se stesso.

Con l’auspicio di riuscire a condurre questa nuova avventura con la stessa pazienza e tenacia dell’amico Rients Bootsma, ci auguriamo possa giungerci da parte del maggior numero possibile di amici e appassionati il sostegno necessario per proseguire nel lavoro svolto da Rients in tutti questi anni, e per contribuire ad una facile e corretta condivisione di notizie, informazioni e materiali  che avremo sempre l’onore di pubblicare, archiviare, condividere e tenere gratuitamente a disposizione della nostra Community.

Giuseppe Basile © Geophonìe

(per qualsiasi informazione e inserzione scrivere a geophonie@gmail.com)

Adrian Borland Community (eng)

adrian borland photo portraitOn November 18th, 2016, the www.brittleheaven.com website published its latest post, which signaled to its large audience of users the important event of the first screening of the film “Walking in the opposite Direction” scheduled in Amsterdam the following day (19.11.2016, Melkweg Theatre, IDFA).

The date of 19 November has perhaps marked the end of a long history and the beginning of a new chapter for the community linked to Adrian Borland & The Sound: since that moment, in fact, the site created in Holland in 1998 and always taken care of by friend Rients Bootsma showed a setback, we hope not final. We know that the importance of this website for all of us has been fundamental.

Thanks to the incredible amount of documentation collected, preserved and displayed with so much passion, meticulousness and precision, the story of the Sound has remained alive. For years the website has been the only reliable information center on the band and its members.

But everything changes, and the world goes fast. With the resonance obtained from the film and with the contemporary publication of the book “Adrian Borland & The Sound. Meaning of a Distant Victory ”, introduced in Amsterdam that same evening, after the screening, Adrian began to relive, to rediscover the attention of old admirers who had lost their tracks and to conquer new ones.

The Rients Bootsma’s website has recorded about six million visits since its opening in 1998, and stopped at the dawn of a new era, when facebook and social networks have seen an incredible dynamism and a growth of so many communities gathered around the Sounds and the memory of the great Adrian.

Today there are many pages and groups that on Facebook, every day, see the fans coexist allowing them to exchange in real time, in an interactive way, a lot of informations. The sharing is total, the music of the Sound is now exchanged without limits among the fans and bounces uncontrollably on various platforms where it is diffused. Rarities, unpublished songs, demos, audio tracks of forgotten or lost concerts, amateur videos and of course, photographs, memorabilia, vintage press came to light.

Everything changes, and in the meantime many other things have happened.
On April 7th, 2017, our dear Robert Borland was missing, a great missing for us after had had the honor of supporting in his dream of making a book and a documentary film about his beloved son.

On December 6, 2017 at the Cavern Pub in London in Raynes Park the first important meeting-tribute was held, organized by Audrey and Robert Eade in memory of Adrian.

The film’s screenings by Jean-Paul Van Mierlo and Marc Waltman increased everywhere in Europe, hand in hand with the book presentations by Giuseppe Basile and Marcello Nitti in Italian land.

The first great professional cover band of The Sound was born, called In2TheSound, with Mike Dudley on drums, Carlo Van Putten singing and instrumentalists of The Convent, which bring back the music of Borland & Co. on the big international stages. And while the band is back on the road, a new  organizational will of enthusiasts and insiders for the realization of events is increasing (such as that of 28 April 2018 in Osterholz-Scharmbeck, near Bremen in Germany, one of the first events – meeting with film screening and subsequent concert).

We have had, at last, also new reprints, with unpublished works, on vinyl and CD (‘Beatutiful Ammunition’  in 2017, and ‘Lovefield’ in 2019), cured by Jean-Paul Van Mierlo’s production.

On 26 April 2019 last, a new splendid meeting-tribute was held at Cavern in London exactly twenty years after Adrian’s death. Important musicians and great friends close to the Artist have performed on stage, in a splendid alternation of sounds and emotions: everybody have given birth to a happy and moving evening, in a guest of great intimacy. Lovely people. A beautiful night, unforgettable for us.

It’s a new phase in history that has begun, another story: also this to tell, to document, to preserve with care, as the friend Rients Bootsma did, until 2016.
We think that social networks and platforms are an instruments of extraordinary power, but it are weak in one respect: it do not accept orderly, secure, stable, reliable archiving. News and documentation about time are lost, it disappear. And we of Geophonìe, who are documentary makers, do not like our beauties and our values to be dispersed in the indistinct and chaotic magma of a web that absorbs everything and over time nullifies everything, giving regards and place so much ballast, often without worth.

We have therefore decided to continue the work of Rients Bootsma and its important website, re-starting from where Rients stopped, and documenting the present, to share it with this community of musicians, friends and enthusiasts who from the Cavern Club of London to Facebook still finds himself, physically or virtually, to share the great musical art of these heroes of ours.

It’s a great passion that is now within us, represents us, accompanies us. It’s a secret world (not even very secret), all of our own, which we always cultivate, despite the many commitments, duties and pains of our personal and inner lives, and which therefore it’s right to continue to support. No one can escapes from himself.

With the hope of being able to lead this new adventure with the same patience and tenacity of the friend Rients Bootsma, we hope that the support needed to continue the work done by Rients in all these years will come from the largest possible number of friends and enthusiasts. We’ll try to share all your useful contributions, news, informations and materials that we will always have the honor to publish, store and keep freely available to our Community, with your help.

“Community Call”.  A Hug.

For any info and publications, please write geophonie@gmail.com
Giuseppe Basile & Marcello Nitti

Community Call: Friends & Music (Adrian Borland Tribute 26.04.2019)

The Cavern Pub, Raynes Park, Wimbledon London

 

Il Cavern Pub è pieno di gente, noi italiani siamo forse gli ultimi arrivati in questa comunità umana che esiste da tempo e che ci accoglie con simpatia e una certa dose di curiosità.

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Il gruppo storico degli amici inglesi e olandesi ha mantenuto i contatti, ci sono volti noti che affollano il pub, alcuni li conosciamo anche noi da qualche tempo, di altri abbiamo solo sentito parlare.

Julie Burrowes (Photo © Jean-Paul Van Mierlo)

Io saluto subito James Ingham e la sua compagna, e poi Patrick Rowles, con loro sono in buona confidenza, ci siamo conosciuti nel 2011 in occasione della mia prima intervista in casa di Robert Borland, per realizzare il libro. Sopraggiunge Jean-Paul Van Mierlo con sua moglie, ci siamo conosciuti nel 2016 ad Amsterdam durante la bellissima serata di presentazione del film al Festival Internazionale dei documentari (IDFA), e poco dopo incontro Julie Burrowes, anche lei presente ad Amsterdam, gentile, sorridente, mi riconosce e mi abbraccia come fossi una sua vecchia conoscenza.

Audrey Eade fa gli onori di casa, ci presenta altre persone, amici, mogli, mariti, appassionati. Il locale è rumoroso e le nostre difficoltà con la comprensione dell’inglese ci penalizzano un po’.  Sono  emozionato, mi confondo, ci sono persone che non riesco subito a inquadrare, non realizzo ad esempio che Robert, con la maglia rossa, salito anche sul palco nel corso del primo set con Elliot, Jan e Bob, è il marito di Audrey, lo scopro il giorno dopo il concerto, quando mi ritrovo con una quindicina di loro e con lui al Cimitero Merton & Sutton, nell’area di Morden, per portare il nostro saluto ad Adrian.

Peter Trower (Photo © Martijn Prins)

Nel pub ci sono diversi signori che hanno piacere di conoscere noi italiani, tutti ci raccontano qualcosa,  ci dicono quale parte hanno avuto, da giovani, in questa storia collettiva. Sul palco sale un signore anziano ed elegante, è lui che presenta le band e apre ufficialmente il meeting.  E’ uno dei più antichi amici di Adrian, forse proprio un suo compagno di scuola, ha all’incirca la sua stessa età, si chiama Peter Trower, il giorno dopo è con noi al cimitero.

David Hawkins, Adrian, Peter Trower (Creta 1992)

Tornato in Italia, Facebook mi aiuta a ricostruire il puzzle fatto di volti, informazioni, storie. Dal 2011 al 2016 ho raccolto molto materiale per scrivere il libro, e naturalmente anche molte immagini. Ce n’è una che risale all’estate 1992, Adrian è in vacanza a Creta con due suoi amici: scopro solo ora che si tratta di Peter Trower e David Hawkins.

David Hawkins (Photo © Martijn Prins)

Anche David è presente al Cavern ed è con noi il giorno dopo. Parliamo poco, ma facciamo poi un bel tratto di strada insieme a piedi, verso la fermata dell’autobus, quanto basta per presentarci, per dire chi siamo, dove viviamo, per accennare ai nostri lavori, alla nostra normale vita italiana che quotidianamente conduciamo, con  la musica di Adrian che  lasciamo scorrere  in mente come permanente colonna sonora.

Anche Elliot Wheeler lo incontriamo fisicamente per la prima volta, ma lo conosciamo meglio grazie ai contatti più frequenti su Facebook già intercorsi in questi anni. Elliot ha una visibilità particolare, ha suonato con molti gruppi ed è socialmente molto attivo.

I.V.Webb and Audrey Eade (Photo © Martijn Prins)

Accanto a Audrey nel pub c’è una bella ragazza,  tipicamente inglese, biondona e sorridente,  parla con me e con le signore italiane, ma anche in questo caso non comprendo totalmente ciò che lei vuol dirmi.  Marina poi mi dirà: “guarda che quella è I.V. Webb, ha cantato con Adrian nel disco Cinematic, ha collaborato anche con i Dead Can Dance, ha una voce stupenda”.
Che peccato,  fossi stato più lucido e concentrato le avrei fatto mille domande, le avrei chiesto tante cose.

Mike Dudley and Rick Hussey (Photo © Martijn Prins)

Ma l’incontro più bello è con un signore che mi avvicina e mi ringrazia per aver realizzato il libro, qualcuno tra gli amici  me lo presenta, “lui è Rick Hussey”, e quando sento il suo nome capisco subito, era il tecnico delle luci della band, nel mio libro c’è una fotografia che lo ritrae con Max Mayers,  me la inviò Mike Dudley. Allora mi precipito a prendere una copia del libro, ne ho sistemate alcune nelle vicinanze del palco, ci tengo a regalargliela, insisto, ma mi dice di non preoccuparmi, e di voler essere lui a consegnare a noi, a me, a Jean-Paul Van Mierlo dei vecchi materiali che riguardano la band, li ha portati con sé in albergo.

Rick Hussey and Giuseppe Basile ( Photo © Alan Bell)

Ci sediamo fuori a chiacchierare,  compare un fotografo, si chiama Alan Bell. “Lui è il fotografo che fece queste celebri foto ad Adrian, guarda!” mi dice Jean-Paul. Sono le foto degli ultimi anni, quelle del periodo di pubblicazione di 5:AM. Alan Bell ci chiede di poterci fotografare, Rick Hussey ed io, Jean-Paul ed io. Parliamo e scherziamo tutti insieme, amabilmente, c’è un clima bellissimo, una felicità che ci unisce.

“Max era una grande persona”, dice Rick, “un carissimo amico per me”. La conversazione è piacevole con tutti, ma il concerto è lì sul palco a calamitare le noste attenzioni, difficile conciliare l’emozione del live con le pubbliche relazioni.

Dopo la performance di Kevin Hewick lo avvicino e mi presento, mi appare turbato, forse c’è qualcosa del suo show che non lo ha soddisfatto, ma le sue sono sensazioni personali che noi non possiamo cogliere, per noi è stato adrenalina pura. Ci abbracciamo come vecchi amici, lui mi regala due suoi cd che ora gelosamente conservo.

Il mattino seguente anche Kevin è con noi al cimitero, ciascuno porge ad Adrian un fiore, qualcuno deposita il plettro della chitarra sulla lapide, qualcun altro, come me, rimane assorto nei propri pensieri. Sono trascorsi vent’anni dalla scomparsa di questo caro comune amico.  I volti di ciascuno di noi mostrano ora i segni di una vita che comunque sia andata, è stata  un’avventura, un percorso inevitabile, con tutto il suo bagaglio di  dolori, sconfitte, fallimenti che ci abbattono, ma che poi, quando l’amore, l’amicizia e la passione pervadono i nostri sguardi, anche come brevi lampi,  restituisce quell’emozione che è il sale di tutto, e ci  riporta ancora verso le incrollabili cose che amiamo.

Giuseppe Basile © Geophonìe
11/06/2019 – Diritti Riservati

   

 

 

 

   

   

Adrian Borland Tribute, Cronaca di un giorno perfetto (26.04.2019, London)

Un tempo andavano di moda i “diari di viaggio”, quelli che servivano ad annotare ogni prezioso momento di un’esperienza che si sapeva essere straordinaria e irripetibile.

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Viaggiare non era un fatto abituale, accadeva raramente, non si disponeva di tante risorse e opportunità. Andare a un concerto negli anni 60, 70, 80, era un evento epico, un’impresa eroica, una spedizione alla conquista di una vittoria. Le fotografie, le registrazioni, le videoriprese, erano trofei inestimabili. Dei viaggi che ho fatto da ragazzo, alla conquista di un posto in prima fila sotto il palco dei miei artisti più amati, ricordo ogni dettaglio: il ritardo di un treno; una coincidenza perduta; il pub dove capitava di essersi fermati a mangiare; le musiche irradiate dai grandi amplificatori prima dell’inizio del concerto; l’attesa. Erano eventi più unici che rari, se ne parlava poi per mesi e per anni, come in una perenne commemorazione.

Con la sempre maggiore diffusione di eventi, con il susseguirsi dei tour mondiali di migliaia di artisti,  quindi con l’assuefazione, il popolo della musica è divenuto più equilibrato, forse più freddo, distaccato. La possibilità di vedere e rivedere ovunque quel dato evento, la disponibilità totale di immagini e reperti, la facilità del riascolto, ha reso molte delle nostre antiche pulsioni prive di ogni tensione e intensità. Siamo cresciuti, siamo molto più riforniti di un tempo, non c’è più alcun bisogno di trascorrere una notte insonne per la preoccupazione di non riuscire a introdurre furtivamente una macchina fotografica nel luogo del concerto, né accade più di dover restare sospesi, in fremente attesa che il negoziante sviluppi e stampi il nostro (unico) rullino da 24 o 36 fotografie, con la preoccupazione che quegli scatti non siano come speriamo.

Pigri e indifferenti, sazi di tutto, andiamo a vedere spettacoli che non ci emozionano più, che guardiamo con occhi diversi, consapevoli che quell’evento non è certo unico e irripetibile, anzi, è uno dei tanti. Quando però sai che un evento è davvero unico, e che ciò che sta per accadere non si ripeterà, all’improvviso senti che l’emozione torna, divampa, ti assale. Si ritorna ragazzi, l’emotività ci fa vibrare, ci scuote. Vale la pena di scrivere, allora, come si faceva un tempo. Carta e penna, macchina fotografica pronta come un’arma da guerra carica. Sta per succedere qualcosa di splendido e io sono qui, tante volte in passato non ero riuscito ad esserci, ma stavolta sono qui. Ho lasciato moglie, figli, lavoro, ho dimenticato le solite preoccupazioni economiche, ho persino mandato al diavolo i problemi di salute che a volte mi hanno condizionato e indotto a non esserci, a non fare, a non andare, a rinunciare.

Adrian Janes, Bob Lawrence, The Outsiders (© Photo J.P. Van Mierlo)

Stavolta non rinuncio: andrò a vedere i SOUND, con Mike Dudley alla batteria, con Adrian Janes e Bob Lawrence, ovvero gli originari OUTSIDERS che io non ho mai visto e conosciuto. Incontrerò tutti i loro amici, i musicisti, professionisti e dilettanti, le loro mogli, le fidanzate, e questa volta la vita sarà tutta per me, per tutto il resto c’è tempo, il resto del mondo rimane dov’è, lo ritroverò esattamente come l’ho lasciato, e riprenderò a vivere la mia routine. Ma oggi no. Oggi vado a prendere a piene mani il mondo-tutto-mio, quello che appartiene solo a me, il mio mondo segreto che mi accompagna nella quotidiana routine tra banche, uffici, supermercati, tasse da pagare, amore da rincorrere e da coltivare, dolori e progetti da realizzare. Quel mondo interiore che mi affianca, nella quotidianità del reale, ma che è anch’esso “reale”, non è fantasia, è vera passione, ebbene quel mondo interiore, ora vado a toccarlo con mano. Voglio trascorrere due-tre ore guardando con occhi incantati i musicisti che suoneranno per me la musica che ho amato di più e che ogni giorno, immancabilmente, fa capolino nel silenzio dei miei pensieri, mi riscalda.

Il Meeting del 26 aprile 2019,  tributo in onore di Adrian Borland, cade nel giorno del ventesimo anniversario della sua scomparsa. Lo organizzano a Londra, in un pub chiamato “Cavern”,  Audrey Eade e suo marito Robert Eade, amici storici di Adrian e della band sin dai primi anni ’80. Anche nel 2018 vi è stato un meeting–tributo, sempre al Cavern, ma dall’Italia nessuno riuscì a prendervi parte. Questa volta invece ci muoviamo con grande anticipo. Facciamo i biglietti aerei con tre mesi di anticipo, prenotiamo un albergo nei pressi del Cavern, cerchiamo di far quadrare tutti i nostri impegni. E la sera del 24 aprile, a Bologna, ci incontriamo:  Marina Derosas da Torino, Patrizia Prisciandaro da Firenze, io da Modena, felici e pieni di emozione, andiamo a cena insieme, prendiamo taxi, beviamo vino e attendiamo la partenza in aereo all’indomani a prim’ora. Ci raggiungerà poi Manuela Nessi, da Torino, che parte alla volta di Londra da un altro aeroporto.

Il 25 aprile, a prim’ora, partiamo dall’Aeroporto Marconi e dopo due serene ore di viaggio, in una bella luce chiara e nitida, atterriamo a Heathrow, lo scalo più comodo a sud di Londra per raggiungere le nostre destinazioni, Wimbledon e Raynes Park, nella stessa area. Conosco bene i luoghi: Wimbledon è il quartiere in cui Adrian ha vissuto con la sua famiglia. Dopo il decesso di Robert Borland, padre di Adrian,  la casa è stata ristrutturata e messa in vendita dall’istituto di ricerca scientifica che per testamento ne ha acquisito la proprietà. Il luogo per noi rappresenta qualcosa, mentre Raynes Park, sobborgo situato nella stessa area, a poche fermate di autobus da Wimbledon è un sobborgo  che non conosciamo e che sappiamo solo essere l’area in cui sorge il Cavern e il nostro albergo. Ci tratteniamo un po’ nel gigantesco aeroporto di Heathrow prendendo le misure dei nostri spostamenti, tra metropolitane, treni, autobus, Oyster Card e varie mappe, ci facciamo poi derubare da un cambiavalute poco conveniente, girovaghiamo tra negozi e caffè,  infine ci dirigiamo a Wimbledon.

Alla stazione della metro di Wimbledon potremmo direttamente cambiare binario e salire su un treno che ci condurrebbe in pochi minuti a Raynes Park, le signore lascerebbero i bagagli in albergo e potrebbero poi prepararsi per il primo tour in giro per Londra, ma io insisto nel consigliare una sosta, “affacciamoci fuori dalla stazione, nel piazzale, dai, è bello!”, “Siamo a Wimbledon, diamo un’occhiata, anche solo per respirare l’aria della città, i colori, in fondo sinora siamo stati chiusi in metropolitane, gallerie aeroportuali e treni”, “dai, fermiamoci un attimo, prendiamo un caffè in centro a Wimbledon” …. Patrizia e Marina cedono alle mie insistenze e accettano di sacrificarsi un altro po’ trascinando con sè i rispettivi bagagli a mano, quindi usciamo dalla stazione della metro, ci guardiamo intorno, è una bella giornata.

Marina Derosas, Mike Dudley, Patrizia Prisciandaro

25.04.2019 (©Photo G.Basile)

Siamo con gli occhi al cielo lì impalati, a guardare le insegne dei negozi, i tetti, le auto e le vetrine, quando all’improvviso sento qualcuno alle mie spalle che mi cinge la vita e mi sussurra in inglese qualcosa di incomprensibile nell’orecchio …. salto in aria impaurito ma appena mi volto vedo che il mio attentatore è Mike Dudley, è lì proprio in quel momento, nell’istante in cui noi abbiamo deciso di mettere il naso fuori dalla stazione, mi ha fatto uno scherzo, ridiamo e ci salutiamo tra baci e abbracci mentre vediamo sopraggiungere un ragazzone altissimo e corpulento che con passo veloce,  una falcata, e il dito puntato verso di me si avvicina e mi dice: “you are Giuseppe Basile!”.  E’ Martijn Prins, suonerà al Cavern nei vari set che i musicisti amici stanno preparando. Parliamo e scherziamo, loro in attesa di Kevin Hewick hanno un’auto parcheggiata in divieto di sosta sul piazzale, “lo aspettiamo perché dobbiamo andare a provare in uno studio qui in zona”, ma Kevin comunica loro di essere un po’ in ritardo, ci tratteniamo e continuiamo a conversare per un po’, quindi ci separiamo, Mike e Martijn vanno a provare, noi ci dirigiamo verso Raynes Park per raggiungere l’albergo, non prima di una sosta in un bellissimo pub, classico, in perfetto stile inglese, nel centro di Wimbledon.

Londra è un luogo incredibile per chi ha vissuto alimentandosi di cultura musicale inglese. Girovaghiamo tutto il giorno tra Leicester Square, Piccadilly Circus e Regent Street, ci incontriamo con Manuela Nessi appena arrivata in centro, ci imbuchiamo in un altro pub per cenare insieme, ma nel frattempo la musica scorre nella mente, ci viene rievocata da ogni cosa, dalle insegne luminose, dai nomi delle piazze (“Jeoffrey Goes To Leicester Square”, il brano dei Jethro Tull), “Man on the platform …” canta Marina (pensando a “Red Paint” dei Sound, naturalmente) ogni volta che vede i cartelli segnaletici, Platform five, Platform six, nelle stazioni delle metro.

Audrey Eade (© Photo Robert Eade)

Il giorno successivo è quello del meeting. Si incomincia alle 19, per noi non c’è il tempo delle presentazioni perché appena entrati nel pub vediamo che Audrey Eade è già sul palco: insieme a lei (voce solista), c’è il fido Elliot Wheeler (chitarra), Robert Eade al basso e Adrian Janes alla batteria. Eseguono un brano composto da loro con la formazione che hanno denominato Moon Under Water, il brano si chiama “Lifetime” (https://www.youtube.com/watch?v=Ct0YTAo4h1g). Elliot mi dice che questa band si formò circa un paio di anni fa, “Audrey, Robert, Adrian Janes ed io. Iniziammo a suonare nel periodo in cui venne organizzato  il primo meeting-tributo in onore di Adrian, per il compimento dei suoi 60 anni. “Io scrivo la musica, Jan scrive i testi, Audrey è l’arrangiatrice. Abbiamo registrato diversi brani, ma in modo non ufficiale sinora”. 

Elliot Wheeler, Adrian Janes, Audrey Eade (© Photo Giuseppe Basile)

 

Adrian Janes, Audrey Eade, Bob Lawrence (© Photo Giuseppe Basile)

Robert Eade scende dal palco e cede il basso a Bob Lawrence: vedo per la prima volta nella mia vita i loro volti, Adrian Janes (Jan) alla batteria e Bob al bassso, ovvero gli Outsiders, gli iniziatori assoluti della storia dei Sound. La storia della musica accredita a questa band la realizzazione del primo album autoprodotto della storia del punk, è un fatto ormai acclarato. La loro setlist è tutta incentrata sui brani dei loro due dischi: “Vital Hours”, “Break Free”, “Touch+Go”, “Freeway”, “Start Over”, “Calling On Youth”, quest’ultima risuona davvero come un inno alla giovinezza, con il pubblico di vecchi amici che canta il ritornello punk: siamo ancora qui, sguardi felici, sorrisi. E’ un bel momento. Il set si chiude con una versione acustica e intima di “Winning” cantata da Audrey visibilmente emozionata. Cantò con Adrian nel suo primo eccelso lavoro solista, “Alexandria”, nel 1989, e le è sempre rimasta vicino. Per lei questa è una serata speciale. E per questa formazione, Moon Under Water, è un ulteriore tassello del loro cammino:  “Torneremo in studio di registrazione tra pochi mesi” dice Elliot, parlando del progetto, “Jan e Bob vogliono proseguire”.

Patrick Rowles, singing “Cinematic” (© Photo Giuseppe Basile)

E’ il momento del caro amico Patrick Rowles, che ora sale sul palco accompagnato da Rob Ball. Insieme eseguono un set acustico, solo due chitarre e voce, pochi brani ma che rappresentano qualcosa per Patrick: “The Way You Played Guitar”, “Cinematic”, “Last Train Out Of Shatterville” e infine “When A Star Dies” (la ghost-track contenuta al termine dell’ultimo disco di Adrian, “Harmony & Destruction”, realizzato grazie all’apporto determinante di Patrick, alla sua tenacia).

Patrizia Prisciandaro (© Photo Martin Prijns)

Nella pausa tra il set di Patrick e Rob e l’atteso set successivo, c’è anche il tempo per un esordio: sale sul palco la nostra Patrizia Prisciandaro, ha composto un brano per Adrian, testi e musica, è solo un omaggio, eseguito a sorpresa (neppure noi, suoi compagni di viaggio eravamo al corrente di questa sua intenzione) carico di valori e pensieri e che per lei rappresenta il tanto atteso inizio.

Simon Breed (© Photo Giuseppe Basile)

Si arriva quindi al set con Simon Breed (voce e chitarra), Mike Dudley alla batteria e Martijn Prins al basso. Simon esegue subito “Winter”, da solo, e ci regala poi una versione bellissima di “I Can’t Escape Myself”, con un’interpretazione e delle sonorità punk molto intense. Si prosegue con “Total Recall”, con la successiva “Silent Air” cantata insieme al pubblico senza alcun ausilio di strumenti, solo voci unite (e commosse), e infine con “New Dark Age” che chiude il set in una tensione musicale bellissima. La batteria di Mike, inutile sottolinearlo, è un martello, la sua ritmica è forsennata, implacabile, ti toglie il respiro e lo si vede ancor più nell’ultimo set, quando tocca a Kevin Hewick guidare l’ultimo trio (Hewick / Dudley / Prins) nella cavalcata finale di brani.

E’ la setlist più ampia, e forse anche la più vibrante. Si incomincia con “Plenty”, brano epico del 1983 pubblicato su un EP ormai rarissimo, introvabile, a nome “Kevin Hewick And The Sound”. Questo EP, intitolato “The Cover Keeps Reality Unreal”, difficile da reperire in Italia anche al tempo della sua uscita, suscitò l’attenzione di molti appassionati italiani della band, incuriositi dalla collaborazione con un musicista esterno e autonomo rispetto alla band di Adrian.

Giampaolo Salsi e suo figlio (© Photo Martijn Prins)

“Ero un avido lettore di fanzine e riviste new wave” – scrive il 28 aprile 2019 su Facebook Giampaolo Salsi, altro grande fan italiano giunto da Milano e presente al Cavern con suo figlio di quattordici anni –  “ricordo ancora il senso di incredulità, frustrazione e rabbia quando lessi una recensione dispregiativa di “Heads and Hearts”, sostenendo che i Sound stavano solo annegando nel loro stesso vortice (sarcastico …), intrappolati in una distorsione temporale insieme a personaggi come i Comsat Angels e altri dinosauri della prima scena new wave … ma un giorno mi soffermai sulla recensione di un EP di “un compositore minimalista [!]”, che aveva collaborato con i Sound per pubblicare il suo ultimo lavoro. L’EP si chiamava “This Cover Keeps Reality Unreal”, e  iniziai a cercarlo in tutti i negozi di dischi. Alla fine riuscii a procurarmene una copia da HMV, durante uno dei miei soggiorni a Londra, e corsi a casa per metterlo sul giradischi. La prima traccia, “Plenty”, era un’epifania (in effetti minimalista, ma, ehi, spesso il meno è di più!) ed è ancora una delle mie preferite in assoluto. Venerdì scorso, al Cavern in Raynes Park, ho avuto il privilegio di ascoltarla dal vivo, interpretata dallo stesso “compositore minimalista” accompagnato da Mike Dudley e Martijn Prins. Grazie Kevin Hewick, questo è stato meraviglioso e rimarrà con me per sempre”.

Kevin Hewick, Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Plenty” è un’apertura elegante, di gran stile, degna di questa serata e rappresentativa di una storia importante, come a dire orgogliosamente: “questi eravamo, questi siamo”, Kevin esegue “Plenty” benissimo, e il concerto sale. Si va avanti con brani che non ti aspetti, “Desire”, “Where The Love Is”, persino “Whirlpool”, brano difficile, come anche “Glass And Smoke”, musica immortale. Il pubblico è ormai rapito da queste sonorità celebri che fanno parte della propria essenza, è il momento di lasciar esplodere la gioia collettiva, la pura emozione. Kevin, Mike e Martijn accelerano, il ritmo sale, “Skeletons” ci impedisce di restare seduti, è una versione intensa, bollente. Si arriva quindi a “Party Of The Mind” e immediatamente dopo a “Sense Of Purpose”.  Gli italiani si commuovono, siamo al top, siamo sulla vetta. Mike suona benissimo, la potenza della batteria è emozionante, mai un istante di cedimento, mai un’esitazione: sono brani che diffondono un pathos epico nel locale. Quando li ascolti ti rendi conto che c’è qualcosa di definitivo in questa musica e che a questi livelli non si arriva più.  Ciò che circola ormai da anni nelle radio, nelle televisioni, ovunque, è un concentrato di superficialità senz’anima, senza autentica intensità. Kevin Hewick rallenta, propone ora “I Give You Pain”, brano notturno, oscuro come l’animo travagliato di Adrian in quel difficile 1987, l’anno di “Thunder Up” e dello scioglimento della band. Occorre concentrazione per esprimere questa intensità dolente, unica. Ma occorre anche chiudere in bellezza, in modo trionfale, vincente: siamo qui per condividere la potenza del nostro cuore, e dunque “Heartland” non può che essere la chiusura di una notte perfetta, con la batteria di Mike a pieno ritmo, irresistibile: “Keep it simple and hit it strong”, mi disse tempo fa, in occasione di un altro nostro precedente incontro. Serata gloriosa.

Giuseppe Basile©Geophonìe.
Riproduzione riservata.

Audrey’s Setlist (Watch The Photogallery)

LIFETIME (with Robert Eade on bass)
VITAL HOURS
BREAK FREE
TOUCH+GO
FREEWAY
START OVER
CALLING ON YOUTH
WINNING

Patrick’s Setlist (Watch The Photogallery)

THE WAY YOU PLAYED GUITAR
CINEMATIC
LAST TRAIN OUT OF SHATTERVILLE
WHEN A STAR DIES

Simon’s Setlist (Watch The Photogallery)

WINTER
I CAN’T ESCAPE MYSELF
TOTAL RECALL
SILENT AIR
NEW DARK AGE

Kevin’s Setlist (Watch The Photogallery)

PLENTY
DESIRE
WHERE THE LOVE IS
WHIRLPOOL
GLASS AND SMOKE
SKELETONS
PARTY OF THE MY MIND
SENSE OF PURPOSE
I GIVE YOU PAIN
HEARTLAND

Simon’s Set Photogallery (Adrian Borland Tribute, 26.04.2019, London)

Kevin’s Set Photogallery (Adrian Borland Tribute, 26.04.2019, London)

Patrick’s Set Photogallery (Adrian Borland Tribute, 26.04.2019, London)

Audrey’s Set Photogallery (Adrian Borland Tribute, 26.04.2019, London)

The Colours of London

BREXIT E NUVOLE

Nell’era della libera circolazione delle persone, merci, servizi e capitali, ai più giovani può apparire normale che l’esperienza del “viaggio in Inghilterra”, da evento spesso unico com’era in passato, sia divenuta ormai l’effetto di una frequentazione regolare e abituale, come un viaggio a Roma o a Milano. La ripetuta frequenza è un meccanismo che certamente produce, e inevitabilmente, quel senso di familiarità, appartenenza, identità che è alla base di ciò che con termine forse abusato, definiamo integrazione.

Per i più anziani, invece, abituati a stili di vita più risalenti, con un epicentro della propria vita solitamente stabile e fermo, “il viaggio”, quand’anche venga ripetuto in luoghi già conosciuti, è sempre un unicum, un’esperienza singola.

E’ una questione, forse, di mentalità, di approccio psicologico. Il luogo che si va e si torna a visitare rimane “altro da sé”, lo si osserva con lo sguardo lungo del tempo passato, con un maggiore senso di estraneità e alterità che i moderni cittadini d’Europa nel corso del loro pendolarismo hanno perduto, esattamente come capita a noi, allorquando nelle nostre città e nelle nostre piazze transitiamo indifferenti davanti alle statue senza più volgere lo sguardo a quei busti di Mazzini e Cavour, a Garibaldi a cavallo (“Roma o morte”), ai simboli della nostra più circoscritta identità.

Questo distacco, a dire il vero, probabilmente non costituisce sempre un benefico approccio per un’obiettiva valutazione del sistema-Europa, ma talvolta aiuta.

Ho avuto occasione di soggiornare a Londra molte volte, nel 1990, nel 1997, e poi nel 2011, 2012, 2015, e l’ultima volta nell’aprile appena trascorso di questo 2019. Ogni viaggio mi ha dato modo di registrare importanti cambiamenti, ma ha anche fortificato sempre più la mia convinzione per cui se un’Europa unita esiste, ciò dipende solo e soltanto da affinità culturali.

Non è stata la moneta unica ad unirci, né il mercato. Non è stata la globalizzazione, quella che ha riempito le nostre città di catene di negozi che ritroviamo esattamente identiche in tutte le città d’Europa, Zara, H&M, Pull&Bear, Starbucks, Calzedonia, Tezenis, Intimissimi, Yamamay, McDonald’s e tutte le altre.

Ciò che ho sempre constatato a Londra è che ad unirci è stata una cultura, quella che abbiamo sentito nostra, quella che è stata sprigionata potentemente dall’arte, dalla musica, dalla letteratura e dal complesso di valori che tutto questo patrimonio evoca.

L’immenso complesso di monumenti storici disseminati in tutta Londra e in tutta Europa, divenuto bene comune, è una rappresentazione dei conflitti tra i paesi europei che ha contribuito a rendere, perfino quelle contrapposizioni, parte di una stessa storia. Un francese a spasso nella Trafalgar Square, difficilmente nutre oggi rancore di fronte alla statua dell’Ammiraglio Nelson che sgominò Napoleone. E’ la storia comune dei nostri antenati, storia di famiglia, la famiglia europea, quella della battaglia della Marna, dello sbarco in Normandia, dell’unità d’Italia e della spedizione dei Mille sponsorizzata dai francesi e dagli inglesi, dell’armistizio italiano di Badoglio e dei suoi contatti con Churchill.

Noi italiani ci siamo sentiti europei a Londra più che in ogni altra città europea. Eppure ora proprio Londra, questa città che continua ad erigere monumenti in ogni sua piazza a testimonianza di un’adesione ad alti valori di democrazia e di convivenza, ed anche a memoria di grandi personaggi di altre nazionalità (Nelson Mandela, Abramo Lincoln, Mahatma Gandhi), misteriosamente decide di allontanarsi e prendere le distanze da un terreno comune, così faticosamente costruito.

Ho fotografato Londra durante tutti i miei viaggi, cercando ogni volta di catturarne quella vitalità, quel cosmopolitismo nel quale sono riusciti miracolosamente a convivere stili di vita internazionali e profonde identità britanniche.

Non sono stati gli stati nazionali ad avviare il processo di integrazione europea. Semmai, sono stati gli imperi sulla via del tramonto, sfiniti dai loro sforzi coloniali. Non è una coincidenza che la Germania abbia guidato questo processo di integrazione. La sconfitta del paese nella Seconda guerra mondiale è stata l’inizio della fine del colonialismo europeo. Altre potenze occidentali hanno seguito il processo di integrazione. Contenere i propri imperi era diventato troppo costoso, quindi hanno trovato i mercati europei e un’identità europea. Dagli anni Quaranta fino agli anni Ottanta, l’Europa si è ritirata dalle colonie per trovare sé stessa. L’Ue è il dolce atterraggio dopo l’impero. Le società che hanno combattuto due guerre mondiali e che hanno perso degli imperi estesi oggi hanno tra i tenori di vita più alti del mondo. Solitamente, il collasso degli imperi significa il collasso della civiltà. L’Europa è riuscita a fare l’opposto” (si legge su Il Foglio del 13/05/2019, citazione riferita allo storico Yale Timothy Snyder) .

Possono esservi interpretazioni diverse e opinioni discordi sulle ragioni di fondo alla base dell’odierna identità europea, ma che questa sia ormai immanente, pregnante tra le nostre strade e palazzi è di percezione comune.

Le strategie insondabili di una finanza misteriosa difficilmente possono da sole risultare decisive per sgretolare una cultura collettiva, che non è solo finanza, né solo politica, ma molto di più.

In una giornata piovosa ho provato a riguardare varie serie fotografiche da me realizzate a Londra dal 1990 ad oggi. Ne ho ricavato una documentazione di qualità amatoriale e “turistica”, ma forse utile a farci ritrovare luoghi della memoria, a liberarci dall’assuefazione che talvolta ci ha reso scontata la bellezza di cui abbiamo potuto godere, a farci riflettere su ciò che siamo.

Giuseppe Basile © Geophonìe

23/05/2019 – Diritti riservati.

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Valerio Corvino e Grazia Mimmo

 

Pugliesi, trapiantati a Modena per gli studi universitari, si incontrano per uno strano intreccio del destino, segnato da un’insolita nevicata di metà aprile 2001. Grazia canta in una blues band che sta perdendo il bassista per la naia. Valerio viene proposto come possibile sostituto da una studentessa incontrata nella facoltà di giurisprudenza. “L’anno scorso ha vinto il festival universitario. Credo suoni diversi strumenti”. Vero. Canta, suona la batteria, la chitarra, ma non il basso. Certo, qualche nota nella scala pentatonica del blues avrebbe potuta suonarla, e con una certa dose di faccia tosta accetta. Piccolo particolare: non ha un basso. Per farla breve, rimane nella band come chitarrista.

Galeotta è la blues band  che, esaurito il suo scopo, si scioglie dopo un anno. Lui e lei no. La passione per la musica ad ampio raggio li tiene uniti. Lei lavora come musicoterapista dopo la laurea al DAMS ed una formazione specifica nel settore, e comincia a scrivere canzoni proprio per i suoi “pazienti”. Lui ne scriveva già da tempo.

Dopo la parentesi blues, parallelamente ad altre esperienze musicali, nel 1995 sono tra i cofondatori dei Demkitè, una band che propone brani propri perlopiù scritti da loro due. Dopo diversi live e concorsi di musica d’autore (alcuni dei quali vinti), la band si scioglie.

Un evento segna una svolta nella loro vita musicale: la conversione. Cominciano a frequentare una chiesa cristiana carismatica modenese dove la musica ha uno spazio privilegiato per la lode e l’adorazione. Entrano in contatto con la Contemporary Christian Music e nasce subito una loro produzione in questo ambito. Nel 2009 fondano i Rockspel, una band cristiana che accompagna il pubblico in un viaggio “dalle piantagioni agli U2”, durante concerti che propongono classici spiritual e gospel che loro stessi riarrangiano in chiave rock  (il frutto di questo lavoro dà vita all’album “Niente paura Joshua”, edito con Geophonìe), per poi seguire le orme della Contemporary Christian Music suonando cover di rock band cristiane del mondo anglosassone, fino appunto agli U2. Accanto a queste, vengono scritti e proposti al pubblico brani cristiani in italiano.

Dopo una pausa di alcuni anni, ed altre esperienze musicali (tra cui quella con i Nonsoulblues, ancora in corso), i Rockspel stanno riprendendo la loro avventura musicale. In modo particolare Valerio e Grazia continuano a produrre canzoni che in parte pubblicano su Youtube, nel canale “Segui quella stella”. In cantiere numerose canzoni che in parte confluiranno in un prossimo album.

Isabelle Sirelius

Isabelle Sirelius è una giovane artista svedese. Nativa di Stoccolma, ha mostrato sin dalla tenera età un’indole poliedrica e una chiara inclinazione verso l’arte pittorica. Nei suoi dipinti si coglie una ricerca volta a catturare i silenzi della natura. La sua è una pittura diretta, rigorosa, ma allo stesso tempo estatica.

A diciassette anni ha iniziato il suo percorso in Europa, per circa tre anni i numerosi viaggi in Francia le hanno permesso di conoscersi e sperimentarsi  a Parigi. Nel 2012 si è recata a New York dove ha frequentato l’accademia nazionale di arte della grande mela, un’esperienza, questa, che le ha permesso di consolidare la sua preparazione.

Tanti i temi trattati. Un ruolo di particolare interesse assumono i respiri della natura. I suoi quadri sono stati esposti per la prima volta nel 2009 a Stoccolma, presso il Kulturcentrum e per ben due anni  di seguito nella Galleria Industrigatan, civico 12, nella capitale svedese.

Da qualche anno Isabelle, al diario dei suoi viaggi, ha aggiunto la conoscenza di luoghi e  persone in Puglia, regione  che ha conquistato il suo cuore e sta plasmando la sua arte. Appassionata di moda e cucina si sente ormai anche lei un po’ italiana…  Tra i suoi progetti lavorativi c’è infatti quello di promuovere mostre in Puglia nella Valle d’Itria, nella cittadina di Martina Franca e dintorni, ove periodicamente si reca e soggiorna.

Marcello Nitti

Marcello NittiMarcello Nitti, nato a Taranto, ove tuttora vive e lavora, è un fotografo professionista. Ha documentato con passione e dedizione trent’anni di musica in immagini, affiancando questa sua attività fotografica a una miriade di altre iniziative, giornalistiche, radiofoniche, di promozione musicale in club privati e circoli culturali. Ha divulgato e promosso la cultura musicale in modo costante e ininterrotto. Promoter tra i più conosciuti e apprezzati dell’area jonica sin dai primi anni ’80 nell’organizzazione di concerti dal vivo, è stato artefice di importanti eventi musicali.

In questi anni ha incrementato il suo impegno nel campo della fotografia artistica, e ha sviluppato e perfezionato tecniche personali innovative, realizzando opere fotografiche tutt’oggi esposte e apprezzate in Nord Europa.

La fotografia di Marcello Nitti è il risultato di uno studio estremamente tecnico che trova la sua fonte nella sperimentazione delle possibilità e dei limiti della macchina fotografica: la ricerca è volta a rappresentare un astrattismo non riconducibile che in particolari condizioni il mezzo tecnico utilizzato produce, realizzando immagini che colgono versioni differenti della naturale percezione visiva, esplorano l’ignoto e svelano un mondo precluso alla nostra conoscenza soggettiva e razionale.

Nel 2007 con Giuseppe Basile ha costituito l’Associazione Culturale no-profit “Geophonìe”, che cura archivi fotografici e documentazioni, stampa d’epoca ed esperimenti editoriali volti a valorizzare patrimoni amatoriali di collezioni private, per lo più in ambito musicale, o a supporto di artisti e autori, in ambito fotografico e letterario. Con Giuseppe Basile è coautore dei volumi documentaristici  “80, New Sound, New Wave. Vita, musica ed eventi nella Provincia italiana degli anni ‘80” (Geophonìe, 2007), e “Adrian Borland & The Sound. Meaning Of A Distant Victory” (Geophonìe 2016).

Oleaje, Flamenco (Bologna, Wolf Club, 21.05.2007)

Artista: Oleaje
Data: 21/05/2007
Luogo: Wolf Pub, Bologna
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Robert Plant, Pistoia, 03.07.1993, Festival Blues

Artista: Robert Plant
Data: 03/07/1993
Luogo: Festival Blues, Pistoia
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Jethro Tull, Modena, 17.07.2010, Piazza Roma

Artista: Jethro Tull
Data: 17/07/2010
Luogo: Piazza Roma, Modena
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Robert Wyatt Tribute, Modena, 01.03.2010 Teatro Pavarotti

Artista: Robert Wyatt Tribute
Data: 01/03/2010
Luogo: Teatro Comunale Pavarotti, Modena
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Scott Yoder, San Vito-Taranto, 24.08.2018, Beach Bop

Artista: Scott Yoder
Data: 24/18/2018
Luogo: Beach Pop, Taranto
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Golden Soldiers, Ferrara, 31.10.2018, Circolo Blackstar

Artista: Golden Soldiers
Data: 31/10/2018
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Artista: Golden Soldiers
Data: 13/12/2019
Luogo: Beer Garden, Cotignola (RA)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Artista: Golden Soldiers
Data: 31/10/2019
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Caravan, Porretta Terme (BO), 05.08.2019, Festival Prog

Artista: Caravan
Data: 05/09/2019
Luogo: Porretta Terme, Bologna
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Soft Machine, Porretta Terme (BO), 04.08.2019, Festival Prog

Artista: Soft Machine
Data: 04/08/2019
Luogo: Porretta Terme, Bologna
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

The Chameleons, Carpi (MO), 03.05.2017, Mattatoio Club

Artista: The Chameleons
Data: 03/05/2017
Luogo: Mattatoio Culture Club, Carpi (MO)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Manhattan Transfer, Carpi (MO), 15.11.2018, Teatro Comunale

Artista: Manhattan Transfer
Data: 15/11/2018
Luogo: Teatro Comunale, Carpi (MO)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Nocturne, Ferrara, 31.10.2019, Circolo Blackstar

Artista: Nocturne
Data: 31/10/2019
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Permanent, Ferrara, 31.10.2018, Circolo Blackstar

Artista: Permanent
Data: 31/10/2018
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Artista: Permanent
Data: 12/10/2019
Luogo: Circolo Arci, Parma
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

 

Artista: Permanent
Data: 31/10/2019
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Primary, Ferrara, 31.10.2018, Circolo Blackstar

Artista: Primary
Data: 31/10/2018
Luogo: Circolo Arci Blackstar, Ferrara
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Paolo Fresu, Modena, 17.07.2018, Giardini Pubblici

Artista: Paolo Fresu
Data: 17/07/2018
Luogo: GIardini Pubblici, Modena
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Visionary Flowers in Leporano TA

Artista: Visionary Flowers
Data: 18/08/2007
Luogo: Saturo Art Cafe, Leporano (TA)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Visionary Flowers in Grottaglie (TA)

Artista: Visionary Flowers
Data: 17/08/2018
Luogo: Cinzella Festival, Grottaglie (TA)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Robert Plant & Sensational Space Shifters

Artista: Robert Plant & Sensational Space Shifters
Data: 27/07/2018
Luogo: Ippodromo SNAI, San Siro (MI)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Richard Sinclair & Taranterbury Band Of Dreams in Taranto

Artista: Richard Sinclair & Taranterbury Band of Dreams
Data: 16/04/2006
Luogo: Ramblas Pub, Taranto
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Richard Sinclair & Taranterbury Band Of Dreams in Ceglie (BR)

Artista: Richard Sinclair & Taranterbury Band of Dreams
Data: 16/08/2008
Luogo: Ristorante Antimo, Ceglie (BR)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Richard Sinclair & Taranterbury Band Of Dreams in Leporano (TA)

Artista: Richard Sinclair & Taranterbury Band of Dreams
Data: 23/08/2007
Luogo: Villanova Pub, Leporano (TA)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Anna Calvi

Artista: Anna Calvi
Data: 21/11/2018
Luogo: Parma, Teatro Regio
Copyright:  Giuseppe Basile © Geophonìe

Lucio Schiazza: storia di un viaggio fotografico nella nobilissima Taranto

Ha raccolto in dieci anni di ricerche 20.000 fotografie d’epoca di Taranto, folgorato dall’amore per la città in cui visse solo negli anni ’40, da bambino, senza potervi fare mai più ritorno: è la storia straordinaria di Lucio Schiazza, abruzzese. Grazie a un viaggio virtuale nel Web ha ricostruito luoghi e percorsi della sua memoria, dando vita a un incredibile patrimonio di immagini.

 

Lucio Schiazza e i suoi genitori, Ristorante Pesce Fritto (Taranto Vecchia), 1961.

Premessa

Quando venne costituita la nostra associazione, un gruppo di appassionati di musica e di fotografia si riunì per dar vita a un’aggregazione di collezionisti che pur conservando la proprietà e l’uso  dei propri cimeli, desideravano esporli in una sorta di “museo comune” per valorizzarli, renderli visibili, condividerli. Era il 2007 e Geophonìe si avviò così verso un accidentato percorso.

Si vaneggiavano progetti, pubblicazioni, mostre, esposizioni, esibizioni: iniziative forse velleitarie, o forse impedite dalle scarse risorse, dalla disponibilità di tempo e di energie dei soci partecipanti.

Salvare dei patrimoni fotografici, sottrarli all’oblio imposto loro da armadi e cassetti ben chiusi nelle case di ciascuno, era in quei primi anni una sorta di missione impossibile.

La gestione di un sito web, il suo aggiornamento, le problematiche tecniche, legali, ma anche personali si ergevano come ostacoli invalicabili per un approccio hobbystico quale era – ed è sempre rimasto – quello offerto dalla comunità ristretta degli associati. Ma la passione, quando viene esternata, quando inizia in qualche modo a propagarsi, anche solo in modo fortuito, prima o poi arriva a lambire altre sensibilità. E allora  le storie personali, i ricordi, certe esperienze vissute, inevitabilmente si attraggono, si incrociano.

Il racconto

Vi raccontiamo una storia che ha dell’incredibile.

Nel 2015 pubblicammo un articolo in memoria di un famoso fotografo tarantino, Paolo De Siati, decano della fotografia (25.1.1895-27.10.1960) vissuto tra le due guerre. Fu tra i pionieri della fotografia nell’area jonica.

http://geophonie.it/la-collezione-de-siati-un-patrimonio-della-fotografia/

In calce all’articolo, dopo qualche tempo, comparve uno strano commento: lo scriveva un signore abruzzese, innamorato di Taranto: vi aveva vissuto da bambino i suoi primi 9 anni.

“L’articolo si commenta da sè … è un atto di ammirazione e amore verso una persona che ha saputo amare la Città, ma ancor prima i suoi Concittadini! Profondamente serio nel suo lavoro lo sublimava con la poesia di cui era ricchissimo. Ne parlo come se io fossi stato un suo amico che lo ha seguito da sempre…no, non è così!

Lasciai Taranto nel febbraio del 1949, avevo abitato in Viale Virgilio vicinissimo ai Salesiani in una casa oggi distrutta appartenente (si noti la coincidenza) alla Famiglia De Siati … Orazio De Siati. Avevo 9 anni, pochi, ma sufficienti a portare con me la Tarantinite Acuta che non mi ha mai lasciato. Non avevo altra possibilità, quando la nostalgia si faceva particolarmente acuta, se non quella di rifugiarmi nei miei ricordi.

Non esisteva Internet…ma quando finalmente l’ho incontrato (non molti anni fa), la mia fame di Taranto mi ha indotto a fare man bassa di tutto quello che mi è stato possibile! In questo Safari perenne ho incontrato il Sig.Paolo il cui cognome mi conquistò subito perchè era lo stesso del mio Padrone di casa.

Ma torniamo al Sig. Paolo. Nelle immagini che mettevo da parte, quando vedevo il logo De Siati, per me era una garanzia, perché quando…dopo la caccia…tornavo sul lavoro fatto, mi mettevo  in contemplazione della “mia” Taranto, e un pò per volta.. ho assimilato il gusto artistico del Sig.Paolo, ed ogni foto aveva per me un messaggio, un messaggio di una persona che mi diventava sempre più amica, una persona che mi attendeva puntualmente in ogni mio viaggio virtuale a Taranto. Lui era il mio maestro e io il suo allievo, perchè in ogni nuova immagine era come se mi dicesse “oggi Lucio, ti faccio fare attenzione su questo particolare…”.

L’articolo che ho letto mi ha confermato che la mia non è stata una pia illusione (quando si parla delle accortezze, della pazienza della ricerca del momento migliore per scattare, le sfumature dei grigi che a volte sembrano rivestirsi di colori…ecc).

In conclusione, il Sig. Paolo mi ha restituito Taranto con tantissima generosità comunicandomi il suo amore per la Città e, da parte mia, ho cercato di condividere con Lui i  miei sentimenti! Ora non mi resta altro che ringraziare la persona che mi ha letto con tanta pazienza e porgere i più cari saluti! Lucio”.

 Una mail strana, per certi versi ampollosa, scritta con uno stile d’altri tempi, ma carica di emozione. Decidemmo subito di contattare questo lettore.

“Caro Signore, sono Giuseppe Basile, l’autore di quel pezzo che lei ha letto. Orazio De Siati, Suo “padrone di casa”, era mio nonno. Mia madre si chiamava Maria De Siati, figlia di Orazio. Abitò in quella casa, Viale Virgilio 48, di fronte ai Salesiani. Teniamoci in contatto”.

Taranto, anni 40. Stazione Cacciatorpediniere.

Nasce un’amicizia virtuale, e poi reale. Il sig. Lucio Schiazza ci racconta di essere nato a Gaeta, il 26.12.1940, da Ernesto Schiazza, abruzzese di Città Sant’Angelo (Pescara), e da Anna Francescangeli. Papà Ernesto è un sottufficiale di marina, maresciallo, capo meccanico. L’Italia è in guerra. Nel ’42 la giovane famiglia Schiazza giunge a Taranto. I coniugi Ernesto ed Anna hanno due figli, la primogenita Ivonne e il piccolo Lucio. Ernesto lavorerà all’Arsenale Militare, ma per lunghi periodi sarà anche imbarcato: i documenti militari citano diverse destinazioni, Tobruk, Crimea. Ernesto sarà testimone e superstite di tre affondamenti. Le notizie che giungono a Taranto sono scarne, frammentarie.

Ma la guerra nel Sud fortunatamente termina, dopo l’8 settembre 1943. La famiglia Schiazza permane a Taranto, almeno sino al 1949. E in tutti questi anni dimora in viale Virgilio 48, una villa di proprietà di Orazio De Siati, giornalista, per alcuni anni titolare di un esercizio commerciale di ristorazione nei pressi di piazza della Vittoria, infine libraio. Questa villa è il luogo dell’infanzia di Lucio: qui prendono forma tutti i suoi sogni, le sue fantasie di bambino, quelle che non dimenticherà mai più.

Gli anni passano. Nel 49 la famiglia Schiazza fa rientro in Abruzzo a Chieti. Lucio, adulto, dopo gli  studi di geometra, risiederà dapprima a Vasto ove prenderà servizio negli uffici tecnici comunali, poi vi svolgerà attività libera di consulenza, infine si trasferirà ad Ancona per prendere servizio nell’ospedale cittadino, e poi in quello di Atessa, il paese in cui si stabilirà con sua moglie Rita e i suoi tre figli Stefano, Davide e Anna.

La vita familiare non contempla facili viaggi di piacere, ci sono sempre altre priorità, e Lucio, pur tenendo stabilmente Taranto nei suoi pensieri, come accade agli esuli,  non vi fa più ritorno, eccetto una sola volta, nel 1961: in occasione di questo breve viaggio con i suoi genitori, Lucio scopre che la sua casa in viale Virgilio è stata abbattuta, pernotta in un moderno hotel cittadino, va a pranzo da “Pesce Fritto” (celebre ristorante dell’epoca, nella città vecchia), e rientra poi in Abruzzo.

Ma nel 2008, quando ormai ha raggiunto l’età del pensionamento, riceve in regalo un computer: comincia a prendere dimestichezza con Internet e quindi inzia a cercare tutte le immagini esistenti di Taranto, a leggere avidamente storie e cronache, a rinvenire tracce di luoghi del passato, a ricostruirli, a scoprirne i cambiamenti, ad approfondire aspetti della cultura jonica che non aveva mai avuto occasione di conoscere. I Cantieri Navali, l’Arsenale Militare, i siti della Marina, il varo delle navi, la natura del territorio, le isole Cheradi, le spiagge, i mari, e naturalmente la sua cara villa di Viale Virgilio 48.

Viale Virgilio 48, Taranto, Ricostruzione di Lucio Schiazza.

“E’ vero Sig.Basile, questa storia è un po’ strana, non fosse altro per la serie di coincidenze che mi sono letteralmente venute incontro nei miei vagabondaggi nel Web. 

Mi ritengo una persona concreta e non facile a credere a interventi del trascendente nella vita reale, ma questo devo proprio dirglielo…nelle mie ricerche, dall’inizio (circa tre anni fa), a tutt’oggi quando ho incontrato il Suo sito “Geophonìe”, è stato come se fossi stato “guidato” nella scelta delle pagine, ed ogni tassello alla fine ha trovato il giusto posto nel mosaico del mio passato tarantino.

Taranto con la sua bellezza mi è rimasta nel cuore e mi sono sempre sentito tarantino perchè appunto i miei ricordi iniziano lì e proprio in quella casa divisa in tre lotti e abitata da altrettante famiglie: Caputo, Castelli e la mia, Schiazza! Devo dirle che Taranto con tutte le sue vicissitudini è stata ed è presente nelle mie preghiere insieme a tutte le persone del mio passato e a quelle di oggi che “non mi appartengono più” ! E tra le persone del “mio” passato uno dei posti più preminenti è sempre appartenuto a tutta la Famiglia De Siati, sia attuale,  sia quella che ci ha preceduto nella Eternità. Sua Madre è la prima persona che ho incontrato in foto e tenga presente che non la conoscevo.

Quando la miniatura del Tesserino si è affacciata  sullo schermo del mio PC, la prima cosa che ho visto è stato il cognome e poi “figlia di Orazio”. Ho avuto un tuffo al cuore… e immediatamente ho mandato la foto a mia sorella (tramite il maggiore dei suoi figli  con il quale sono in contatto via Web). Mia sorella si ricordava benissimo della Signora Maria e anche degli altri componenti della Famiglia. La casa fu adibita a magazzino per qualche tempo e poi abbattuta. Io tornai con Mamma e Papà a Taranto nel 1961 (unica volta) e al posto della casa c’era un grande prato verde…anche i maestosi pini non esistevano più! Alloggiammo nell’allora Hotel Jolly, oggi Mar Grande Hotel Park. Papà lo scelse perché il più vicino al luogo dove sorgeva la casa, ma il mattino successivo fu una bella scarpinata lo stesso e nell’incipiente primavera tarantina il caldo si fece ben sentire!”

Villa De Siati, 23 maggio 1926, Viale Virgilio 48 Taranto – © Geophonìe

Cominciamo a scambiarci delle fotografie d’epoca. Lucio addirittura si cimenta in alcune ricostruzioni, affidandosi ai suoi ricordi. Ma un giorno, in una cassa abbandonata da decenni, in occasione di un trasloco a Taranto, compaiono numerose vecchie foto dimenticate: tra queste ve ne sono in particolare due, scattate il 23 maggio 1926. Sono fotografie preziose che immortalano la villa De Siati. Altre vengono poi rinvenute in un vecchio album di famiglia. Per Lucio Schiazza, ad Atessa, è un giorno importante: rivede la sua casa, alcuni volti, l’atmosfera di un’epoca.

Diventiamo presto grandi amici, ci scriviamo, parliamo di noi, delle nostre famiglie, delle nostre vite, di gioie e preoccupazioni: e tutto questo mentre Lucio, instancabile, prosegue nel suo “safari fotografico”. La sua è una caccia quotidiana, una ricerca animata da una passione quasi morbosa. Cataloga e conserva migliaia di fotografie di Taranto: le orchestre, i locali da ballo, i gruppi musicali, le piazze, le immagini di vecchi negozi.

Pochi giorni fa giunge a Modena un regalo: Lucio Schiazza ci invia 13.000 fotografie, un patrimonio storico. Più grande dello stesso archivio di Paolo De Siati. Vuole che sia la nostra associazione a conservarle, valorizzarle, forse esporle.

Sono immagini tratte da libri, vecchie cartoline, foto di cronache e documentazioni, lampi di una vita lontana. “Non ho badato a questioni legate alla proprietà di queste immagini” – dice – “sono immagini per le quali non è possibile risalire ad un legittimo proprietario, sono fotografie comuni, e che comunque io ho raccolto solo a fini personali”.

Lucio Schiazza, a nostro parere, è un eroe: un tarantino che ha amato Taranto molto più di coloro che vi hanno vissuto, e che ha conservato caparbiamente i suoi ricordi per una vita intera, sino a renderli tangibili, visibili. La sua collezione è emozionante, l’ha intitolata: “Nobilissima Taranto”.

Sarebbe il caso di conferirgli la cittadinanza onoraria: siamo certi che se le Autorità comunali verranno a conoscenza di  questa storia, lo contatteranno. Da parte nostra, dobbiamo dire di aver ripetutamente provato e insistito per averlo ancora una volta nostro ospite fra i due mari, sinora invano. Ma continueremo a provarci, con quella stessa tenacia che ha consentito a lui, Lucio Schiazza, di diventare uno dei più grandi documentaristi che Taranto abbia mai avuto. E frattanto, inizieremo pazientemente, con i nostri tempi “hobbystici”, a costruire un progetto degno della sua stupefacente collezione.

Giuseppe Basile © Geophonìe (09.10.2018)

Raccolta Fotografica di Lucio Schiazza

Ricordati Barbara quella notte di stelle a Ginevra

Vi propongo i “Passions”. E ve li propongo raccontandovi un mio ricordo personale. E’ il 2 dicembre 1982. I “Passions” sono attesi a Ginevra, in Svizzera. Acquisto il biglietto in prevendita e cerco di immaginare se dal vivo il gruppo riuscirà a confermare quel talento che dimostra negli album. Arrivo in netto anticipo sull’orario del concerto e dopo aver bevuto qualcosa mi sistemo proprio sotto il palco, insieme con un amico. Alle 21, puntuali come un orologio svizzero, il gruppo fa il suo ingresso e immediatamente le note di “The Swimmer” inondano il grande salone del 1700 dove si svolge lo spettacolo. Il pubblico, poco numeroso, si dimostra subito svogliato, applaude timidamente alla conclusione di ogni brano. Ma, a ogni modo, lo spettacolo cresce in qualità, canzone dopo canzone. Tanto che, dopo la prima mezz’ora, stiamo delirando per “I’m in love with german star”, una versione impossibile, con una nuova ragazza al sax e alle tastiere, che accompagna i “Passions” in tour.

Barbara Gogan, con la sua voce elegantissima, sciorina via via tutti i migliori brani: la favolosa “Into night”, la toccante “Sanctuary”, la veloce “Jump for Joy”.  Il pubblico è appagato, tutti si mettono in movimento, i bis sono addirittura quattro. Entusiasmante. Barbara ringrazia in francese e la sua esile figura scompare dietro le quinte, dove la raggiungo per poterle parlare.

La chiacchierata ha luogo in uno chalet-ristorante, con Barbara che, tra un boccone e un bicchiere di vino, mi racconta quanto le piacerebbe poter suonare in un concerto in Italia. Per il resto, abbiamo parlato come due vecchi amici. Alle tre del mattino ci salutiamo: Barbara mi garantisce che presto verrà in Italia. Andiamo a casa sotto un cielo stellato, con le luci notturne di Ginevra e la musica dei “Passions” come colonna sonora.

Marcello Nitti © Geophonìe

Lu Papa Ricky

Artista: Lu Papa Ricky
Data: 23/07/2009
Luogo: Taranto
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Richard Sinclair & Taranterbury Band

Artista: Richard Sinclair & Taranterbury Band
Data:
Luogo:
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Fata

Artista: Fata
Data: 03/06/2009
Luogo: Carpi (Modena)
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

Fata & Federico Fiumani

Artista: Fata e Federico Fiumani Data: 02/07/2007 Luogo: Spilamberto (Modena) Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe