SYNNE SANDEN IN ITALIA

Il mini tour europeo dell’artista norvegese comprende anche quattro esibizioni in Italia, proprio in questi giorni: Perugia (16/11), Santa Margherita Ligure (18/11), Trieste (19/11) e Torino (23/11)

Forse non sono ancora molti quelli che in Italia conoscono Synne Sanden, artista norvegese che la nostra Associazione Geophonìe ha scoperto e promosso già all’indomani delle sue prime apparizioni nel nostro Paese: si tratta di un nuovo e inatteso talento degli anni ’20 di questo secolo.

Ne avevamo parlato agli inizi di questo 2023, in occasione della pubblicazione del suo album intitolato “Unfold” , ma già in precedenza, nel 2021, con la pubblicazione di un suo EP, e ancor prima, dopo uno splendido suo concerto tenuto a Taranto il 30/01/2020 durante il quale presentò il suo album del 2019, “Imitation”.

“Imitation” è un’opera musicale di grande spessore che Synne ha il merito di aver realizzato nel 2019, in cui dipinge, come su tela, armonie ed emozioni eteree di profonda sensibilità. Nel Febbraio del 2023 ha pubblicato il suo nuovo lavoro “Unfold” con l’aiuto dei suoi fedeli musicisti fra i quali Kim Reenskaug, in arte Wow Sailor, che ha prodotto l’intero album.
Synne Sanden trova agio e leggerezza nel fluttuare nella sua musica che descrive l’amore e il rispetto nel riconoscersi, in un abbraccio di alta umanità.
Eccola che torna in Italia per un breve tour che prevede 4 date e che consiglio di non perdere.
L’esibizione della Sanden è poetica, ancestrale, molto intima, e prova a far riflettere sulla bellezza della condivisione naturale di emozioni.
La sua musica colora gli spazi bui dell’incomprensione generando un “break” che porta fiducia in una nuova vita.
Synne Sanden interpreta con passione:  vederla recitare la sua musica è davvero una bellissima esperienza da provare.
SYNNE SANDEN Tour 2023
16/11/2023 Marla, Perugia (Italy)
18/11/2023 Circolo Arci Orchidea,  Santa Margherita Ligure (Italy)
19/11/2023 Teatro Miela, Trieste (Italy)
22/11/2023 Supersound Festival, Colmar (France)
23/11/2023 Imbarchino, Torino (Italy)
24/11/2023 Live and Loud, Sofia (Bulgaria)
26/11/2023 Quantic Club,  Bucarest (Romania)
Geophonie
Marcello Nitti

Verso il Medimex 2021

medimexLa manifestazione musicale volge alla sua decima edizione.

ll Medimex, International Festival & Music Conference, promosso dalla Regione Puglia con progetto di Puglia Sounds, è stata una manifestazione che in questi anni ha assunto grande rilievo culturale, sociale e artistico. Ma la pandemia del 2020, quando si programmava la sua decima edizione, ha purtroppo costretto il management a spegnere i motori e  restare in fiduciosa attesa: l’edizione in programma dal 16 al 25 aprile venne rinviata a data da destinarsi, ma per quella del 2021 si credeva – e si crede ancora – che non tutto sia perduto. Dipende dall’emergenza nazionale  e dal lockdown, la cui gestione muta di giorno in giorno.

Il Medimex nacque nel 2011, dalla volontà di Puglia Sounds di costruire un’occasione d’incontro reale tra la scena musicale italiana e quella internazionale e la manifestazione venne concepita come momento di crescita e sviluppo per il mercato della musica pugliese e italiana. Il progetto era ed è quello di attrarre in Puglia i migliori player internazionali e di investire sulla musica come strategia regionale per diffondere i valori trasversali e universali che la cultura europea promuove: diversità, inclusione, capacità di ispirare positivamente il pubblico; ma anche come fattore in grado di generare occupazione, favorire la crescita economica e promuovere l’innovazione digitale.

Storicamente il Medimex esordì come luogo di confronto tra le musiche del Mediterraneo, crebbe come Salone dell’Innovazione Musicale e si è poi evoluto in International Festival & Music Conference, dal 2017, sul modello della music week, al passo con i cambiamenti del settore musicale.

L’edizione del 2017 fu quella che segnò il cambiamento più radicale della manifestazione. Lasciata la Fiera del Levante di Bari, che ospitava il salone espositivo, il Medimex invase  le strade del capoluogo pugliese con i suoi molteplici appuntamenti per il grande pubblico, e grazie anche a un nutrito calendario di attività rivolte ai professionisti del settore musicale raggiunse il sold-out delle strutture ricettive sul territorio. La presenza di pubblico è stata negli anni a seguire  eccezionale, ed importante è stata l’offerta tra gli stage, con grandi eventi e appuntamenti professionali e di formazione.

All’edizione 2017 di Bari sono seguite un’edizione a Taranto nel 2018  e due edizioni a Foggia e a Taranto nel 2019. Il Medimex è diventato itinerante. Il progetto ha cominciato a coinvolgere altre città oltre Bari. L’intera regione si è aperta al pubblico, agli operatori e agli artisti.

Questo appuntamento annuale, entrato nelle agende del mercato musicale italiano e internazionale, rappresenta una grande risorsa per chi voglia sperimentare la scena musicale globale attraverso l’incontro, l’approfondimento, la creazione di reti e la promozione del proprio lavoro. Il Medimex è una Festa della Musica con decine di concerti, dj set, mostre, proiezioni e numerose attività off. E mentre i grandi nomi internazionali contattati sono in attesa di conferme, anche un’altra generazione di artisti e appassionati guarda alla manifestazione, desiderosa di offrire un proprio contributo e di trovare uno spazio di visibilità: proprio come tanti di quei gruppi punk-new wave che nei primissimi anni ’80 trovarono proprio in Puglia le loro prime opportunità per esibirsi di fronte a un grande e nuovo pubblico.

Se il Medimex riuscirà a riportare sul suolo pugliese quei gruppi emergenti di allora, oggi vecchie glorie affermate e ancora amate, sarà un’esperienza emozionante poter affiancare alle grandi performance anche altri eventi musicali: come in una sorta di passaggio di testimone generazionale, che rievocando e alimentando una storia sociale e musicale che ci fa onore, vedrà la Puglia ancora artefice di una splendida continuità.

Marcello Nitti © Geophonìe

INCONTRI IN CORTILE

 

A  Martina Franca (Taranto) Arte e Fotografia si incontrano in cortile

Gianfranco Nitti, 20.09.2020, © L’Osservatore d’Italia

Da venerdì 18 fino al 30 settembre, nella splendida cornice del cortile di uno dei palazzi settecenteschi più suggestivi di Martina Franca, sito lungo corso Vittorio Emanuele al n. 38, è in corso tutti i giorni la mostra dal titolo INCONTRI IN CORTILE con i dipinti realizzati da Vito Marzo e le fotografie di Marcello Nitti, ad ingresso libero nel pieno rispetto nelle norme anti-covid.

Uno spazio espositivo originale e che, in un certo modo, rompe con la tradizione dello spazio chiuso di una galleria per offrire un accesso aperto e libero, inserito in un contesto di una cittadina nota per la vivacità dei suoi fermenti culturali. Gli acquerelli di Vito Marzo in mostra sono stati realizzati in gran parte nel periodo della chiusura, e hanno come tema alcune immagini femminili e sensazioni di attesa, solitudine, riflessione; a sua volta, Marcello Nitti ha già realizzato rinomate mostre delle  sue fotografie all’estero, in Svezia, e quelle esposte in cortile sono un estratto delle sue tematiche illustrative, qui sintetizzate in giochi di trasparenze monocromatiche.

L’allestimento è ideato e realizzato secondo criteri minimalisti, che rispettano il contenuto delle opere allo stesso tempo valorizzando il contenitore che le accoglie.

La mostra si offre quasi come un contrappunto tra due forme espressive che spesso si assimilano a seconda dei contenuti trattati e delle quali spesso è difficile distinguere la caratteristica artistica o documentaria.

 

 

 

 

Martina Franca, arte e fotografia si incontrano in cortile

 

Una mostra fotografica dal profondo sud al profondo nord d’Europa: Marcello Nitti riprende il suo viaggio visionario a Stoccolma

 

MARCELLO NITTI: LA FOTOGRAFIA CHE PORTA AL NORD LUCI E SUONI DEL SUD

 

Ciao Ennio

Omaggio a Ennio MorriconeQuando all’improvviso dal mondo scompare un grande, quello è il momento in cui si comprende davvero quanto sia enorme il vuoto, il cratere che una tale perdita produce. Lo si scopre subito, in un attimo, non appena si viene raggiunti dalla percezione dell’incolmabile che emerge dal raffronto con l’ordinaria capacità degli altri, la sensibilità degli altri, il talento degli altri, di tutti gli altri.

I grandi sono insostituibili, sono persone speciali, straordinarie, col proprio genio sono in grado di spingere il mondo in avanti, di superare il limite della conoscenza, creando ciò che prima di loro non esisteva.
Ci si guarda intorno e in un solo attimo si realizza che nessuno è al loro livello. Ed ecco che il vuoto, il cratere, lo si vede in tutta la sua evidenza.

Ennio Morricone con la sua musica visionaria ha portato avanti il cinema, gli ha fatto compiere un balzo enorme, così come come lo ha fatto compiere alla musica tradizionale dai cui territori per i suoi studi accademici proveniva, mescolandola con suoni che hanno esteso in modo sconfinato il campionario delle sonorità che oggi definiamo “musica”.

In un saggio di musicologia di qualche anno fa, “Superonda. Storia segreta della musica italiana” (Valerio Mattioli, Baldini&Castoldi, 2016, ISBN 9788868529031) con stupore si scopre – in un capitolo specificamente dedicato a Morricone – che il Maestro “esercitò quasi immediatamente una sottaciuta influenza proprio in America” tra gli sperimentatori di tutti quei suoni espansi e fisici che poi diedero vita alla musica psichedelica. Il western all’italiana prodotto tra il 1964 di Per un pugno di dollari e il 1968 di C’era una volta il West introdusse in America quel campionario di campane, schiocchi e rintocchi, fischi, armoniche solitarie, chitarre spagnoleggianti, trombe messicane, cigolio di porte, rumori di bosco, di venti impetuosi, gocciolii ossessivi di acqua, suoni deformati di gong e di echi, luci abbaglianti di sole portatrici di allucinazioni e miraggi che condussero gli sperimentatori d’oltreoceano verso il rock lisergico.

Ma l’influenza della musica di Ennio Morricone ha raggiunto tantissimi generi e stili musicali.
La sua scomparsa ci commuove e ci induce ad affermare, ma anche incentivare, il sentimento di gratitudine e di ammirazione che si deve ai grandi e che invece, colpevolmente, una società massificata e qualunquista, superficiale e demagogica tende talvolta a sminuire, trascurare o proprio oscurare, quasi come se l’essere geniali e speciali sia un disvalore di cui vergognarsi. Saranno pur beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Ma i grandi di spirito, quelli che svelano i nostri limiti e riescono a farceli accettare senza invidia e rancore, compensandoci con la loro arte salvifica, meritano onore e gloria qui in terra.

Grazie Maestro Morricone. Ci mancherai.

6/7/2020
Giuseppe Basile © Geophonie

Astrid Hallén. Alla terza nuvola, continua avanti.

© Johan Ahlbom

Comprendere la propria attitudine e lavorarci con passione  è il valore che Astrid Hallén persegue per esprimersi interiormente nella recitazione. Un sogno, quello di recitare, che viene da lontano o, semplicemente, il vero desiderio, che in assoluta naturalezza è per Astrid esaltante, nel vivere questa bellissima avventura di essere se stessi cambiando pelle. Raggiungiamo Astrid in video chat per conversare di quello che sta diventando la sua professione e di come sono stati i suoi inizi nel mondo della recitazione. Astrid risponde dalla lontana Svezia e circondata da piante verdissime che sembrano darle linfa ed energia per il suo lavoro le chiediamo subito quanto ami recitare: Vogliamo parlare della tua personale esperienza nel mondo della recitazione?

© Johan Ahlbom

Recitare è il sogno della mia vita e la perseguo con dedizione. Voglio fare bene e la mia concentrazione è massima. Sento che è parte di me e non semplicemente un lavoro. Il mio impegno è volto a migliorarmi e a scoprire nuovi angoli nascosti di questa bellissima professione. Dedico il mio tempo a provare nuovi testi e a volte uso il mio telefonino per filmarmi e rivedermi. E’ importante capire dove recito meglio e in cosa devo migliorare. Astrid è svedese e naturalmente la conversazione si svolge in inglese. E’ molto attenta e scorgo una attenzione a spiegare per bene quello che lei vuole trasmettere anche dalla nostra semplice conversazione. Parlare del mio lavoro di recitazione è come spiegare un po’ come siamo fatti e voglio aggiungere che recitare per me è come esplorare un mondo nuovo. Inoltre si ha un contatto particolare con se stessi e quando studio un nuovo dialogo di una sceneggiatura è come immergersi in una nuova fantastica avventura. Chiedo ad Astrid quali sono stati i suoi primi passi nel mondo della recitazione e se ha sostenuto particolari studi:

© Tim Kristensson

Ho studiato in una scuola che si chiama Sinclair a Uddevalla  a 16 anni e lì ho imparato molto come recitare. Si recitava tutti i giorni e la mia forza di volontà ha fatto il resto. Posso dire di essere autodidatta anche se le basi le ho avute al Sinclair. A 16 anni ho incominciato a vivere da sola e a potermi concentrare su quello che veramente volevo studiare. Recitare. Continuando a dialogare con Astrid le chiediamo di coinvolgerci maggiormente nelle sue idee e opinioni riguardante il suo mondo della recitazione. Mi piace molto seguire il regista che mi consiglia e mi chiede, e nello stesso tempo cerco di improvvisare, considerandola come una sfida ad avere più forza interiore nello spingermi a capire le mie possibilità. Bisogna viverlo il momento, e metter fuori i propri sentimenti. E’ un gran momento in cui avviene un bellissimo contatto con me stessa. Sento come espandere la mia vita e renderla più grande e più intensa tutte le volte che recito.

© Anna Osk Erlingsdottir

Nel cuore della conversazione,  Astrid mi spiega che : Sai, trovo molta ispirazione nell’incontrare nuova gente con cui potermi confrontare sulle idee. E’ essenziale aprire dialoghi con mentalità differenti ed io in particolare lo trovo molto stimolante per il mio lavoro. Anche  leggere o vedere film accresce in me la fantasia e l’entusiasmo per esprimermi nella recitazione.

© Johan Ahlbom

E qui che Astrid da sola mi parla della sua esperienza più importante ….. La mia ultima esperienza di recitazione è stata quella di prestare la mia voce e la mia emozione di donna in un corto di Monica Mazzitelli. Una bravissima regista italiana che vive in Svezia e con la quale ho partecipato al suo “The Wedding Cake”. Sai, un corto a sostegno della condizione della donna nel mondo il cui tema è da me condiviso con molto interesse. The Wedding Cake ha avuto la sua anteprima mondiale in Islanda, al Reykjavík Feminist Film Festival, dove ha vinto il primo premio. Due settimane dopo c’è stato il debutto al più importante Festival del cinema scandinavo, il “Göteborg Film Festival” in Svezia. Sono poi seguite molte altre vittorie e nominations internazionali e questo è stato per me un’enorme soddisfazione. Aver potuto partecipare a questo progetto  e lavorare con la regista italiana è stato molto gratificante e in maniera inaspettata è arrivato anche il successo perché il corto ha vinto il primo premio al concorso del “Feminist Film Festival’s International Sister Competition” a Reykjavik.  Il mio incarico era di narrare con la mia voce la storia di una donna alle prese con le avversità della vita. Anche se sono stata solo la voce narrante, sentivo molto dentro di me il carattere del personaggio che dovevo interpretare e nello stesso tempo sapevo che il mio lavoro sarebbe dovuto arrivare alle donne del mondo affinché ricevessero solidarietà. Sicuramente uno dei ruoli più importanti che io abbia realizzato.

Astrid mi coinvolge con le sue parole e il dialogo diventa molto interessante quando affrontiamo l’argomento che riguarda la scena femminile nel cinema o nel teatro in Svezia. Sai Marcello, da quando il movimento #metoo è diventato globale c’è stato molto fermento nel mondo femminile della recitazione e anche da noi in Svezia ci sono molte nuove sceneggiature. Penso che stiamo vivendo un periodo intenso per l’interesse a portare sul palcoscenico o sullo schermo nuove storie, e soprattutto provenienti dalla realtà. Rimane sempre una realtà conservatrice nell’industria del cinema. I ruoli che mi hanno affidato sono quasi sempre molto femminili, come essere una moglie, o una fidanzata. Ho recitato in produzioni video musicali e i miei ruoli erano quelli tradizionali per una donna. Mi piacerebbe molto recitare in ruoli nei quali la donna ha una presenza forte e di comando o rappresentare uno strano personaggio femminile anche per crescere in nuovi ruoli.

Quindi recitando senti che la tua autostima cresce? Si può dire che recitare accresca sicurezza e determinazione? Penso di si. Perché no. Dai differenti ruoli che si interpretano, a poco a poco si impara sempre di più e l’autostima arriva quasi spontaneamente. Se il ruolo ha bisogno di una persona con autostima allora recitando quel ruolo io cresco e diventa qualcosa di unico dentro di me.

© Sean McLatchie Lewthwaite

Nel dialogare con Astrid non si poteva non conversare sui suoi preferiti nel cinema, registi e attori …. Mi piace molto vedere come recitano alcuni attori e tra i miei preferiti ci sono quelli che recitano sembrando se stessi,  mi piace anche vedere l’unicità di un set di come è stato preparato. Non gradisco scene già viste perché l’originalità nel cinema per me è importante. Ci sono molti film che si assomigliano e ovviamente preferisco nuove storie originali. Se sento di aver appreso qualcosa da un film allora posso dire che mi è piaciuto e che è un film importante per me e la mia carriera. Tarantino mi piace e anche Spike Jonze che ha diretto “Essere John Malkovich” che mi è molto piaciuto e ha diretto diversi video musicali. Tra le attrici Uma Thurman e non dimentico la bravissima Cate Blanchett. Auguro ad Astrid Hallén una splendida carriera e il sole che spunta dalle nuvole sembra essere di buon auspicio. La nouvelle vague del cinema Svedese si completa con questa interessantissima attrice.   Marcello Nitti © Geophonìe 27 Giugno 2020 Diritti riservati

Foto di copertina © Peter Gaudiano

“Madre dell’Amore”, Dajana D’Ippolito sceglie Geophonìe

Il nuovo album dell’artista pugliese viene prodotto attraverso la nostra Associazione Culturale.

Ci sono lavori che ci appartengono più di altri, che ci identificano” – dice Dajana, cantante salentina che oggi pubblica il suo disco di musica cristiana intitolato Madre Dell’Amore“e a volte, affidare la propria interiorità e la propria creazione a un editore musicale, una casa discografica, un produttore, diventa rischioso. E’ come privarti di un pezzo di te. C’è il rischio di sentirsi espropriati”.

Il CD è disponibile per l’acquisto.

Dajana, nota cantante pugliese, giovane ma con una già lunga storia artistica da raccontare, ha deciso di produrre un lavoro diverso, tutto suo, libero dai circuiti commerciali e dai vincoli della produzione. Il disco si chiama Madre Dell’Amore, un disco-progetto, un percorso personale – ma potenzialmente anche collettivo – nel campo della musica sacra. Dajana, fervente credente, ha per un attimo deciso di sospendere il suo cammino tra i vari percorsi della musica italiana sinora intrapresi e di cambiare registro, con un lavoro di pura interiorità, fuori dagli schemi, per ringraziare con questa nuova creazione i suoi punti di riferimento spirituali.

Sicuramente ho voluto raccontare una storia in maniera molto attuale. La figura di Maria, per me, rappresenta l’incarnazione di tutto ciò che è dolcezza, amore e, soprattutto fede. L’ ho voluto fare, però, uscendo dai canoni tipici della musica sacra, restando fedele a quelle che sono le mie caratteristiche canore e, soprattutto, a quelli che sono anche i miei amori musicali…
Ho voluto raccontare, diciamo così, l’amore per Maria alla mia maniera con testi anche miei che esulano dal tipico percorso legato alla musica sacra” – racconta Dajana a Marie Claire (http://www.marieclaire.it/Attualita/TalentOne-Ci-vuole-molto-orecchio-il-blog-di-Vainer-Broccoli/intervista-a-dajana).

Ho avuto l’occasione di conoscere l’Associazione Culturale Geophonìe, una specie di consorzio nato dall’idea e dal desiderio di alcuni autori, scrittori, musicisti e fotografi interessati a pubblicare lavori particolari e non commerciali, ma desiderosi di restarne totalmente proprietari.

Non ogni prodotto è idoneo ad essere gestito e distribuito da soggetti commerciali come case editrici o etichette discografiche. Quando un autore affida un proprio lavoro nelle mani di un operatore commerciale, ne perde la proprietà. Questo può andare bene per tantissimi prodotti, ma non per tutti. Ci sono cose che si sente il bisogno di tenere per sé.

Geophonìe è una piccola realtà, senza scopo di lucro. Gli artisti e autori che occasionalmente vogliano pubblicare delle creazioni proprie, possono farlo grazie a questa piccola struttura che fornisce i servizi minimi che qualunque prodotto richiede per poter essere distribuito. La gestione del prodotto, però, le scelte, i costi, la proprietà, rimane a carico e a beneficio degli autori.

E’ triste a volte assistere al modo in cui produttori professionali, con pari superficialità, lanciano e dismettono certi lavori, a cui l’autore tiene. L’autore, a volte, vorrebbe influire sul percorso del prodotto che ha realizzato, e nell’editoria musicale professionale non sempre è possibile. Questo disco deve camminare con me, lungo i miei stessi percorsi, anche spirituali. Nella condivisione con altre persone, unite da interessi e impulsi interiori comuni”.

Il disco contiene otto brani, due dei quali scritti da Roberto Bonaventura e i restanti sei dalla stessa Dajana: si tratta di composizioni di ringraziamento (al Signore, alla Madonna, a Padre Pio, a Natuzza Evolo, donna vissuta nel dopoguerra e da molti ritenuta dotata di santità). Nonostante l’ambito sacro, il lavoro è intriso di sonorità moderne, i suoni talvolta appaiono di matrice pop, luminosi, chiari, rotondi, e si mescolano con la vocalità di Dajana che per storia e cultura, ma anche per tipicità del suo timbro, contiene dei toni tipici pop-jazz che qui l’Artista non esibisce volutamente, ma neppure estromette dalla sua interpretazione, ora a tratti sacrale e da puro soprano.

L’ensamble del disco è orchestrale, ampio, vigoroso e produce sonorità di grande impatto. Violini (Stefania Cimino), viole (Andrea Sgobba), violoncelli (Ernesto Tretola), pianoforte (Pino Passante e Domenico De Stradis), basso elettrico (Enzo Pedone), arpa digitale, sintetizzatori, mellotron (Eugenio Valente), batteria acustica (Marco Rovinelli), programmazioni ritmiche (Ivano Giovedì), tastiere e programmazioni (Francesco Marchetti), costituiscono il tessuto sonoro su cui Dajana ha espresso i suoi pensieri religiosi in musica.

Ho cercato per anni di diventare quella che non sarei stata in grado di sopportare. Ho cercato solitudini in palchi e concorsi … ho cercato consensi mentre mi ritrovavo per ore ad ascoltare storie di straordinaria normalità nelle carrozze di treni che mi portavano lontano dalla mia di normalità, che ritenevo non appartenermi. Entravo nelle storie degli altri fino a sentirle mie, per poi lasciarsi con un “ciao” familiare che aveva il profumo di nonna o la risata di zia. Ho cercato canzoni e amori instabili dove il senso della parola era lasciato al caso, come l’amore di cui mi privavo, quando in fondo tutto ciò che desideravo era un amore grande ed unico come una canzone che non ha età, come un testo di Mogol o un brano di Lucio Dalla” – così scrive Dajana nell’elegante booklet interno che racchiude testi, preghiere, note e pensieri.

Lo scorso dicembre la cantante aveva anticipato l’uscita del nuovo album con il meraviglioso brano intitolato Ave Maria di Gounod:

La nostra Associazione non può che essere entusiasta e onorata per aver potuto contribuire a questa coraggiosa pubblicazione.

© Geophonìe (04.04.2018)

Il CD è disponible per l’acquisto.

 

 

 

Isabelle Sirelius

aIMG_8504Astrattismo pittorico, tra Scandinavia e Puglia.

Il taglio sbarazzino, le gote rosse ai primi raggi di luce, il sorriso impresso sul volto, rendono Isabelle,  giovane artista svedese, una persona estroversa e amante della vita. I suoi trent’anni vissuti  in giro per il mondo le hanno indicato che le strade da percorrere, oltre quelle della sua città bagnata dal mar Baltico, Stoccolma, sono quelle dell’arte. Aveva solo quattro anni  quando fece il suo primo dipinto, e cinque quando la sua indole poliedrica di futura artista le fece pronunciare le fatidica frase:  “da grande voglio  fare la pittrice”.

 

Se è vero che ogni artista si lascia ispirare da ciò che lo circonda, Isabelle usa il pennello per catturare i silenzi della natura e dotarli della parola, attraverso forme e colori. La sua pittura è diretta, rigorosa, ma allo stesso tempo estatica. E’ un mondo che si ritrae nella sua interezza, senza alcun bisogno di anteporre la tecnica alla spontaneità di ciò che viene catturato e impresso  sulla tela. “Amo la vita”,  parole cariche di significato, quelle pronunciate dalla giovane artista. Un amore per il viaggio e la scoperta, che sin da adolescente l’ha portata a scoprire il mondo con occhi capaci di  custodirne  i segreti.  

A diciassette anni ha iniziato il suo percorso in Europa, per circa tre anni i numerosi viaggi in Francia le hanno permesso di conoscersi e  sperimentarsi  nella capitale mondiale della cultura, Parigi. Nel 2012 si è recata a New York dove ha frequentato l’accademia nazionale di arte della grande mela. Un’esperienza, questa, che le ha permesso di consolidare la sua preparazione sia sul piano teorico, che su quello esperienziale. Tanti i temi trattati dagli schizzi del suo pennello, che con vigore  regala a chiunque si fermi a guardare le sue opere. Un ruolo di particolare interesse assumono i respiri della natura, in un campo di margherite giocose , o sulla scia di tramonti infuocati di luce intensa , sino ad arrivare all’amore, tema pregnante del suo animo  di artista.

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Isabelle Sirelius, Deserto (2017)

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Isabelle Sirelius, Terra (2017)

I suoi quadri sono stati esposti per la prima volta nel 2009 a Stoccolma, presso il Kulturcentrum e per ben due anni  di seguito nella Galleria Industrigatan, civico 12, nella capitale svedese. Da qualche anno Isabelle, al diario dei suoi viaggi, ha aggiunto la conoscenza di luoghi e  persone di una regione  che ha conquistato il suo cuore e sta plasmando la sua arte, la Puglia. Appassionata di moda e cucina si sente ormai anche lei un po’ italiana…  Tra i suoi progetti lavorativi c’è infatti quello di promuovere delle mostre  in Puglia, nell’incantevole Valle d’Itria, nella cittadina di Martina Franca, dove da qualche anno viene periodicamente a trascorrere le vacanze.

Le risate fragorose, la semplicità dei suoi gesti e il calore del suo sguardo fanno di Isabelle,  ragazza svedese dagli occhi blu, un’artista vicina alla gente, anche a quella che per nascita è molto lontana dalle tradizioni della sua terra. L’arte è la corda che congiunge le diversità, e seppur lontana chilometri di terra, prende forma sotto uno stesso cielo creativo ispiratore di bellezza.

08/07/2017

Sara Montorsi © Geophonìe

 

ISABELLE SIRELIUS, VERNISSAGE IN PUGLIA (08.07.2017)

aIsabelle 001Come non farsi rapire dai colori della Puglia per chi vive la passione della pittura? Isabelle Sirelius, già nella sua prima visita in Puglia ne rimase affascinata e decise di lasciarsi coinvolgere in un progetto che l’avrebbe vista all’opera con le sue tele e pennelli: dalla lontana Scandinavia alla Puglia, a Martina Franca, per sviluppare il proprio percorso artistico con nuove esperienze ed emozioni. La pittrice scandinava ha nel suo background riflessi di colori vibranti e solari e un’immaginazione che scaturisce da un suo personale mondo, fantastico e indipendente.

L’astrattismo di Isabelle Sirelius riproduce una realtà elaborata con la sua anima in perpetuo cammino e ci traghetta in luoghi di sogno e di delicata bellezza, aiutandoci a cercarci e a ritrovarci. La giovane pittrice svedese ha esposto le sue opere a Martina nel centro storico nel mese di giugno, coinvolgendo e appassionando i presenti. “Al 2018” – ha poi dichiarato, congedandosi – “la Puglia mi affascina, il prossimo anno sarò nuovamente qui con voi”.

08/07/2017  © Geophonìe

Isabelle Sirelius, Amore (2017)

Isabelle Sirelius, Tramonto (2017)

Note su Modern Times

Peppe per GeophonieDissertazioni tra “dylanani”, dopo l’uscita dell’acclamato album di Bob Dylan del 2006, dagli archivi del noto sito www.maggiesfarm.it.  Il commento-recensione di Giuseppe Basile: “Disco capolavoro? Quando i fans fanno i critici …”.

 

 

Avrei voluto scrivere questo commento prima di leggere la miriade di  recensioni e articoli che in questi giorni hanno invaso la stampa internazionale e il nostro sito. Ho cercato, infatti, di custodire dentro di me le prime sensazioni che l’ascolto di Modern Times mi ha procurato, di non subire l’influenza dei commenti, delle tante osservazioni che poi mi sono ritrovato a leggere (ma come potevo resistere?).

Questo mio tentativo di “blindarmi”, di non lasciarmi condizionare, volevo sostenerlo per cercare di cogliere l’effetto che un disco come questo avrebbe potuto sortire su un pubblico medio, su una vasta platea, non necessariamente dylaniana. Bob Dylan Modern Times CopertinaMentre lo esaminavo, già al primissimo ascolto, infatti, sentivo il bisogno di spogliarmi della mia conoscenza dylaniana, della mia “militanza”, perché avvertivo ormai che la mia passione per Dylan, il mio “studio” dei suoi dischi, finiscono talvolta col risultare ingombranti, tanto da impedirmi di esprimere un giudizio distaccato e sereno. Fateci caso: il nostro approccio a ogni nuovo lavoro di Dylan (parlo di tutti noi frequentatori del sito maggiesfarm) risente moltissimo di ciò che ciascuno si aspetta in relazione ai propri gusti personali, ai dischi più o meno amati, alle varie svolte artistiche di Bob che condividiamo o contestiamo. Il nostro punto di vista, insomma, scusatemi, è spesso “inquinatissimo” da quello stesso bagaglio di conoscenza e passione che se da una parte ci permette di capire Dylan meglio degli altri, al tempo stesso ce lo fa sentire “vecchio”, “ripetitivo” (perché fa delle cose che al nostro orecchio risuonano come note) o “poco originale”.

Dice ad esempio Paolo Vites, nella sua recensione su JAM di settembre, n.129/2006: “Modern Times è Love And Theft seconda parte: è impressionante come, con cinque anni di distanza e con due band diverse, Dylan sia riuscito a ottenere il medesimo sound fotocopia di quel disco”.  E’ un commento che mi colpisce, non tanto per la sua esattezza o erroneità (su cui si può discutere), quanto per la implicita delusione che trapela da quelle parole, dette da un conoscitore profondo che avrà anche gradito Love And Theft a suo tempo, ma che ora si aspettava qualcosa  di più o di diverso. Ebbene, proprio da questo tipo di reazione cercavo di prendere le distanze: non volevo farmi sopraffare dalle mie aspettative, dai confronti che mi vengono naturali all’ascolto di ogni nota, di ogni parola, con tutte le composizioni di Bob che mi risuonano in testa (…ahimè, ogni giorno! Stiamo peggiorando! E’ un periodo impegnativo per noi dylaniati, fra dischi, libri, DVD, sei concerti italiani …. insomma troppe sollecitazioni per i nostri già provati neuroni!). E chi non ha mai sentito Love And Theft, allora, che giudizio avrebbe di questo disco? Preso singolarmente, senza confronti,  che valore artistico esprime, quali sensazioni suscita? Ho inevitabilmente letto tutti i “nostri” commenti, anche quelli più personali (c’è chi mette in condivisione nel sito i propri sogni, ricordi e vicende specifiche), ma questa non è critica. La critica è l’approccio a un lavoro artistico che prescinde dai nostri gusti personali, dalla nostra mutevole disposizione verso l’artista o lo specifico genere musicale. E in questo tipo di critica ho provato a cimentarmi.

Il primo impatto con Modern Tines mi ha provocato sensazioni di “leggerezza”. Mi è parso subito un disco “leggero”, straordinariamente godibile, accessibile come nessun altro disco della carriera di Bob. Come ha infatti osservato la stampa, è un disco “old time”, dall’ “aria western”, “blues e retrò” (“è il Dylan più blues e retrò che sia mai capitato di incontrare”, dice Kataweb-L’Espresso-Repubblica), ha delle sonorità “vintage”, le sue ballate sono effettivamente “piacevoli e briose quanto il possibile repertorio di tanti mezzi cowboy che suonano music roots di vario tipo nei bar d’America”. Mi sono dunque lasciato cullare da queste sonorità così curate, così discrete, mai ostiche, proprio come quelle che ci si aspetta in un disco di roots folk destinato a un publico internazionale (perché un disco folk destinato agli amatori duri e puri del mercato interno americano, invece, è ostico eccome!), ma dopo i primi ascolti, dopo il calo dell’effetto sorpresa, mi sono fatto l’idea che il disco è suonato e cantato talmente bene che non ti accorgi (non subito) che la composizione in fondo è abbastanza ordinaria e prevedibile. Ho ripensato improvvisamente a Under A Red Sky, primo disco in cui Dylan sperimentava questa sua voglia di cantare da crooner in modo più disimpegnato, anche nei testi, lasciandosi trasportare dalla sua voglia estemporanea di suonare in libertà con tanti musicisti, vagando tra generi diversi. Fu un album criticato perché considerato carente di “spessore” (a me comunque piaceva). Modern Times è sicuramente diverso, molto più meditato (nel suo percorso di crooner Bob ha ormai rifinito il concetto che stava già coltivando allora: in Under A Red Sky, però, lo faceva in modo dispersivo, complice forse una produzione caotica, con troppi artisti da gestire e poca concentrazione sul progetto artistico complessivo che finì col risultare disomogeneo). Ho pensato, insomma, a un approccio simile da parte di Bob: che altro senso può avere,  infatti, riproporre uno standard trito e ritrito come “Rollin’ And Tumblin’”  se non quello di voler suonare e cantare da crooner in libertà,  senza altre pretese? (Il brano in questione lo interpretò anche Eric Clapton nel suo celebre Unplugged del 1992). La stessa impressione l’ho ricavata da “Someday Baby” e “The Levee’s Gonna Break”, brani piacevolissimi, sia chiaro (nel disco non c’è un solo momento che non sia gradevole e conciliante), ma privi di quella nota di originalità compositiva che normalmente ci si attende da Bob. Sono dei brani standard, divertenti, briosi, felici, con sonorità levigate, facili da digerire, ma che scorrono come un sottofondo discreto, non ti inchiodano alla sedia come una composizione tipica di Bob.

L’apertura del disco, con “Thunder In The Mountain”, accattivante, coinvolgente come sonorità, rimane anch’essa ancorata a questo concetto di folk western che scorre come una colonna sonora leggera. E “Spirit On The Water”, il secondo brano, prosegue su questa linea: gradevolissimo, dolce, “indulgente”, dicono alcuni (si parla di suoni carezzevoli che s´intrecciano in un caloroso abbraccio swingato che avvolge questo nuovo disco dall´inizio alla fine”), “struggente”. Tutto vero. I fans più esistenzialisti trovano comunque il Dylan che amano di più, cioè quello “di peso”, quello cantautorale, profondo e intimo nella sostanza, non solo suggestivo nelle sonorità. Ha ragione Michele Murino quando dice che “sono tre i capolavori del disco” : siamo tutti d’accordo, Workingsman’s Blues 2 è una ballata che ci porteremo dentro per un bel po’ di tempo, Nettie Moore è un brano di composizione assolutamente originale e complessa (più della stessa Workingsman, che invece scorre su un motivo più facile, accessibile, il tipico brano che arriva facilmente ai cuori di tutti, anche della gente comune meno incline alle cripticità dylaniane), e  Ain’t Talkin’ si staglia come il punto di vertice compositivo del disco e compensa col suo spessore la leggerezza dell’intero lavoro.

E’ un disco che venderà come nessun altro nella carriera di Bob, e le premesse ci sono tutte (stiamo assistendo alla conquista del primo posto in tutto il mondo in pochi giorni) … ma siamo oggettivi: anche certe critiche avventate hanno un fondo di verità. “E’ una rifrittura che mangi finchè clada, ma presto si fa callosa”, dice sempre Kataweb: senz’altro esagera. Ma dobbiamo rifuggire dalle esagerazioni anche noi. Il capolavoro è qualcosa di diverso. E se i capolavori di Bob non sono sempre finiti nelle top ten delle charts internazionali un po’ sarà anche questione di marketing, di fama costruita in questi anni col Never Ending Tour, DVD, biografia e pubblicazioni (Michele, perché dobbiamo negarlo?). Nella vita di un artista c’è anche questo, c’è il momento della raccolta dei frutti sull’onda di un apprezzamento generale che si costruisce anche su fattori esterni al disco. Il Tour di Bob è stata un’onda lunga che ha riportato il pubblico dalla sua parte, è notoriamente lo spettacolo più apprezzato al mondo, nonostante le scalette prevedibili, i musicisti non sempre brillanti sul palco, nonostante la voce e tutte le altre variabili di cui quotidianamente discutiamo. E’ chiaro che dopo una biografia di quella portata, dopo tanti show in piazze gremite in tutto il mondo, il pubblico avrebbe comprato il disco nella prima settimana proiettandolo su numeri da record. L’immagine di Bob è alle stelle da diversi anni, anche se in modo differente rispetto agli anni della celebrità massima. Quando sei a questi livelli di popolarità e di stima diffusa, è chiaro che il disco va forte (sarebbe andato fortissimo anche senza Nettie Moore, che è un brano fantastico, un vero brano folk ai massimi livelli).

Dobbiamo essere obiettivi. Lo spessore di questo disco non consente di avvicinarlo ai capolavori (“Oh Mercy” è un capolavoro, ha raggiunto dei vertici della composizione, è un disco pazzesco, perfino troppo grande; “Time Out Of Mind” è un capolavoro, un disco completo fatto di suoni fantastici ma anche di profondità compositive, “Highlands” è superiore alla Ain’t Talkin’ di oggi che pure è giusto celebrare; “Standin’ in The Doorway” è un macigno rispetto alla pur “struggente” Workingsman’ di oggi, “Love Sick” è una bomba di folk-rock , “Dirt Road Blues” è devastante, “Not Dark Yet”, “Cold Irons Bound”, ma la stessa “To Make You Feel My Love”, sono brani di una potenza che Modern Times non sfiora neppure). Diciamo allora che Modern Times è un lavoro splendido, è un lavoro straordinariamente godibile, che finalmente arriverà sino a quel pubblico easy listening che non è mai riuscito a digerire un artista tante volte ostico, perché universale, sì, ma non al primo ascolto (come McCartney che con una “Yesterday” arrivava subito al cuore di un’umanità intera, indipendentemente dalle diverse capacità culturali e recettive di ciascuno).

Dylan è sempre stato considerato (da noi per primi) un artista di difficile fruibilità, talvolta troppo intellettuale, troppo avanti, troppo evoluto per far breccia in un pubblico generalista. Questo disco riuscirà come nessun altro prima d’ora a dare al mondo una versione del folk nell’accezione più ampia di musica “popolare” e in questo, le sonorità western più standard agevoleranno l’impresa, specie laddove il gusto musicale “americano” è meno radicato, come  da noi in Italia. Ci riuscirà anche per la sua deliberata omogeneità stilistica, per quel cantare quasi sussurrato che non disturba, quel suonare soffuso che rende diverso questo disco rispetto al precedente  “Love And Theft” del 2001: quello era un disco più caleidoscopico, aveva una ritmica variabile (dal rockabilly al lounge jazz, dal rock di Honest With Me – qui del tutto assente – alla folk ballad di “Mississippi”), una vitalità diversa. Per questo motivo fu un disco che ha finito con accontentare alcuni e scontentare altri (c’è chi non gradisce le sonorità lounge jazz, chi non sopporta un rockabilly un po’ di maniera e che alla fine stanca … leggete Elio Rooster, che dice “non se ne può più di Summer Days”, etc.).

Anche questo disco, forse, tra qualche anno, ci sembrerà un po’ di maniera, forse dopo le prossime tournee, in cui vedremo la resa di questi brani sul palco. Va detto, infine, e per concludere, che le classifiche oggi non rispecchiano affatto i valori artistici in campo. Ho visto la classifica americana di Billboard, quella in cui Bob è al primo posto. Onore a Bob, ma vi prego, leggete i 40 nomi che ci sono sotto. Non c’è un artista decente nemmeno a pagarlo oro. Una pena. Quando uscivano i dischi folk (i “capolavori”, penso a “Subterrean Homesick Blues”, a “John Wesley Harding”, le classifiche dell’epoca erano da far impallidire qualsiasi produttore e artista e anche quei capolavori avrebbero fatto  fatica a imporsi in sette giorni, come è accaduto oggi a Modern Times).

Di fronte a un parametro così dubbio e squalificante come sono le classifiche di oggi, non ci conviene esultare troppo: quei capolavori restavano tali pur non riuscendo a scalare le Top Ten; quelli di oggi non lo sono per il fatto di essere in cima. Onore a Bob, comunque, e godiamoci, come sia, un disco che è senz’altro da vivere, anche se non ci cambierà la vita.

Giuseppe Basile © Geophonìe, 2006
Diritti riservati

 

 

 

 

King Crimson verso il Tour mondiale

Alla vigilia dei concerti americani, Marcello Nitti intervista brevemente Pat Mastelotto.

NY_65La band di Robert Fripp partirà da Albany (NY) il prossimo 9 settembre per una serie di concerti negli Stati Uniti a Filadelfia, Boston, New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco, Seattle: e la notizia lascia ben sperare per un prosieguo del tour sui palchi europei.

“Tutti i Crimson hanno espresso grande entusiasmo all’idea di un ritorno”, aveva dichiarato Robert Fripp  sul sito della band lo scorso autunno quando l’idea di una reunion era stata ventilata per la prima volta.  “Dati i notevoli impegni di tutti i membri ci vorrà un anno prima che i King Crimson siano in grado di realizzarla. Immagino ci limiteremo a un calendario circoscritto al mese di settembre 2014″ . E fedele alla sua parola, un anno dopo, Fripp ha reso note le date che sono ora in programma.

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Pat Mastelotto

Marcello Nitti ha provato a raccogliere qualche notizia in più da Pat Mastelotto, portentoso drumner statunitense ormai stabile nella band  dal lontano 1993.  I King Crimson, com’è noto, tra le band più innovative nella storia della musica del secolo, hanno dato vita a svariate fasi della propria incredibile carriera, restando sempre ai vertici assoluti della creatività e della sperimentazione sonora e compositiva.
Ogni metamorfosi del gruppo è stata caratterizzata da una line up diversa, e l’attuale formazione – che sarà l’ottava nella storia della band – vedrà questa volta sette membri, “quattro inglesi e tre americani, con tre batteristi. Si tratta di una configurazione diversa dei King Crimson rispetto a prima. Alcuni sono nomi familiari, forse più di altri”, ha dichiarato sempre Fripp alla rivista Uncut (1)

Quest’ultima  line-up  sarà composta da Fripp, Gavin Harrison, Bill Rieflin, Tony Levin, Pat Mastelotto, Mel Collins e Jakko Jakszyk. Sono tutti ex membri Crimson, tranne Rieflin e Jakszyk che sono stati coinvolti in progetti collaterali dei Crimson per alcuni anni. Rieflin ha collaborato con Chris Wong, Robert Fripp e Toyah Willcox in un progetto chiamato The Humans, mentre Jakszyk  ha realizzato nel 2011 il disco denominato A Scarcity Of Miracles, nella formazione trio “Jakszyk  Fripp & Collins”, ma con la collaborazione di Tony Levin e Gavin Harrison.

The Crimson Projekct

Photo © Jonathan Armstrong

Difficile, come sempre, intuire la direzione delle nuove sperimentazioni,  le mutazioni genetiche del Re Cremisi,  la costante ricerca del superamento del limite.

Mr. Mastelotto, starting a new KC adventure do you think is there finally the opportunity to say/play anything  you missed to do in this fantastic band?
The opportunity was, and still is, always there. Robert encourages the musicians in King Crimson to go where we haven’t gone before.

Have you anything straight in your mind about what you would like to experiment this time? Did Fripp ask in this time anything different from you?
No Robert has not asked anything new from me.  And Yes we have many new rhythmic adventures being planned for the three current king crimson drummers.

Do you think, inside of you, that to play in this band means to give the maximum creativity?
Yes.

The Crimson Projekct

Photo © Jonathan Armstrong

Which is a KC song from the 70’s that you would like to play live and you never did yet?
Great Deceiver, is a KC song I have always wanted to play and have suggested many times for Stick Men to learn it because I think it would play very well on Chapman Stick ….  perhaps next year?

With Jakko and with 3 drummers this could be easy to think that the band could be aggressively melodic and that maybe some songs from  70’s could be part of the 2014 set list. Isn’t it?
It is!

Would you like to realize a new KC album? Or at least more than one in the future? I don’t want to know if is already in the KC plans …. I want just to know if you would like that.
Yes I would like that very much!

The Crimson Projekct

Photo © Jonathan Armstrong

Fripp ha sostenuto  una disputa legale con la Universal Music Group per sei anni,  solo recentemente risolta, e per la quale  vennero interrotte le performance dal vivo. L’ultima esibizione pubblica della band risale al 2008, mentre Fripp dal vivo manca dal 2010.  “Ci sono piani” – dice sempre alla rivista Uncut  –  “per i nuovi King Crimson e per entrare in studio. Realizzeremo versioni  differenti di materiali dei Crimson . Ci saranno prove soprattutto in Inghilterra, e il lotto finale delle prove sarà probabilmente in America in agosto o settembre 2014.  C’è un progetto per includere il Regno Unito nelle date del tour, ma dipende da una serie di circostanze”.

Marcello Nitti © Geophonìe
2014. Diritti Riservati.

  1. http://www.uncut.co.uk/king-crimson-unveil-new-line-up-and-2014-tour-plans-news

ROCKSPEL: PROVE DI “GOSPEL IN ROCK”

www.rockspel.com

La band modenese, è alla vigilia della pubblicazione della propria prima fatica discografica, con cui finalmente dà alle stampe il frutto di due anni di sperimentazioni vissute on the road in Emilia e dintorni.

Riuscire a trasmettere un messaggio culturale in musica è impresa ardua. Specie oggi, tempi in cui il messaggio non è quasi richiesto, e la schiera dei musicisti che non ci provano nemmeno più cresce a dismisura.

Molti ormai suonano e basta, comunicano solo attraverso le note e le sonorità, e forse anche per questo difficilmente poi riescono ad elevarsi e differenziarsi dal magma, dall’orgia di suoni che ci avvolge rumorosamente.

Di musica in giro ce n’è sempre, e in abbondanza, più che in ogni altra epoca, e certo più del necessario. Ma di carisma, di magnetismo, sempre meno. Misteri della comunicazione.

Sfortunati i musicisti contemporanei, verrebbe da dire.

Negli anni ‘60 e ‘70 la ricerca del messaggio era così spasmodica che l’indagine sui significati finiva col travisare completamente il loro lavoro: se i contenuti e gli ideali erano carenti, o del tutto assenti, le intenzioni più improbabili le si andavano a ricercare anche laddove un artista non aveva neppure pensato di collocarle, nell’immagine di copertina di un disco, nel titolo “forse-volutamente-criptico”, nei versi, che venivano riletti e reinterpretati tra mille supposizioni, suggestioni e dietrologie.

La voglia di contenuti era famelica. Erano anni in cui la musica, oltre che forma di espressione artistica e prodotto commerciale, per molti era assurta a filosofia: se ne indagavano i significati più reconditi analizzando minuziosamente ogni traccia, cercando di carpire messaggi nascosti, stati d’animo degli artisti, ragioni e pensieri inespressi.

Il musicista, insomma, era una sorta di oracolo, e quel bisogno collettivo d’immedesimazione era tale da elevare la sua arte musicale sino a sovraesporla.

Oggi invece accade che se un musicista, oltre a suonare, si azzarda anche ad esprimere una qualche sua specifica idea, sulla vita e sul mondo, viene immediatamente percepito come invadente e importuno.

Perché dovremmo stare qui a sentirci una predica? Perché un musicista ritiene che a me, utente occasionale, possa importare qualcosa del suo punto di vista?

Ciò che in passato ci appariva un passaggio obbligato per gli artisti (costretti a dire qualcosa anche quando non avevano nulla da dire), oggi ci appare un gesto retrò, ridondante, non necessario, un’espressione di supponenza.

Non rendiamo allora un favore ai ROCKSPEL e al loro progetto se mettiamo sull’avviso il pubblico spiegando che la proposta artistica di questa band modenese è nata, e si è incentrata, partendo anzitutto dai contenuti. Se li presentiamo così, chi decidesse di andare ad assistere a un loro show potrebbe pensare di andare a sorbirsi una predica.

In realtà, si tratta essenzialmente di rock-blues, e di predica ce n’è ben poca. Anzi, troppo poca, perché per un progetto come quello che loro perseguono, qualche parola in più proferita dal palco ci starebbe.

E’ una strana alchimia, quella dei Rockspel, perché nasce da una storia originale che non siamo abituati a sentirci raccontare.

Una chiesa protestante carismatica di Modena, “Gesù fonte di acqua viva”, che fa capo al Kingdom Faith ad Horsham nel Sussex utilizza la musica come strumento cardine dei propri culti. Una funzione religiosa può ben arrivare a ricomprendere più ore di canto e di musica. “La nostra chiesa ha un palco predisposto per musicisti e cantanti”, dice Grazia Mimmo, lead singer dei Rockspel, “perché la musica nel nostro culto ha un ruolo assolutamente centrale. Si comincia con essa per lodare Dio e si continua utilizzandola come strumento di adorazione, sino a una comunione profonda con Lui. Al di fuori del culto la musica si utilizza anche come veicolo di evangelizzazione”

Sembra un’ambientazione da film americani, superficialmente ti verrebbe da pensare alle caricaturali performance dei Blues Brothers, e a tutti quegli Halleluja che i grandi rockers degli anni 50 e 60 proferivano dal palco al termine di ogni indiavolata canzone, tra ancheggiamenti, piroette, balli scatenati e cori. Ma quelle sono note di colore tipicamente cinematografiche, la realtà non è certo così. Vero è che nelle chiese protestanti le proposte musicali sono più “disinibite” e libere da cliché, con modalità magari più varie rispetto alla cantata piatta e da sottofondo delle chiese cattoliche, talvolta con maggiore ricerca sonora e vocale e diverse influenze. “Nei nostri concerti facevamo gospel classici”, continua Grazia, “e quindi, anche se questo ci consentiva di esibirci in giro, d’altra parte però ci limitava alla sola frequentazione di certi circuiti, teatri, piazze, in periodi dell’anno particolari come a Natale, e sempre nell’ambito di manifestazioni specifiche”. La musica che si produce nelle chiese protestanti, infatti, è per sua natura più esportabile, più votata all’esterno, di solito è anche più godibile dagli utenti: ma se resta solo nell’ambito del gospel classico rischia di svilupparsi secondo schemi abbastanza fissi e ripetitivi.

Avevamo voglia di proporre e suonare musica cristiana”, spiega allora Valerio Corvino, batterista e coniuge, “ma per entrare in un circuito diverso, quello dei pub e dei club, per introdurre il nostro background gospel dovevamo rielaborarlo in un linguaggio musicale adatto a questo tipo di posti e di pubblico. Abbiamo sempre cercato uno spazio rock blues per la nostra comunicazione artistica: è stato così che abbiamo deciso di portare il gospel sulla nostra strada”.

Il gruppo si forma a Modena nel 2009 e gravita nell’orbita della Contemporary Christian Music, movimento socio-musicale di respiro internazionale poco presente nel panorama italiano.

Nel mondo anglosassone il tema religioso è preponderante nei contenuti, nei testi e nell’ispirazione musicale: si parla di Dio senza inibizioni”, continua Grazia. “Un musicista spagnolo mi fece notare come nel mondo neolatino sia rarissimo che un autore affronti apertamente temi religiosi. E mi raccontò di aver avuto successo con un brano in cui parlava di amore per Dio, senza però mai nominarlo. Il brano sembrava scritto per la sua ragazza, questo perché nei circuiti musicali commerciali del suo Paese nominare Dio costituiva una sorta di tabù”.

I Rockspel, insomma, decidono di portare sul palco composizioni rockettare ma d’insospettabile vena religiosa e di ambiente gospel, divulgando nomi e storie a noi lontane.

Il loro è uno spettacolo che narra un’evoluzione, un viaggio.

When The Saints go marchin’ in” – suonata dai Rockspel a ritmi forsennati con chitarre lancinanti tali da destrutturare il brano – “era una composizione usata nei funerali jazz di New Orleans a fine ‘800 e riprende molte delle sue immagini dall’Apocalisse di Giovanni”, spiega Grazia. “La presenza di segni cosmici citati nel testo (il sole che smette di brillare, la luna che si muta in sangue, le stelle che cadono, ecc.) anticipa il ritorno del Messia. Il rito della sepoltura è dunque il luogo più adatto per celebrare la fede nella risurrezione e nell’instaurarsi del regno di Cristo, così al dolore per la scomparsa dell’amico, si associa la gioia per il suo avere raggiunto la propria casa nel cielo e il desiderio di condividere la stessa meta”.

Viaggiamo sulle orme di coloro che prima di noi se ne sono andati
Ma saremo riuniti in una spiaggia nuova e soleggiata
Qualcuno dice che questo mondo di problemi è il solo di cui abbiamo bisogno
Ma io sto aspettando, sì io sto aspettando il mattino
In cui il nuovo mondo sarà rivelato.
Oh quando i santi marceranno
Oh quando i santi marceranno
Oh Signore io voglio essere dei loro
Quando i santi marceranno

I contenuti religiosi del brano perdono d’intensità già nella versione storica di Louis Armstrong, che con la sua allegra interpretazione vocale e trombettistica ti distoglie dal senso del testo. I Rockspel fanno anche di più. La loro è un’interpretazione dark rock, con cambi di ritmo, lente atmosfere intervallate a momenti di noise chitarristico che, anzi, forse restituiscono al testo un pathos quasi assente nelle versioni in stile New Orleans. La religiosità, attenuata dall’interpretazione americana in forma di allegra marcetta, qui non si coglie nemmeno più, se non ci fossero le parole di Grazia Mimmo a restituirci i contenuti del brano. “La sezione lenta è quella che riporta una sorta di riflessione esistenziale sul significato della vita terrena per un cristiano. Il ritornello assume invece un ritmo incalzante che nelle nostre intenzioni vuol quasi esprimere il desiderio di costringere i tempi ad abbreviarsi, per poter “marciare coi santi”, al di fuori ormai della dimensione terrena stessa”.

La Contemporary Christian Music in fondo è proprio questo: una forma di comunicazione attraverso linguaggi sonori liberi e attuali. Non c’è alcun disagio negli artisti americani di questo movimento a mutuare stili e forme espressive dei giorni nostri, anche le più commerciali e scontate, per esprimere concetti religiosi. I suoni, infatti, sono tipici delle produzioni odierne: circostanza, questa, che un po’ fa storcere il naso a chi per cultura e sensibilità religiosa è abituato a non mescolare tanto facilmente argomenti religiosi a sonorità da spot televisivo.

Per capire occorrerebbe un rapido ascolto.

Rebecca Saint James, ad esempio, è la tipica ragazza della provincia americana, jeans, camicia bianca e gilet, che canta temi religiosi: lo fa con uno stile assolutamente pop-rock e con i suoni che siamo abituati a sentire nel pop commerciale di oggi. Può assomigliare alla nostra Elisa dei suoi primi dischi, non tanto vocalmente, ma talvolta, forse, per il tipo di sonorità (o di produzione).

God Help Me”http://www.youtube.com/watch?v=huyHrNxfu3Y

I Will Praise You” – https://www.youtube.com/watch?v=EYBvrAAN5o0

Breathe” https://www.youtube.com/watch?v=tTI8HpyDbeE

Alive”http://www.youtube.com/watch?v=vdw5cvj5aws

Gli Switchfoot sono invece una band più marcatamente rockettara, con i suoni roboanti del post grunge e le vocalità dei musicisti di questi anni. A un primo superficiale ascolto la voce del leader talvolta rievoca il cantato di Chris Martin dei Coldplay, talaltra fa pensare agli Oasis e ai Radiohead, e le sonorità sono una mescolanza di pop-rock del trascorso decennio

Always” – http://www.youtube.com/watch?v=gUV6z_uUpQM

Only Hope” http://www.youtube.com/watch?v=xWvtqFddh8k

Afterlife”- http://www.youtube.com/watch?v=j6z-H3_hgEU

You” – http://www.youtube.com/watch?v=qYAAAr5-qkw

I Dare You To Move” http://www.youtube.com/watch?v=nsSR4VrmsRY

Dark Horses” – http://www.youtube.com/watch?v=5_5oE0ijhKg

Meant To Live” – http://www.youtube.com/watch?v=632skZgCTJU

Questa band, obiettivamente, incuriosisce per la varietà dei temi religiosi che affronta. Nel brano “Something More” riesce a mettere in musica nientemeno che le confessioni di Sant’Agostino. Non so perché qui in Italia siano viste come un mattone per eruditi”, dice Grazia “mentre invece i giovani cristiani anglosassoni ne fanno un punto di riferimento”.

Something More” – http://www.youtube.com/watch?v=EKgxMl1-hXs

Lascia stupiti il modo disinvolto e diretto con cui questi artisti parlano di certe tematiche, con un linguaggio per noi persino troppo semplice, tanto da apparire superficiale e scontato, per quanto sincero. “Ma questo è un problema comunicativo tutto nostro, tutto italiano”, continua Grazia. “In Italia Celentano riuscì a cantare “Pregherò” perché aveva una casa discografica sua. Da noi non si usa parlare così. Ti viene in mente qualche canzone esplicitamente religiosa nella musica italiana?”.

Jeremy Camp invece si attesta tendenzialmente sullo stile della ballata rock, più intimistico anche come sonorità. Leggendo sul web scopriamo che si tratta di uno dei più premiati musicisti della Contemporary Christian Music, con successi commerciali di enorme portata nel mercato interno americano, numerosi hits, nominations ai Grammy e riconoscimenti.

Take my Life” http://www.youtube.com/watch?v=pReDCK5OjME

My desire” http://www.youtube.com/watch?v=tMHH-Lvv5K8

The Way” http://www.youtube.com/watch?v=f5CF9OJRKkA

Michael Sweet

Michael Sweet, invece, è più tradizionale nel suo rock blues tipicamente americano. Il suo brano “Ticket To Freedom”, che i Rockspel spesso eseguono come cover, ha il profumo rievocativo di stili “classici” alla Creedence Clearwater Revival (nella loro celebre “Proud Mary”), Steve Miller Band, Allman Brothers Band. I Rockspel illustrano il contenuto dei suoi testi e spiegano che il biglietto per la libertà è la Fede, quella che ti consente di intraprendere il viaggio.

Fai le valigie andiamo via
Forse domani, forse oggi
Sto venendo per te
Conosco un posto che è unico nel suo genere
E’ lontano, ma facile da trovare
Ho pagato in anticipo, c’è solo una cosa che tu devi fare
Vai alla stazione e dì loro
Che stai ponendo la tua fede in me
Dì loro che hai aperto il tuo cuore
Digli che credi, allora avrai ciò che ti serve
E se la vuoi, devi prenderla
Perché senza di essa non ce la farai
Meglio sbrigarsi, stiamo partendo
Prendi il tuo biglietto di sola andata per la libertà
Ho lavorato tutti i giorni
Costruire una casa dove voglio stare
Sangue, sudore e lacrime sono andati in ogni fotogramma
Su un’alta collina così lontana
L’atto è in tuo nome e il mutuo è pagato
Pagato in anticipo, c’è solo una cosa che devi invocare
Niente accade facilmente
Niente nella vita è gratuito
Ma ti darò qualsiasi cosa
Se mi amerai incondizionatamente

Le cover sono utili al nostro spettacolo”, dice Valerio, “servono a introdurre dei brani composti da noi, ma non sono uno specchietto per le allodole: ci aiutano anche a narrare un’evoluzione e un viaggio di un genere musicale che ruota intorno ai testi e che attraversa stili fra loro diversissimi”.

Il vero problema è trovare la collocazione giusta per il nostro tipo di spettacolo”, conclude Grazia. “Bisogna tenere conto degli spazi disponibili, delle aspettative dei locali che ci ospitano, e ovviamente del pubblico. A volte non c’è la possibilità di parlare quanto davvero occorrerebbe, e quindi si fa fatica a spiegare adeguatamente il nostro progetto”.

Non si può, insomma, degenerare nel concerto “didattico”, in una sorta di saggistica.

Comunicare, però, talvolta aiuta, specie ora che nessuno lo fa. E chissà che non sia proprio questo narrare a fare la differenza, e a suscitare quella curiosità che oggi, un pubblico pigro e sazio, non avverte più.

Stiamo preparando la nostra prima uscita discografica per Natale”, dicono i Rockspel (Emilio Pardo, napoletano, chitarra; Alberto Berna, torinese, chitarra; Paolo Tavernari, modenese, basso; Grazia e Valerio, originari di Foggia, voce, batteria e percussioni). “Rispecchierà un po’ i nostri concerti, con una sintesi del lavoro svolto sinora, ma limitatamente ai Gospel tradizionali riarrangiati nel nostro stile. Per il live invece stiamo sperimentando momenti acustici e nuove idee. L’unico problema è il tempo a nostra disposizione, sempre tiranno”.

Approfondimenti:

I Rockspel: http://www.rockspel.com/

Kingdom Faith ad Horsham: www.kingdomfaith.com

Altra band di riferimento sono i Salvador, musicisti di stampo prevalentemente funky latino. La loro “Shine” è un brano che si lascia maggiormente andare alle sonorità pop.

Salvador, “Shine”http://www.youtube.com/watch?v=T0LxeHkELAU

I Petra hanno fatto la storia della contemporary christian music e sono considerati un emblema più che trentennale del rock cristiano. “Enter in” è vangelo “zippato” in un brano rock.

Petra, “Enter In”http://www.youtube.com/watch?v=wZs-tHDawb4

Altro tributo imprescindibile va ai DC Talk, trio che parte nel 1987, conquistando grammy awards come rock band cristiana, ed esportando le proprie proposte oltreoceano, Italia compresa.

DC Talk,“Consume Me”http://www.youtube.com/watch?v=ZnmgH00mD5o

Interessanti anche i loro esperimenti di fusione con l’hip hop.

DC Talk, “Jesus Freak” http://www.youtube.com/watch?v=lYH9FUfCKPI

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IL SOLCO ROVENTE DI UNA GENERAZIONE. Piccoli appunti sugli scritti di Carlo Amico

Di Mario Desiati

Mario Desiati presenta "Dolceamaro", Teatro P.Turoldo 29.12.2013

Mario Desiati presenta a Taranto “Dolceamaro”, Teatro P.Turoldo 29.12.2013

C’era una volta, un ragazzo. Jack era il suo nome; un nome come tanti penserete. Ma lui non era come tanti, o no. Era diverso da chiunque conoscesse, forse addirittura da chiunque altro abitasse sulla Terra. Perché mai direte voi: forse per via del carattere, o del fisico. E poi come fa una persona a essere radicalmente diversa? Lo è nell’anima: in questo caso nelle anime. Perché in Jack vivevano due anime, due lati completamente distinti…

In questo incipit del primo racconto che apre la sezione centrale della raccolta che state per leggere, ho provato a sostituire il nome Jack con quello di Carlo e ho forse capito solo allora quanto vario e potente fosse questo libro. Quante anime contenesse il volume e anche il suo autore.

Un pomeriggio d’estate entrò nella mia vita la scrittura di Carlo Amico. Fui contattato dalla madre Mariella che in una gentile e asciutta mail mi donava l’onore di leggere gli inediti del figlio scomparso lo scorso novembre.

Nelle righe che seguono ho provato a ripercorrere alcuni punti salienti della produzione letteraria di Carlo Amico. Per farlo mi sono lasciato guidare dall’emozione, soprattutto nella parte filosofica dove non ho le necessarie competenze per poter esprimere un adeguato parere sul valore degli scritti, posso però con certezza condividere con chi si incamminerà nelle pagine che seguono, delle piccole illuminazioni che ci fanno arrivare quanto a meno a sfiorare alcune delle mille anime del suo autore.

Quanto alla poesia e al racconto, leggendo il file degli scritti ho scoperto la voce di uno scrittore vero, e se dovessi inserirlo in uno schema direi che si tratta di quella linea letteraria pugliese che da trent’anni ahimè caratterizza alcune delle nostre voci più potenti. Quella che chiamo “I sentieri interrotti”: comincia da Stefano Coppola, passando per Salvatore Toma, Antonio Verri, Claudia Ruggieri e arriva a comprendere oggi anche la voce di Carlo Amico. Autori che non hanno avuto modo di esprimersi nelle loro massime potenzialità, ma che nella loro giovinezza prima di essere colti dalla morte prematura hanno mostrato un sintomo di grandezza.

Grazie alla scrittura i poeti continuano a vivere anche quando non ci sono più. È una delle regole auree, una massima che aleggia dentro l’uomo che spesso nei maggiori momenti di conflitto e attrito affida al simbolo il segno di un messaggio…

Se dovessi giocare con un luogo comune che indica i poeti con l’anima candida dei bambini e i filosofi con l’anima temprata dei vecchi, affiderei a Carlo Amico il riassunto di questa massima. Carlo Amico è andato via a vent’anni, ma aveva nel cuore due spiriti, l’innocenza di un bambino “che chiede cos’è la guerra” e la saggezza di un anziano barbuto che ascolta i suoi simili nell’agorà.

Esemplare nel senso di tale dualismo i versi che seguono: i bambini la sanno più lunga,/sanno che Babbo Natale non si vede/perché non c’è, o almeno lo sapranno./E poi che furbizia è mai questa?!/Se si vive di menzogne, vanno credute vere!/Son d’accordo con voi: si vive meglio/con l’aiuto di sogni e fantasie,/salvano dalla pazzia della ragione./Ma non è peggiore la malattia/di chi è sveglio e procede nel buio/per fingere la notte?

Gli scritti di Carlo Amico si articolano in due parti che rappresentano la personalità intellettuale dell’autore che andava facendosi. Il poeta-narratore e il saggista. Nella parte poetica si mostra la voce più malinconica, echi romantici e un lirismo che si mischia con una tensione narrativa come parte della poesia dei trentenni di oggi quali Massimo Fantuzzi, Gilda Policastro o certe prove di Marco Giovenale.

Estendo qui di seguito una poesia piuttosto significativa per dimostrare il lavoro di Carlo Amico orientato a dare nella poesia più narrazione possibile.

Per coloro che aspettano nella pioggia,
la propria ragazza venire;
per le donne che sopportano ogni cosa,
solo per essere chiamate “mamma”;
per il bambino che guarda lo schermo
e chiede: «cos’è la guerra?»
per due amici che litigano in macchina,
che sanno quanto poco durerà la tempesta;
per colei che sogna e piange,
aggrappata a poche strofe;
per colui che, parlando al suo cuore,
contro la moda, legge e scrive d’amore;
per tutti questi è il mondo, la vita
per chi durante il temporale vede solo le stelle
giocare a nascondino.

Il processo metrico di questi è oscillante, c’è una scelta precisa, Amico alterna dodecasillabi a ottonari, tranne alla fine quando la sua tensione narrativa diviene evidente. Ho scelto questa poesia perché oltre a compiere apertamente alcune sperimentazioni stilistiche, l’anafora “per”, le allitterazioni, una messe di doppie t che rende la lettura ad alta voce volutamente dura, dalla musicalità aspra.

Eppure Amico ha una vena lirica e dolce che nei frammenti narrativi presenti in questa raccolta viene fuori in modo limpido.
C’è un pezzo che fa tremare il cuore ed è tratto dal racconto “Ultimo viaggio”.

Le ore trascorrono lente e tranquille, camminando in mezzo alla natura. Gli alberi larghi e frondosi, le piante e i fiori odorosi di una nuova primavera e persino il ronzio laborioso degli insetti accolgono il forestiero nel loro regno. Jean si inoltrava in questa festa di colori e rumori soffusi, aspirando a farne parte. «È come toccare la libertà, ne sento persino il profumo: qui non esistono leggi, né follia: esiste solo il rispetto, un sottile gioco di vita e di morte che sopprime qualcuno, è vero, ma permette la felicità di tutti. Una società inconsapevole, viva senza bisogno di sapere perché». Benché non fossero altro che pensieri, Jean ebbe l’impressione che le sue parole avessero pervaso ogni resina, ogni foglia bagnata dalla rugiada, ogni filo d’erba asciugato dal sole, colpendone il cuore più intimo. Era il paradiso, ma anche questo ha le sue regole: il sentiero si fece sempre più angusto e impraticabile, obbligando Jean a usare tutte le sue forze e una certa parte di violenza per poter proseguire. A mezzodì, sbucò in una valle rigogliosa attraversata da un fiume, le cui acque sembravano aver strappato il colore agli zaffiri più puri. Poche decine di case in pietra viva risaltavano fra la natura lussureggiante: per quanto piccola, la presenza umana disturbava l’armonia.

Jean potrebbe essere uno degli alter ego dell’autore. Il protagonista del racconto ha trascorso una vita in serrato dialogo con padre Alfred, un sacerdote che ha un rapporto tormentato con la teologia e la pedagogia, ma ne espone i principi. In lui cerca, ma non trova il padre spirituale che lo possa guidare ad alcuni segreti della vita. La filosofia gli spalanca dei mondi nuovi (e sulla parola mondi nella partitura di Amico ci tornerò avanti). Il suo compagno di avventure e speculazioni è Massimo e a lui confida la necessità di un viaggio; bellissima la risposta di Massimo alla raccomandazione di Jean di non mettersi nei pasticci. “E tu invece vedi di cacciarti nei guai.”

I guai.

Perché il posto di Jean è nel vortice della vita, al centro troverà quella foresta che nasconde la valle rigogliosa attraversata da un fiume le cui acque hanno il colore degli zaffiri. La pace e le serenità dell’acqua, la terra, la natura è il sentimento della grazia che mette ordine alla potenza del fuoco solare che ha guidato il cammino di Jean nell’intricata foresta fatta dalle sue parole.

“Stare al mondo” è una delle ossessioni di Amico ed è in questo racconto che si nasconde una chiave segreta per poterlo spiare da uno spiraglio, più avanti infatti scrive ne “Il libro chiuso”: la filosofia, e la cultura umanistica nel suo insieme, ha il compito di educare la società proponendole strade sempre coerenti e sempre nuove per permetterle il suo ultimo scopo: sentirsi a casa nel mondo.

E il mondo di Amico era continuamente innamorarsi delle cose più semplici, a cominciare dai valori che ne facevano un uomo impegnato nella società civile, lui candidamente ammette: Per coloro che aspettano nella pioggia,/ la propria ragazza venire;/ per le donne che sopportano ogni cosa,/ solo per essere chiamate “mamma”;/ per il bambino che/ guarda lo schermo/ e chiede: «cos’è la guerra?»… ho immaginato Carlo quel bambino che guarda lo schermo e chiede cos’è la guerra, e che col tempo ha tenuto quell’atteggiamento autentico e schietto, come quello che hanno i bambini.

In questo tempo di alluminio e falsità,/marciamo come bambini,/aggrappati a colonne, fredde – scrive l’autore, in una poesia senza titolo che inizia con proprio questi versi. Ecco un frammento dell’anima pura dietro i testi raccolti in questo libro, l’anima pura è quella dei ragazzini che vedono nelle cose sempre un mondo ulteriore, che sanno dare peso al simbolo, ma soprattutto che hanno le pagine bianche dell’innocenza.

L’innocenza è la virtù della poesia, guardare le cose con l’energia dell’infanzia, con la visionarietà che si ha da bambini, dare alle cose che appaiono un tratto simbolico, andare oltre l’apparenza. Un vero poeta è un bambino dentro, ma anche un vecchio signore che sa come mantenere il contegno, non scomporsi e vivere l’inferno dentro come al termine della poesia “Epitaffio per un filosofo” scrive: Voi che avete da vivere,/ ascoltate il consiglio di un vecchio:/ vivete e godete, amate il prossimo e il mondo,/e avrete fra le mani la profonda ragione dell’Essere.

 Nella parte più romantica, Amico diviene nostalgico, a volte brillante e sentenzioso come in questo verso secco che si apre all’ipotesi di un amore che ha a sempre a che vedere con la propria più intima eccezionalità: ti amo, perché sei ciò che non sono…

Questo verso mi ha commosso e credo commuova chiunque perché parla di un suo amore e universalmente dei nostri amori. Non c’è dubbio che qui centri l’insegnamento platonico, nessuno capirà cos’è la filosofia se non parte dall’amore.

Ma l’amore che presuppone quel verso, è un amore non identitario, è l’amore. Ciò che è diverso è uno scambio e una crescita. È un’idea che si avvicina ad alcune teorie lacaniane come quelle di Badiou che contesta la logica dell’identità, l’amore è minacciato per definizione, poiché si mettono in questione la sua inclinazione per la differenza, la sua dimensione asociale, il suo lato indomito, persino violento. La ricerca di un amante simile a noi. E ribaltando al contrario il verso di Carlo Amico, innamorarsi dell’altro in quanto simile a noi. Tralasciando la deriva narcisista di un simile comportamento, si tratterebbe di un amore arido, senza prospetto. E invece Amico è in un solco opposto, come quello di Badiou che nell’Elogio dell’Amore scrive: “E si farà propaganda a favore di un “amore” in tutta sicurezza, perfettamente in linea con le altre pratiche secu-ritarie. Di conseguenza, difendere l’amore in ciò che ha di trasgressivo ed eterogeneo rispetto alla legge è un compito molto attuale. Nell’amore, come minimo, ci si affida alla differenza anziché sospettarne. La reazione, infatti, impone sempre di diffidare della differenza a favore dell’identità: è la sua massima generale. Se invece vogliamo aprirci alla differenza e a ciò che essa implica, ovvero a che il collettivo sia capace di estendersi al mondo intero, una delle esperienze individuali praticabili è la difesa dell’amore: al culto identita-rio della ripetizione è necessario contrapporre l’amore per ciò che è diverso, unico, per ciò che non ripete nulla, che è erratico e straniero. Nel 1982 scrivevo in Théorie du sujet: «Amate ciò che non vedrete mai due volte».”

Nel libro di Amico aleggia l’inquietudine, a volte il pessimismo e la rabbia, ma una rabbia pericolosa solo per se stessi che non farà mai male a nessuno. Per esempio quando nel libro sembra raccogliere in una strofa la tragica profezia che vuole avverarsi, ma viene fatto con una semplice e sottile evocazione, senza esplicitare il male di vivere:  È ora di andare, lo dico da tempo./Imbocco nuove strade,/incontro anime sempre diverse,/sullo sfondo paesaggi mai visti.

Sulla parte filosofica e marziale del libro andrebbe detto che si manifesta un pensiero filosofico che a una prima definizione potrebbe evocare il pensiero di Carlo Michelstaedter e per le stesse ragioni, con eguale rovello, si libera il potenziale di tragicità dell’esistenza, attraverso violente contrapposizioni concettuali (nell’unica opera di Michelstaedter era sin dal titolo questo dualismo: “persuasione-rettorica.”)

copertina retro bianco e neroIn uno dei suoi microsaggi Amico scrive: un incontro tra due personalità è sempre uno “scontro”, nel senso che non possono mai comunicare direttamente, ma attraverso dei filtri quali il linguaggio verbale e non verbale, i quali a loro volta contengono schemi concettuali e ideologici che fungono anche loro da “lenti” per la comunicazione. Per quanto tutto ciò possa apparire scontato, le conseguenze logiche non lo sono affatto.

All’interno della parte filosofica del libro si trovano riflessioni e ragionamenti che vista la giovane età del suo autore , sono ancora in fieri, scrive lui stesso a proposito: Queste pagine racchiudono ragionamenti, non lezioni. Centinaia di avvenimenti, esperienze, incontri e scontri mi hanno portato, oltre che qualche notte insonne, anche riflessioni e pensieri sul mondo, sulle persone, semplicemente su ciò che di volta in volta mi capitava. Pensieri che ora, con fatica, trascrivo…

Eppure ci sono tracce importanti di originalità come la riflessione sulla libertà di pensiero e la libertà d’azione. Carlo Amico parte dal presupposto che la libertà d’azione non potrà mai essere assoluta, proprio perché recintata da ostacoli fisici, “non è possibile compiere 2000 chilometri a piedi in 20 minuti”, scrive. Ma anche la libertà di pensiero ha i suoi confini ed è condizionata dalla memoria, le reazioni ai fenomeni della vita e le sue scoperte.

Carlo Amico è un solco infuocato nel cuore della sua generazione, nelle sue parole c’è disagio e profondità, conflitto e poesia, ma anche una speranza insondabile nei confronti della bellezza e della scrittura che arde come lui racconta in questi bellissimi versi:

Ancora brucio, brucio,
come un incendio nella notte più buia;
vado a fuoco, mi convinco che non è così.
Ma non è fumo,
è il profumo più dolce, dimentico tutto;
non sono più, non amo, non soffro.
Non so. È un attimo.

ROCKSPEL, ALBUM DI ESORDIO

finestrapoisonCon “Niente paura Joshua”, realizzato con Geophonìe, la street-band modenese giunge al suo battesimo discografico e introduce la Contemporary Christian Music nel panorama musicale italiano.

Hanno scelto l’Associazione Culturale Geophonìe per autoprodursi, e dopo diversi mesi di artigianale passione domestica, “passione” autentica, intesa come “fatica e tormento”, hanno dato alla luce il proprio primo disco. Nello studio di una casa discografica sarebbe stato tutto più semplice, col conforto e l’ausilio di tecnici del suono specializzati, consulenti e interpreti. Ma i Rockspel sono una street-band che non bazzica i circuiti ortodossi, suonano se e quando hanno qualcosa da dire e da trasmettere, senza contratti, impegni e condizioni. Fedeli a questo approccio, anche l’urgenza del disco, della sua realizzazione e pubblicazione, è stata vissuta con un impegno tutto proprio, assecondando gli slanci e i tempi nei quali certi impulsi emergono, chiusi tra quattro mura quando si può, col sole o le nebbie fuori dalle finestre, dopo il lavoro, la sera, o a prima mattina. Fare tutto da soli è un limite, ma è anche un’opportunità, un’avventura. Per certi versi è una crescita. La produzione, quella vera, costruisce immense sovrastrutture a supporto dei musicisti, li sostiene, talvolta li “sorregge”, nel senso che crea dei valori aggiunti attorno al prodotto, gonfiandolo, arricchendolo, portandolo al di là delle oneste intenzioni e delle reali capacità degli artisti. Così operando, le sorprese possono essere clamorose, ma la sostanza reale di un prodotto o di un autore la si riscontra poi dal vivo, dove non si può bleffare.
Il disco dei Rockspel non avrà certo quei valori aggiunti apportati da illuminati tecnici e arrangiatori o consulenti del suono, ma per questo ha il pregio di fotografare la band per ciò che è realmente, senza finzioni, camuffamenti e forzature. Un disco onesto e vero, un’istantanea della band ad oggi.
Il lavoro si inquadra perfettamente nella concezione artistica della Contemporary Christian Music, in cui si pensa ai contenuti, e in cui la sonorità prescelta per rappresentarli ed esprimerli è solo un vestito, un abito da indossare senza troppe pretese.
I lavori di Rebecca Saint James, degli Switchfoot, di Jeremy Camp, di Michael Sweet, girano intorno ai testi e si avvalgono di atmosfere di volta in volta pop, country, rockblues tradizionale, eccetera. Ascoltando i loro dischi ci si imbatte in sonorità già sentite, in schemi musicali già noti. Un ascolto limitato alla parte sonora, che non colga la fusione dei suoni con quei testi, rischia di produrre un giudizio riduttivo e quindi incompleto di questi lavori. Se però si decide di fare uno sforzo in più, e si prova a recepire il messaggio complessivo anche attraverso i testi, ci si accorge che l’espressione musicale nel suo complesso non è affatto scontata, come forse ad un primo superficiale approccio potrebbe apparire.
Ebbene, il disco dei ROCKSPEL merita di essere compreso proprio con un siffatto approccio. E’ un disco di traditionals, totalmente rielaborati in un rock dalle sonorità ben conosciute. Se si saltasse il passaggio della lettura dei testi (elegantemente riportati nel booklet interno, in lingua originale inglese e nella contestuale tradizione italiana) si andrebbe sicuramente fuori strada nell’opera di comprensione del lavoro. Se invece a questa lettura ci si presta, le stesse sonorità ne guadagnano, sino a risultare persino inedite, perché armoniche, e in originale sintonia con questi testi. Si tratta di nove brani con cui i ROCKSPEL esternano la propria attrazione per lo Spirito che animava il popolo degli schiavi afroamericani.
lenzotti12b-light“La scelta del repertorio non è stata dettata dalla passione del gospel in quanto genere musicale in sé”, si legge nelle note di copertina. Ciò che la band vuole rievocare è quella spiritualità che teneva unito quel popolo. “Gli schiavi leggevano la storia del popolo ebraico raccontata nel Vecchio Testamento, come un’anticipazione del destino del popolo africano in esilio”.
Il Gospel e gli Spirituals, dunque, erano un mero veicolo, per realizzare quella unità. Come lo è oggi il rock per questa band, che tra i suoni Fender elettrici di Emilio Pardo e Valerio Corvino, e quelli acustici di Alberto Berna, ti parla di Mosè ( “Go Down Moses” ), della guerra per la conquista di Gerico ( “Joshua fit The Battle Of Jericho” ), e della “terra promessa”, ma agli schiavi afroamericani, e poi loro negata ( “Nobody Knows The Trouble I’ve Seen” ).
L’esordio dei ROCKSPEL è di sicuro impatto culturale. Un’operazione di valorizzazione e recupero di brani noti e meno noti, ma di cui pressochè sempre si è ignorato il vero contenuto e la profonda sostanza storica. Come “Oh Happy Day”, o come “Oh When The Saints Go Marchin’ in”, rimbalzati per decenni tra spot pubblicitari, documentazioni televisive d’epoca e rielaborazioni di ogni genere. Sono brani che i ROCKSPEL ripropongono, ma offrendoci anche ‘pillole’ di storia inedite e nuove visioni sonore.
Di sicuro impatto anche l’interpretazione di Grazia, lead singer della band intorno a cui si stringe il gruppo per valorizzare il suo particolare timbro vocale. “Since I Laid My Burden Down”, da lei cantata con modalità differenti rispetto agli altri brani del disco, conduce il gruppo su itinerari sonoro-mentali non-rock, ma di pura atmosfera, tra un dream-pop à la Cocteau Twins e atmosfere astrattamente trip, lente, anni ’90, a dimostrazione di una versatilità senz’altro apprezzabile.
“Niente Paura Joshua”, dunque, opera prima dei ROCKSPEL su disco, può consegnarsi al mercato come prodotto assolutamente gradevole, godibile, di buon gusto, equilibrato anche negli stimoli culturali che infonde, in modo discreto, a piccole dosi.

giuseppe basile © geophonìe
Riproduzione riservata

LA COLLEZIONE DE SIATI: UN PATRIMONIO DELLA FOTOGRAFIA

Gli Archivi fotografici di Paolo De Siati rappresentano la più ampia e organica raccolta esistente di immagini della Taranto del ‘900, un autentico tesoro documentaristico. Un ritratto della società jonica, dei suoi stili di vita e di un mondo economico e culturale ormai estinto.

Paolo De Siati (25.1.1895 – 27.10.1960), tarantino, è un nome noto nel mondo della fotografia di cui ancora si sente parlare, nonostante sia scomparso oltre cinquant’anni orsono.

Spesso, infatti, la sua opera fotografica ha suscitato attenzione e interessi, sia per il suo indubbio valore illustrativo e documentaristico del territorio pugliese e di Taranto in particolare, sia anche per questa sua attitudine rievocativa e di testimonianza di un’epoca, con tanti scatti memorabili che descrivono costumi e stili di vita della prima metà del ‘900.

Vi sono, in effetti, negli archivi De Siati, immagini di Taranto assolutamente uniche, molte delle quali sono poi entrate a far parte dell’iconografia della città, grazie soprattutto all’attività commerciale del suo negozio di ottica sito in Taranto alla via Di Palma angolo via Pupino. In quello storico esercizio commerciale, gestito dai figli fino alla sua cessazione del 1995, molte di quelle immagini vennero custodite e diffuse, spesso anche gratuitamente, ad amatori, alla stampa e all’editoria, trovando quindi la loro giusta e meritata notorietà.

Ma l’attività fotografica del Paolo De Siati puro fotografo, artista e sperimentatore, rigoroso artigiano dell’immagine, non ha incontrato particolari occasioni per essere svelata al grande pubblico come è avvenuto per l’attività documentaristica. Uno studio dedicato ai suoi lavori privati, ai ritratti di gente comune, ai paesaggi in bianco e nero degli anni ‘30 e ’40, consentirebbe oggi di cogliere la qualità fotografica di certe istantanee, frutto di lunghe prove e di soluzioni tecniche, sia in fase di realizzazione che di stampa.

La collezione privata della famiglia De Siati, infatti, costituisce un esempio più unico che raro dello stato dell’arte fotografica nell’Italia della prima metà del ‘900. Attraverso lo studio delle sue immagini si scoprono, talvolta, scelte operative, correttivi e ritocchi artigianali, stili d’immagine: tutte cose realizzate con i mezzi di allora. Ma si scorge anche la modalità antica del lavoro di fotografo, il suo approccio alla macchina tutta meccanica, senza aiuti, tutori, autofocus, misuratori della luminosità. La macchina fotografica era un congegno muto, che solo la mente del fotografo poteva condurre. Riuscire a ottenere da quelle strepitose ottiche la massima resa era una scommessa da vincere solo con l’ausilio delle proprie conoscenze e capacità.

Appostarsi dietro l’obiettivo e attendere: che una certa luce diventi più morbida, che la nuvolosità vada a diradarsi, che certi riflessi del sole non risultino molesti. Questo era (anche) il mestiere del fotografo professionista. La fotografia del passato, sino all’avvento della macchina digitale, era il prodotto di lunghe attese, di ritorni sul luogo dello scatto, di ripetute prove. Si cercavano le condizioni ottimali per ottenere un dato effetto. La luce dopo il temporale, il controluce di un pomeriggio assolato, il contrasto tra luci e ombre. Ombre lunghe, raggi di sole obliqui e fendenti, nuvole basse, cieli azzurri e nitidezze da brivido. L’arte fotografica consisteva, prima di tutto, nel saper aspettare. L’attesa paziente, la tenacia, erano il requisito iniziale necessario per poter scattare l’istantanea immaginata. Se la natura e la fortuna soccorrevano il fotografo, offrendogli le condizioni sperate, l’opportunità doveva sposare la prontezza, la tempestività, il ricorso a chiare cognizioni tecniche per far sì che quel dato momento, quella specifica posa, venissero catturate.

A volte la fotografia realizzata dopo estenuanti appostamenti, tentativi falliti, occasioni sprecate, esperimenti sbagliati, assomigliava alla pesca: l’attesa, la rapidità del momento, la concentrazione nel cogliere l’attimo. L’immagine era la preda. Ma a differenza della pesca, qui non bastava accaparrarsi la preda catturandola alla meglio. Catturare un’immagine vuol dire, talvolta, catturare un dettaglio di quell’immagine. La folata di vento improvvisa sugli alberi d’autunno. Il banco di nebbia minaccioso sulle rotaie del treno. L’atterraggio degli uccelli sul campo incolto alle prime luci del mattino gelido, fra le ultime ombre torbide della notte che se ne va. Tutto questo è produzione fondata sulla dedizione.

Oggi è molto più semplice. Con la post produzione si arriva a fare quello che nel momento creativo originario non si è saputo o voluto fare. Una grande conquista della tecnica. Rileggere oggi certe immagini di Paolo De Siati dopo aver acquisito la pratica della post produzione, del ritocco, dell’elaborazione, produce emozione e stupore. Proprio per la facilità con cui ormai si riesce a intervenire sull’immagine sino a stravolgerne la sua stessa essenza, si comprende la difficoltà sottesa ad uno scatto degli anni 30 in cui certi dettagli volutamente risaltano. Questione di costanza, di tecnica, di immaginazione della resa finale.

La fotografia del passato dimostra quanto fosse importante prefigurarsi un certo effetto, per poterlo efficacemente realizzare. Oggi quello stesso effetto lo si produce con mille prove in laboratorio, persino in modo involontario. E questo dimostra quanto fosse grande la capacità visiva e tecnica dei fotografi del passato nel prefigurarsi quel dato risultato e nel cercarlo intenzionalmente.

Il lavoro di Paolo De Siati, dopo le produzioni dell’Editore Schena (1994) e delle Edizioni Archita (2002), si spera possa tornare alle stampe. L’Associazione Geophonìe, se officiata dagli eredi De Siati, ne sarebbe grata e orgogliosa.

Pubblichiamo un breve testo che a fine 1994 venne scritto da Jolanda Pavone e letto in pubblico da Lucilla Pavone – nipoti di Paolo De Siati – in occasione della presentazione del volume “Taranto nelle foto di Paolo De Siati” (ISBN 88-7514-701-9) realizzato da Roberto Cofano per l’Editore Schena. La presentazione avvenne a Taranto in una sala del glorioso Bar La Sem di via Giovinazzi.

Ricordo di mio nonno, Paolo De Siati.

A cent’anni dalla nascita di Paolo De Siati, la pubblicazione di un libro che raccoglie alcune delle sue foto più belle è il modo migliore di ricordarlo.

Don Paolo, “Malatièmpe”, mai nomignolo fu più azzezzato, amava il grigio, maschera dietro la quale si nascondono gli uomini fatti di concretezza e di ideali. Lo amava in tutte le gradazioni, quello delle giornate piovose e della vita attiva, dei mattini freddi e dell’altruismo, delle difficoltà e delle soddisfazioni che derivano dal farvi fronte. Di ciò testimoniano le sue fotografie, nitide ed eloquenti, e la sua vita, sobria e coraggiosa. Sempre pronto a sfidare le incertezze del domani, mio nonno era pronto a rimetterci di tasca propria, quando le cose fossero andate male. Era generoso con tutti e, nel lavoro, animato da passione, creatività e inventiva. Era simpatico e gioviale, un po’ mattacchione, proprio come il figlio Lillino, mio zio, che da un ritratto satirico nel negozio di via Di Palma a tutt’oggi cerca, con la lente d’ingrandimento, una città che ancora non riesce a trovare: la nostra città, lontanissima ormai da quella che accolse don Paolo e la sua lunga avventura.

Taranto, e le foto che la ritraggono, si rincorrono nei miei pensieri fino a fondersi in un unico quadro, ricco di bianco e nero, di chiaroscuri e affetto. Ne sono artefici mio nonno e la sua opera, artefici che mi consentono di tuffarmi nel passato mentre guardo al futuro ed all’oggi, senza limiti di spazio e di tempo oltre quelli delle sue fotografie. Sarà anche il conoscerne l’autore, ma osservare una foto di don Paolo è come salire sulla macchina del tempo. Gustarne una raccolta intera, poi, fa andare a cavallo della storia e dominarla. In quelle foto austere e pulsanti c’è tutto Paolo De Siati, le sue giornate, la sua vita. Immagino il suo orgoglio nel constatare il seguito di cui gode l’opera che ci ha lasciato, crescente e ininterrotto nel tempo.

La vitalità delle immagini coincide con la passione di chi riesce a tradurle in fotografie. E queste riflettono l’animo del fotografo. Mio nonno vedeva il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, e viveva pronto a fermarlo con uno scatto, qualsiasi cosa facesse. Si trattasse di momenti futili o importanti, di immortalare persone o vie o piazze, di fissare attimi predisposti oppure colti all’improvviso, don Paolo c’era, sempre. Pronto a regalare qualche frammento di vita vissuta ai posteri.

Sono cresciuta specchiandomi nelle fotografie raccolte nel libro ed in mille altre, ugualmente significative, che non vi hanno trovato posto. Tutte appartengono, senza distinzioni, ai miei sentimenti e ai miei ricordi.

Grazie nonno.

Ringrazio l’Autore Roberto Cofano, Giovanni Acquaviva, Ornella Sapio, l’Editore Schena e quanti hanno consentito la pubblicazione del libro, dallo stesso autore dedicato a mio zio Lillino, per il suo prezioso contributo.

Concludendo voglio ricordare proprio zio Lillino, prezioso sempre, come sanno molti di voi avendolo conosciuto e frequentato. Zio Lillino amava la musica, gli amici e la compagnia non meno della sua vecchia e fedele camera oscura. Amava la vita come nonno Paolo, e così voglio ricordare entrambi. Amava e custodiva gelosamente le raccolte di fotografie paterne, che ben volentieri, però, ha messo a disposizione dell’autore per la realizzazione di questo libro.

Jolanda Pavone

(a nome dei figli di Paolo De Siati: Davida, Giovanna, Erasmo, Elena e Giulia)

CORREGGIO MON AMOUR – Storia di storie della musica rock in una città della provincia emiliana.

Ci sono libri che andrebbero letti svariate volte per essere apprezzati nella misura che meritano. Talvolta, infatti, accade di cogliere tratti e sfumature sottese alla narrazione che solo una visione dell’opera nel suo insieme consente di riconoscere. Questo effetto in genere è volutamente prodotto dagli autori, ma in certi altri casi è una sorta di valore aggiunto che si autoalimenta nella promiscuità di temi e argomenti, nella ricchezza e diversità dei materiali documentaristici, si nutre dei contrasti che la sola lettura completa fa emergere, veste nuove forme e rivela contenuti ulteriori. La polifonìa produce e moltiplica le suggestioni che il libro vuol suscitare: questo valore aggiunto è la sua intrinseca vitalità.

Credevo di poter recensire CORREGGIO MON AMOUR nel giro di pochi giorni, ma l’ho tenuto in mano per mesi. Ogni volta che mi accostavo alla sua lettura sprofondavo con stupore nella (ri)scoperta di storie, atmosfere e ricordi, ma anche in una sorprendente acquisizione di notizie mai sufficientemente diffuse, in uno straordinario viaggio a ritroso tra fatti, circostanze, aneddoti che spiegano quanta fatica, dedizione e amore possano essere riposti, talvolta, nella realizzazione delle proprie aspettative, dei sogni personali e collettivi, quantà volontà occorre per affermare una propria personalità e dare al mondo tutto ciò che di noi stessi sentiamo il bisogno di trasmettere.

Quasi 500 pagine scritte da circa 80 autori: “un libro polifonico, un’indagine a trecentosessanta gradi sui linguaggi giovanili, sulle radici e sulla musica a Correggio dagli anni sessanta ad oggi” , dice la nota di copertina. “Attraverso articoli, interviste, saggi, racconti e testimonianze dirette si ricostruisce il quadro dello sviluppo musicale della nostra città sullo sfondo reggiano, emiliano, nazionale”.  A prima vista lo si potrebbe scambiare per un mero saggio documentaristico, per lo più orientato all’illustrazione in chiave storico-culturale di un periodo di vita vissuto in un’area geografica determinata: intenzione, forse, originaria degli autori. La lettura del libro, però, induce ad altri percorsi. Non si riesce a evitare l’astrazione, la ricerca dei “propri” ricordi, quelli legati ai periodi che il volume racconta, anche se vissuti altrove. E’ impossibile sottrarsi a questa rievocazione della propria vita privata, quella che si viveva tra i ’60 e gli ’80 all’ombra di una cultura e una vita sociale ormai alle spalle e che oggi, forse per la prima volta, diviene oggetto di narrazione. La polifonìa del libro non è dettata solo dai suoi differenti autori e dai modi di ciascuno – talvolta frivoli, tal altra più profondi – di interpretare una certa realtà: è l’emotività di ogni singola narrativa che riesce a suscitare questa infinità di sensazioni, a rivelare contraddizioni, e che alla fine ci spinge a ricercare e giudicare (come in una sorta di “outing”) ciò che costituiva il nostro approccio di allora al mondo della musica, delle radio libere, delle discoteche e delle politiche sociali sottese a tutto questo.

Sulle radio libere, ad esempio, i racconti dei protagonisti di quell’epopea giovanile spaziano tra le differenti e anche opposte motivazioni che erano alla base del fenomeno.
Dice Alessandro Vercesi: “Solo la Rai con due canali televisivi e radiofonici ci imponeva mode e modi. Volevamo emulare in tutto e per tutto il successo della radio di Vasco, c’era la voglia di essere “qualcuno”, ma anche la voglia di comunicare. Abbiamo avuto un giocattolo nuovo tra le mani, pochi soldi, pochi mezzi tecnici, ma essendo un gioco condotto da “dilettanti allo sbaraglio”, il tutto rimaneva ed è rimasto un divertimento”.
Stefano Ligabue invece rievoca l’approccio dogmatico dell’apparato comunista locale: “Tra la seconda metà del ’76 e l’inizio del ’77 la Fgci correggese è alle prese con un allentamento del rapporto con la sua base e con i giovani in generale. Nei circoli si dibatte sui metodi di recupero del rapporto e una delle soluzioni più gettonate è sicuramente la costituzione di una radio. Finalmente, il 26 maggio del ’77, “la “Commissione radio” arriva a una prima Bozza per la costituzione di un’emittente radio. L’impostazione è spiccatamente politica e sociale. La musica ha un ruolo marginale e di riempimento, tanto che il documento stabilisce graniticamente quale musica si può trasmettere e quale no. Ci rendiamo conto che la musica avrà anche qui un notevole spazio ma saranno fatte delle scelte precise. La musica che avrà maggior spazio sarà quella popolare, folk, alcuni tipi di musica rock, liscio. Sono escluse dalla trasmissione le cosiddette canzonette e per intenderci la soul music (con scelte ben precise). L’ala musicale è una minoranza entusiasta, ma la leadership (e i soldi) sono senza dubbio nelle mani dell’ala militante. Fatto sta che, in breve tempo, risulta abbastanza evidente che l’ascolto e l’impatto sociale e politico rasentano lo zero” .

Storie d’altri tempi. Ci si interrogava sulle modalità di fruizione di questi nuovi luoghi di comunicazione: “Nella Fgci di Correggio c’era stato anche chi teorizzava il sabotaggio delle discoteche e della loro musica commerciale, con la motivazione che la disco-music allontanava i giovani dall’impegno e dalla politica: una posizione perdente, che venne presto sconfessata dalla maggioranza dei giovani figiciotti che non aveva alcuna intenzione di rinunciare a frequentare i locali da ballo alla ricerca in particolare dell’altro sesso”, ricorda Guido Pellicciardi, un organizzatore delle Feste dell’Unità di Correggio sul cui palco si esibì il mondo intero, da Dylan a Lou Reed, da Patti Smith e Michael Stipe dei R.E.M. ai Sonic Youth, Neville Brothers , Les Negresses Vertes, Pogues, Elvis Costello, Siouxsie e decine di altri artisti ai vertici della cultura musicale internazionale.

Le riflessioni sorgono per ogni storia, per ogni spunto documentaristico e narrativo: il volume infatti spazia tra la storia sociale locale – e quindi l’affermazione delle prime sale da ballo (dal night che ospitava Nilla Pizzi, Nunzio Filogamo, Fred Buscaglione e Toni Renis sino alla psichedelìa e ai nuovi club), le mastodontiche organizzazioni delle Feste dell’Unità, il recupero della tradizione culturale legata alla Resistenza – e la storia dei singoli, noti e meno noti, da Luciano Ligabue a Pier Vittorio Tondelli, dal flautista di fama mondiale Andrea Griminelli sino ai Black Box (gruppo ‘house music’ di fine anni ‘80 che raggiunse la vetta delle classifiche inglesi vincendo Grammy Awards e ottenendo nominations all’American Music Awards negli Usa). Un fervore di operosità provinciale senza paragoni: etichette discografiche indipendenti, siti on line di vendita dei prodotti musicali realizzati con enorme anticipo rispetto ai trend commerciali nazionali, storie di fonoteche, di contenitori di ogni genere sostenuti per alimentare e lanciare un intero settore culturale, ma anche solo per continuare a credere – spiritualmente – in un’idea. Roba da matti.
Le storie personali si intrecciano in modo affascinante con la società, con i luoghi e con altre storie. Come quella del fotografo internazionale Paolo Lasagni , in arte Hyena, curatore dell’immagine di Luciano Ligabue, le cui opere sono esposte in Italia, in Svezia, negli Stati Uniti e ad Hong Kong. O quella di Claudio Maioli, tour manager di Ligabue e autore di autentici miracoli organizzativi per la realizzazione di eventi di spettacolo di massime proporzioni: “Mi licenziai dalla Coop per mettermi a lavorare con mio padre che aveva un negozio di articoli da pesca, ma passavo più tempo fuori che dentro. Mio padre capì che avevo un sogno e me lo lasciò seguire, non gliene sarò mai grato abbastanza. Se hai un sogno che senti forte, seguilo, e fregatene del resto, perché forse quella è la tua strada. E’ l’unica verità che ho imparato in cinquant’anni”. E del suo sogno tradotto in realtà racconta le difficoltà concrete, gli ostacoli, “…. l’infinità di problemi sempre diversi. Facendo questo lavoro dal nord al sud dell’Italia, dagli stadi ai teatri, ho capito quanto sia difficile fare il politico, difficilissimo. Il lavoro vero, però, poi paga: questo sia io che Luciano l’abbiamo imparato dall’aver fatto diversi altri mestieri prima di questo e dall’essere emiliani, per quella cultura del lavoro e del “ruolo del mediano” che questa terra ti dà”. Storie che vanno dall’originario approccio artigianale sino ai massimi livelli della professionalità, tipiche dell’impegno lavorativo di questa Emilia spaventosamente operosa, anche quando si occupa di sogni da tradurre in realtà.

I successi planetari di questi artisti correggesi vengono spiegati, raccontati sotto il profilo commerciale, sociale, ma talvolta anche nel loro aspetto puramente artistico: in certe storie si coglie l’indole e l’ispirazione dei protagonisti, alla ricerca di sé stessi o di qualcosa da cogliere nell’aria di una certa fase storica.
Ligabue, ad esempio, racconta il suo iniziale girovagare per la definizione della sua personalità artistica: “Ci credevo molto in quello che facevo, mi piaceva l’idea di dire la mia con le canzoni, ma erano cose pretenziose, un po’ tipiche dei cantautori che ti spiegano come va il mondo. Io mi ero un po’ lanciato in quel ruolo, ma non sono fatto così e quindi ero inadeguato (…) . Poi c’è stata una fase intermedia, decisamente new wave. E’ iniziata mentre lavoravo come ragioniere, quando mi sono potuto permettere il mio primo registratore a quattro piste, con il quale ho iniziato a fare i primi esperimenti con le tastiere elettroniche. Mi piaceva avere echi così lunghi, un suono confuso … era un mondo torbido, ma che mi intrigava molto. Dopo di che ho pensato che quello era più un gioco di testa, che però non mi rappresentava veramente: a quel punto mi sono lasciato andare a una scrittura più vicina all’idea di rock’n’roll che avevo in mente, e ho subito sentito che quello ero finalmente io”.

Correggio Mon Amour, insomma, è uno di quei “mattoni” che non si possono assolutamente estromettere da una libreria musicale che si rispetti. Un grandissimo libro-verità, permeato, purtroppo da un sottile filo di nostalgia che denota il deterioramento di certi antichi slanci e di antiche e appassionate modalità di fruizione della musica intesa come “valore”. “La partecipazione al concerto era solo il culmine di un percorso vissuto in una lunga dilatazione temporale”, ricorda Pellicciardi. “In Italia ai concerti dei grandi nomi stranieri – molto meno frequenti di oggi – ci si preparava prima e, soprattutto, se ne discuteva per parecchio tempo dopo” ….

Giuseppe Basile © Geophonìe.

’80 NEW SOUND, NEW WAVE. INCONTRI CON GLI AUTORI

Taranto, Tursport Club, 09.09.07
Modena, Circolo Tennis, 28.10.07
Putignano, Libreria Spazio Libri, 19.01.08
Bari, Librerie Feltrinelli, 08.04.2008
Fidenza, Libreria La Vecchia Talpa, 11.10.08

Giuseppe Basile e Marcello Nitti al Tursport di Taranto

“ ….. Non posso negare di essere particolarmente felice di presentare il nostro libro in questa città, perché è stata proprio Modena a suggerirmi questa idea editoriale”, dice Giuseppe Basile durante la presentazione del volume a Modena, di fronte a un pubblico di amici e appassionati. “Ci sono luoghi speciali, dotati di capacità progettuali e operative non comuni. A Modena in questi anni ho osservato questa capacità tipicamente emiliana di valorizzare ogni cosa che trovi riscontro nelle esperienze della gente comune, nei ricordi collettivi o nella memoria privata, quella che viene coltivata in ambiti ristretti da piccoli gruppi di interesse.
Nei grandi centri, talvolta, tanti eventi passano inosservati, o vengono rapidamente rimossi. La vivibilità delle città come Modena, invece, favorisce certe passioni, offre l’opportunità di coltivarle e di tramandarle. Quest’ultimo aspetto, soprattutto, è quello che mi ha colpito.

Qualche anno fa acquistai un libro intitolato “Seduto In Quel Caffè, Fotocronache dell’Era del Beat”, edito dalle Raccolte Fotografiche Modenesi, un’istituzione a mio parere straordinaria, che dovrebbe essere incentivata in ogni centro urbano per raccogliere e salvare dall’oblio documenti della storia di tutti i giorni, scene di vita della gente comune rappresentative di periodi trascorsi, di avvenimenti emblematici.
A volte basta una sola immagine per rievocare un’intera fase della vita, privata o pubblica di un dato luogo, per immortalarla. Quel libro illustrava la nascita del movimento beat in Italia, che trovò una scintilla iniziale proprio a Modena, con i ragazzi del Bar Grand’Italia, con i musicisti dell’Equipe 84, Maurizio Vandelli, Guccini, i Nomadi e via dicendo. Notai subito che le foto pubblicate in quel volume erano, direi, quasi “innocenti”, “involontarie”, sembravano foto casuali, scattate tra amici. Suscitavano una sensazione di inconsapevolezza. Gli autori non immaginavano che quelle foto avrebbero potuto diventare in futuro qualcosa di straordinariamente significativo, perché così fortemente descrittive di quella vita di allora (parliamo ormai di quasi cinquant’anni fa!).
Mi accorsi, in seguito, che una copia di quel libro era in tantissime case di modenesi, in tanti negozi, nelle edicole, ovunque. Lo avevano acquistato anche i non-modenesi, stabilitisi qui per lavoro in questi anni: segno che in quelle immagini, così paradigmatiche ed evocative di quell’epoca, chiunque riusciva a riconoscersi: anche chi non aveva vissuto il beat modenese a Modena, ma lo aveva percepito in luoghi lontani, in città del Sud Italia o altrove.
Attraverso quel libro finalmente capii come la nostra storia di provincia – quella che racconto nel libro che ho realizzato e che presentiamo stasera – poteva trovare una sua chiave di lettura. Ero alla ricerca, infatti, e da anni, di una modalità narrativa che potesse ‘sprovincializzare’, rendendola disponibile a chiunque, la nostra esperienza musicale vissuta a Taranto nei primi anni ’80. Dal 1982 al 1987, infatti, un gruppo di appassionati di musica, a Taranto (mia città d’origine) decise di avventurarsi e sperimentare un’attività di promozione della musica new wave, ancora semisconosciuta in Italia, specie in provincia. Il desiderio di nuovi eventi di spettacolo, così rari al Sud, la voglia di avvicinarsi a una nuova scena musicale emergente, il bisogno di smuovere le acque, ma anche gli ambienti cittadini, gli stili di vita, era un desiderio pressante. E da queste velleità prese forma il primo tentativo di approccio con il mondo del management musicale nazionale, quello delle agenzie di spettacolo.

Le storie e i retroscena di quei concerti sono raccontate nel nostro volume, con tutti gli aneddoti, i ricordi privati e i resoconti della stampa cittadina, ma tutto questo, inizialmente, a mio parere non era una materia sufficiente per scrivere un libro, o almeno non lo era oltre le mura di Taranto, luogo in cui si svolsero quegli spettacoli.
Mentre selezionavamo le immagini (ne abbiamo recuperate a centinaia!) e i materiali di stampa e audiovisivi, una riflessione più ampia sugli anni ’80 cominciò a maturare in modo automatico, naturale. Rivedere le immagini e rileggere i commenti ci indusse a chiederci perché quella scena artistica si materializzò, e per quale motivo poi è stata tendenzialmente sottovalutata sino a una sua quasi totale rimozione. Il nostro libro, allora, ha trovato la sua ‘identità’ e così abbiamo iniziato il nostro viaggio narrativo e di ricerca”.

“ … Ci sono state diverse ragioni per cui gli anni ’80 dal punto di vista artistico hanno subìto una certa sottovalutazione. La critica musicale, infatti, ma anche la stampa più generalista, quando si occupano di musica parlano sempre degli anni 60 e 70, a scapito del decennio 80, sempre dipinto come un’epoca di regressione, di caduta, di degenerazione.
Era difficile, obiettivamente, per gli artisti degli ’80, riuscire a riscuotere lo stesso successo e le attenzioni che i predecessori dei 60 e 70 avevano riscosso in tutto il mondo. Le epoche erano molto diverse, e anche le personalità degli artisti lo erano. Nessuno può negare questa ovvietà.
I musicisti degli anni 60 – e parliamo dei Beatles, Rolling Stones, Who, per l’Inghilterra, o dei Jefferson Airplane, Bod Dylan, Janis Joplin, Hendrix, Crosby, Still, Nash & Young, per gli Stati Uniti – erano artisti che avevano vissuto a cavallo tra epoche in via di rapido cambiamento. Rappresentarono l’avvento del ‘moderno’, rispetto agli standard musicali tradizionali. Quegli artisti non si limitarono a interpretare i cambiamenti sociali che erano nell’aria, ma li determinarono, li favorirono: questo perché erano davvero dei grandiosi artisti, dei visionari con capacità di immaginazione, di creazione, di fantasia fuori dal comune. Oggi questo aspetto viene dimenticato. Non bisognerebbe mai dimenticare che se noi oggi viviamo liberamente la nostra vita sociale, sessuale, politica, economica, se mangiamo cibi biologici, se ci vestiamo in assoluta libertà, se siamo capaci di criticare il pensiero dominante su qualsiasi argomento, lo dobbiamo (anche) alla generazione degli hippies, dei figli dei fiori e di quegli artisti come i Jefferson Airplane, Janis Joplin, Lennon e McCartney, che col loro esempio ci insegnarono a vivere.

da sinistra: CARMEN TURE (Tursport Club), gli autori MARCELLO NITTI e GIUSEPPE BASILE (Geophonìe), CLAUDIO FRASCELLA (Publiradio – Corriere Del Giorno), FRANZI BARONI (Studio 100 TV).

Prima dell’avvento degli hippy in America non esisteva un’alternativa allo stile di vita conformista degli anni 50, che consisteva nel risiedere in sobborghi tutti uguali, nel guidare automobili tutte identiche, nel guardare trasmissioni televisive tradizionali e puritane, nell’andare in chiesa fieri di essere (o apparire) custodi morali di un mondo immodificabile.
Gli hippy fecero fiorire una controcultura che riuscì a trasformare il modo di vivere di tutti i paesi occidentali e che influenzò tutti i campi del sapere. Il movimento ecologista, ad esempio si sviluppò all’interno di quella controcultura dei primi anni 60. Uno scienziato dell’Era hippy, Gregory Bateson, fu il primo a parlare di surriscaldamento globale del pianeta in un congresso tenutosi a Londra nel 1967. Il libro intitolato “Operating Manual For Spaceship Earth” (Manuale operativo per l’astronave Terra), scritto da R. Buckminster Fuller, fu molto popolare in quegli anni perché insinuò per la prima volta il tema della fragilità dell’ecosistema. Temi veramente arditissimi, futuristici per l’epoca.
Il movimento femminista, parimenti, esplose in quegli anni, così come la rivoluzione sessuale che mise in discussione la morale convenzionale proponendo una pluralità di modelli: omosessualità, famiglie allargate, terapie sessuali eccetera.
A rivederli oggi, furono anni davvero straordinari, più di quanto apparissero.  La moda rivoluzionò totalmente la mentalità dominante. Dopo anni di abbigliamento conformista che tendeva a negare le differenze, ad appiattire le personalità, crollarono di colpo tutte le regole del vestire, le gonne e gli abiti interi (che erano la regola per le donne dei primi anni 60) furono sostituite da abiti naturali, tessuti morbidi, pizzi e velluti anche di seconda mano, colori di terra o tinte forti tipo arcobaleni psichedelici, pantaloni e giacche unisex. Lo stesso accadeva per le acconciature, che in passato rendevano anche le adolescenti simili a delle ultratrentenni. La libertà assoluta degli stili estetici sdoganò code di cavallo, capelli sciolti, fiori tra i capelli, collane fatte a mano o comunque artigianali, chincaglieria di ogni genere.
Fu una rivoluzione totale. Se pensiamo che la maggior parte degli esoterismi, delle medicine alternative, degli studi astrologici e di tante altre culture o pseudo-culture esplose in quegli anni, ci possiamo rendere conto di quale calderone di idee, influenze e suggestioni poterono essere gli anni 60. Le prime terapie di yoga, la terapia Gestalt, come pure la terapia reichiana, così come tantissime altre forme di controllo del corpo o della mente, le varie scuole di meditazione (Krishna, Maharishi, il Naropa Institute, Scientology, le sette buddiste zen), furono tutti fenomeni tipici degli anni 60, come pure in altri campi lo erano altre nuove ideologie, pensiamo al vegetarianesimo, agopuntura, massaggi e diavolerie di ogni genere.
Questo terremoto culturale contaminò l’arte, l’architettura, la pittura, e il veicolo di espansione più immediato e diretto fu proprio la musica. Fu la musica a scatenare nel mondo una nuova forma di comunicazione di massa, grazie ad artisti giganteschi.
Oggi l’iconografia del rock ci dipinge, ad esempio, Janis Joplin come una ubriacona, tossicomane, sessuomane eccetera. In realtà Janis era un genio della comunicazione, un’artista miracolosa superdotata, non solo per la sua voce sovrumana, ma anche per le sue conoscenze e intuizioni che a quell’epoca erano avanti di anni luce rispetto al panorama culturale contemporaneo.
Il famoso grido “ FUCK ! ”, che Country Joe McDonald proferì dal palco di Woodstock contro l’establishment del Presidente Johnson e contro la politica americana in Vietnam, se può apparire una trovata, una goliardata di un guitto semisconosciuto, è invece da intendere come un’espressione mitica dello stile di vita hippy, così devastante da riuscire a modificare l’opinione comune che in America circolava sull’intervento americano.
Bob Dylan, ormai lo sanno tutti, era un musicista grandioso già a vent’anni, quando percorreva l’America in lungo e in largo alla ricerca di dischi folk degli anni ’20, e che cercava di fare propri per rielaborarli, per capirli, intrufolandosi nelle case dei vecchi collezionisti, degli amatori, assecondando il suo bisogno spasmodico di conoscenza.
Erano musicisti, insomma, spaventosamente evoluti e colti, oltre che dotati di abilità naturali e tecniche superiori alla media”.

“Tutto questo non poteva certo dirsi dei musicisti degli anni ’80, figli del punk, spesso di estrazione culturale modesta anche dal punto di vista della formazione musicale. Jim Kerr dei Simple Minds, artista che noi amiamo e a cui siamo affezionati, disse in un libro: “io vengo da Glasgow, un posto in cui la massima aspirazione artistica è quella di diventare un parrucchiere”. Ian Curtis, lo si legge nella biografia scritta dalla moglie Deborah Curtis, era un ragazzo sofferente che ciondolava tra uffici pubblici per la disoccupazione e centri di assistenza in cui prestava sporadiche attività di lavoro. Ragazzi di periferia, di sobborghi poveri, che conoscevano giusto un po’ di David Bowie e di Lou Reed, le icone del momento”.

“Gli anni ’80, quindi, partivano già da una difficile eredità, quella dei ‘60 e ‘70, ben più ricchi di personalità, di influenze artistiche e sociali. Anni straordinari per la musica.
Anche i ‘70, infatti, avevano toccato dei vertici assoluti per questa nuova forma d’arte e di comunicazione che è stato il rock. I musicisti dei 70 erano meno ideologici, ma erano anche più ‘musicisti’ dei precedenti. La musica dei ‘70 viene infatti da alcuni criticata sotto questo profilo, la si ritiene un po’ autoreferenziale, leziosa; il progressive tende a cristallizzarsi come una lezione di stile e di tecnica, è una musica astratta. Si trattava comunque di una scena artistica qualitativamente all’apice della cultura rock. I giganti degli anni 70, pensiamo ai Led Zeppelin o ai Pink Floyd, non potevano nemmeno essere scalfiti dalla scena artistica emergente nei primi anni ’80, per una differenza di valori tecnici, artistici, comunicativi. La distanza era siderale e incolmabile. Se pensiamo a musicisti ipercolti, di ambienti alto-borghesi, che avevano studiato in collegi prestigiosi, come i Genesis, gli stessi Pink Floyd, o se pensiamo ai musicisti della scuola di Canterbury, ci rendiamo conto che la preparazione artistica che questi avevano a vent’anni era già ad altissimi livelli. Robert Wyatt, il leader dei Soft Machine, andava in vacanza con i genitori all’isola di Minorca dove frequentava circoli intellettuali inglesi e ascoltava il be bop di Charlie Parker e tutto il jazz d’avanguardia degli anni 50.
La scena artistica degli ‘80 invece era composta da musicisti che questa cultura dovevano ancora acquisirla strada facendo. Molti di loro non avevano neppure una completa padronanza tecnica degli strumenti.
Per tutti questi motivi, insomma, questa scena artistica finiva per raccogliere un certo scetticismo, e si scontrava anche con la convinzione generale che tutto ormai sembrava essere stato già fatto. Gli artisti degli ’80, paragonati ai precedenti, davano la sensazione di essere un po’ come dei “figli di un dio minore”.

“In realtà questo giudizio, col tempo si è poi rivelato troppo severo. Il decennio ’80, tra l’altro, scontava anche altri tipi di pregiudizi, ad esempio in relazione ai contenuti che venivano espressi, ora orientati verso un neo-individualismo che 30 anni di pregressa cultura sociale e socialista ci impedivano di comprendere.
Gli ideali degli ’80 apparivano un regresso, questa contrazione del sociale, a vantaggio di culture edonistiche, estetiche, e di ideologie maggiormente improntate a un’affermazione individuale delle personalità, erano ideali un po’ destabilizzanti per una cultura che sino a quel momento si era autoalimentata, anche demagogicamente, sull’idea dell’affermazione dell’individuo attraverso una certa coralità populista, nell’ottica della solidarietà, delle esigenze comuni e del progresso da conquistare tutti insieme collettivamente”.

“Dopo le ingenue illusioni dei ’60, con le rime baciate cuore & amore, dopo la pace-amore-&-musica, e dopo le lotte di classe dei ‘70, gli anni ‘80 apparivano come la certificazione del fallimento di tutte queste utopie: un fallimento di cui tutti prendevano atto, ma che nostalgicamente non erano disposti a riconoscere come una sconfitta, come errori progettuali della società. Eravamo ancora innamorati, insomma, di quelle idee romantiche propagandate dai nostri idoli quando arrivò sul mercato il walk-man, il videoclip, i videogames, la discoteca con i suoi nuovi suoni sintetici martellanti e tutto ciò che caratterizzò gli anni ’80 come anni tipici di questa fruizione solitaria e individualistica della musica e dei prodotti musicali, sempre più intesi come meri prodotti di consumo”.

Siouxsie (20.07.1985, Taranto, Tursport Club) Pietro Gravili © Geophonìe

“A tutto questo va aggiunto che il punk, movimento che si diffuse tra il 1977 e il 1980, aveva contribuito all’idea di fare ‘terra bruciata’ del panorama artistico di quegli anni, con un’ondata nichilista e distruttiva che pareva voler azzerare i valori artistici espressi sino a quel momento dal rock. Lo sfogo emozionale del punk voleva esprimere il bisogno di immediatezza che, specie in Inghilterra, il tardo progressive di fine ’70 sembrava non saper più offrire. L’operaio della working class, nell’era della Thatcher, non sa più cosa farsene delle suites strumentali dei Genesis e dei Pink Floyd. E questa idea, suscitata dal movimento punk e post-punk, di voler buttare all’aria quella tradizione, consolidava l’idea che la nuova musica, mi riferisco a quella dei primi ’80, fosse necessariamente un’espressione di decadenza artistica”.

“Fatto è comunque, che proprio il 1980 segnò un momento di svolta rispetto a queste idee. Il panorama della musica internazionale era già orientato verso nuovi orizzonti: il 1979 aveva visto l’esordio dei Joy Division con la loro opera prima sicuramente di grande rilievo. “Unknown Pleasures” superava l’idea originaria del punk sia dal punto di vista dei contenuti e dei testi, sia sotto il profilo delle sonorità e della composizione. Altri dischi, vagamente futuristici, con sonorità robotiche, fredde e tecnologiche, si stavano affermando, insinuandosi nell’immaginario collettivo. I primi dischi degli Ultravox, tra il 1977 e il 1979 ad esempio, rappresentavano un’idea davvero innovativa e suggestiva per quegli anni. Ma nel 1980 queste prime intuizioni divennero consapevolezze. Peter Gabriel pubblicò il suo terzo disco solista, e il brano “Games Without Frontiers”, con le sue freddezze e quelle nuove sonorità tecnologiche, mostrò a tutti che quella strada compositiva e quella ricerca sonora potevano costituire la nuova frontiera artistica del decennio. Il brano parla della guerra fredda (non più, quindi, della guerra tradizionale, quella avversata dai Jefferson Airplane e da tutti gli altri). Siamo negli anni 80. Ronald Reagan viene eletto Presidente degli Stati Uniti, e Peter Gabriel parla dei bambini di tutte le nazionalità (il tedesco Hans, l’ebrea Lotty, l’americana Jane, il belga Willy, la russa Sascha, il tedesco Enrico, riuniti in un gioco senza frontiere, per un mondo e una guerra senza lacrime).
Sempre nel 1980 viene pubblicato “Remain In Light”, autentico magistero musicale, un’enormità artistica dei Talking Heads, che certificherà definitivamente che ogni altro genere musicale, al cospetto di quello lanciato da Byrne e soci, da quel momento sarà da considerare “vecchio”.
E quasi a voler ribadire il nuovo corso, come se il destino volesse rimarcare che era stata definitivamente voltata una pagina nella storia della musica pop, il 1980 dovrà registrare la morte di John Lennon, ucciso da un folle a New York. Muore l’emblema di un’epoca, di certi ideali, di uno stile di vita”.

“La strada tracciata da questi artisti non venne compresa subito in Italia. Nel 1980 noi eravamo fermi davanti alla Strage di Bologna del 2 agosto e alla Marcia dei Quarantamila dell’autunno a Torino: sospesi, quindi, fra strascichi di terrorismo e anelito di cambiamento. Siamo nell’Italia del dopo-Moro, l’Italia che cerca di liberarsi delle lotte di classe, degli scioperi e delle convergenze parallele per affermare una voglia borghese di vita liberale”.

“In questa fase di cambiamento, artistico e sociale, si sviluppa un po’ della nostra storia: quella che raccontiamo nel nostro volume: 80 NEW SOUND NEW WAVE. Alcune piccole agenzie musicali sorte dalle ceneri degli anni 70 cercavano di promuovere i nuovi artisti del decennio, tutti giovanissimi, inesperti, ignari della risposta che le piazze avrebbero potuto dare al fenomeno. Da un circolo sportivo di Taranto partirono delle telefonate, si instaurarono dei timidi contatti con un’agenzia musicale di Bologna e senza troppe complicazioni, con una sperimentale fiducia reciproca (che forse era anche il frutto di un rispettivo bisogno di trovare conferme e certezze), si concretizzò l’organizzazione del concerto dei BAUHAUS, a Taranto. Era il 1° maggio 1982, e la band di Peter Murphy, per la modica cifra di £ 1.500.000 (£ 750.000 di anticipo, e £ 750.000 a fine concerto) si presentò con un furgone a Taranto, innanzi ai cancelli del Tursport Club.
Della performance parliamo diffusamente nel libro. Così come dell’ospitalità, dei rapporti con la band, della storica partita di calcio con Peter Murphy e soci, e poi della partita di tennis. Tutte circostanze significative della semplicità di quegli artisti ancora all’alba del loro successo internazionale”.

“Si proseguì con i NEW ORDER, band evoluta, espressione di punta del sound di Manchester. Il loro concerto di pochi giorni dopo costò £ 6.500.000, era il 19 giugno 1982. Un bagno a mare, una passeggiata in spiaggia, e poi un’ispirazione (quella che produsse il brano “The Beach”) furono il coronamento di una grande fatica organizzativa e di un nuovo amore artistico. I New Order rimasero impressi nel cuore di molti appassionati, con una performance assolutamente perfetta, con quelle freddezze, quei volti impenetrabili, quelle atmosfere. Grandissimi”. “Ma l’avventura di cui parliamo nel nostro volume va avanti. Il 7 luglio 1983 è la volta dei SIMPLE MINDS, che portano la città di Taranto alle stelle, l’euforia è al massimo, la trepidazione, l’attesa, sono spasmodiche. Una città di provincia sta vivendo un momento magico. Se ne accorge tutta la Puglia. Nuovi artisti si affacciano quella sera sotto il palco dei Simple Minds, e quella scintilla, quella folgorazione, diventerà per qualcuno di loro il sale della propria vita. E’ stato posto un seme per altre carriere, altre passioni, per altre storie. Il nostro libro cerca di spiegare questa alchimìa, questo incrociarsi di destini tra grandi e piccoli artisti, tra culture metropolitane, atmosfere internazionali e orizzonti di provincia. I Simple Minds rappresenteranno per noi un apice della nostra avventura manageriale di quegli anni e i loro dischi li compreremo, per affetto, per il resto della nostra vita, anche quando non li riterremo più all’altezza di quelli che abbiamo amato”.

“Si sale ancora più su, e si arriva alla scommessa con gli ULTRAVOX, un esperimento organizzativo da far tremare le gambe. Il concerto del 2 settembre 1984 è il primo del Tour europeo, Taranto è la prima data della tournee. Per l’esordio si mobilita il management nazionale della band, con Franco Mamone e Claudio Trotta, i più grandi impresari dell’epoca. Si giocano ora i destini dell’organizzazione locale, si valuta la sua tenuta, la sua possibilità di consolidarsi, di affermarsi. Ma non c’è il tempo per queste valutazioni. Dopo tre mesi vediamo in televisione Midge Ure, il grande leader degli U2, dirigere a Londra il gruppo BAND AID, cantando con tutti gli artisti inglesi più famosi del mondo il noto brano “Do They Know It’s Christmas”. Da lì a poco rivedremo gli Ultravox in mondovisione nel LIVE AID, il più grande avvenimento mediatico musicale del decennio. Da quel giorno, non rivedremo più la new wave sui nostri palchi di provincia. Non sarà più necessario promuovere la new wave: ormai si vende da sola”.

“Si prosegue negli anni successivi con dei concerti parimenti indimenticabili: SIOUXSIE & THE BANSHEES, i CULT, gli immensi SOUND di ADRIAN BORLAND, gli STYLE COUNCIL di PAUL WELLER. Artisti grandiosi. Ma la provincia, ormai, deve farsi da parte. Le iniziative divengono più sporadiche. Il patrimonio di energie, esperienze, disponibilità, si disperde. Purtroppo ci sono slanci, progetti, valori, che possono sopravvivere solo in presenza di determinati presupposti. Questi presupposti, talvolta, vengono meno, e con essi viene meno il risultato, l’opera che si vorrebbe conseguire. Col nostro libro, a distanza di vent’anni, abbiamo voluto almeno valorizzare un ricordo e consegnarlo a chi oggi, forse, è animato dalle nostre stesse velleità di allora. Non siamo riusciti a consolidare un’idea di sviluppo, che altrove ha favorito la crescita di occupazione, professionalità e servizi legati all’industria dello spettacolo. Ma alla catalogazione, alla valorizzazione dei nostri materiali privati, così come dei nostri ricordi, abbiamo voluto concedere almeno quest’ultimo spazio. L’associazione culturale Geophonìe, che abbiamo creato, ci ha consentito di realizzare questo volume e ci auguriamo possa servirci ancora per valorizzare altre storie, tracce, reperti e per promuovere nuove iniziative, portare alla luce altri materiali e incoraggiare nuovi autori” .“Grazie a tutti”.

Giuseppe Basile © Geophonìe
Diritti Riservati

Reduci pop

Le culture e i linguaggi del rock sono ormai un segno del secolo scorso. Nella nuova società globalizzata la rockstar non è più un modello sociale. E mentre la comunicazione collettiva percorre sempre nuove rotte telematiche, la civiltà della musica popolare, a quarant’anni dal Festival di Woodstock, finisce su History Channel.


Come le auto d’epoca. Come gli antichi dialetti. Un documentario a puntate sulla storia del rock fa il suo ingresso sul canale tematico di SKY, mescolandosi fra gli speciali dedicati alle rivoluzioni industriali, alle guerre mondiali, al boom economico del dopoguerra e ai segreti di Stalin, di Hitler, del Terzo Reich: tra l’Italia dei comuni e dei campanili, dei dialetti e dei conflitti Stato-Chiesa, tra le storie dei veneti e dei calabresi emigrati in Sud America, gli attentati ai Kennedy e a Fidel, tra le cospirazioni di Pinochet e i diari segreti del Duce. Improvvisamente, nella giungla mediatica a colpi di spot, si fa largo un titolo: “Le sette vite del rock. Terza puntata. Il punk, i Clash e i Sex Pistols. Domani sera, ore 23, su History Channel”.

La Cineteca Lumiere di Bologna, Sede del Biografilm Festival 2009

Le celebrazioni, pur fondandosi sullo stesso concetto (quello della rievocazione di un passato che non c’è più), a ben vedere appaiono meno ‘dolorose’ di un messaggio come quello che inevitabilmente si riceve da un passaggio su History Channel: inequivocabile, senza appello: come quando ti arriva per posta dal comune di residenza la Carta d’Argento gratuita, o la tessera per il cinema con lo sconto per gli anziani.

Il quarantennale del Festival di Woodstock, ad esempio, pur con tutto il suo bagaglio di cimeli d’archivio (e di autentica “archeologia”), forse per una strategia di marketing riesce ancora ad apparire come una dolce prosecuzione di certi tempi e atmosfere. Ma History Channel no: se qualcosa passa da lì significa che appartiene definitivamente a un passato che può rivivere solo nei documentari. E’ qualcosa ormai distante anni luce da noi e dal nostro “reale” presente.
Il “presente”, infatti, può anche essere vissuto in modo “irreale” : e solo così, del resto, può coltivarsi ancora l’illusione di un’affinità con mondi e linguaggi ormai estinti.

Per rendersi conto di quanto incolmabili siano, ormai, certe distanze, basta riguardare qualche sequenza del celebre film “Woodstock. Tre giorni di pace, amore e musica” del regista Michael Wadleigh (Warner, 1970), opera che illustra il raduno musicale più famoso di tutti i tempi con grande fedeltà e capacità documentaristica.
Mentre la versione originaria del film è ormai disponibile gratuitamente (sul Canale di film della Warner, visibile tramite Fastweb), una nuova edizione è stata recentemente pubblicata in due versioni nel giugno 2009 (in concomitanza con le celebrazioni del quarantennale): la più ricca è: “Woodstock: 3 Days Of Peace And Music, 40th Anniversart Ultimate Collector’s Edition” e contiene la versione rimasterizzata del film (4 DVD, per oltre 4 ore, oltre a 2 ore di performance inedite da parte di 13 gruppi, tra cui Joan Baez, Country Joe McDonald, Santana, The Who, Jefferson Airplane, Canned Heat, Joe Cocker, nonchè filmati inediti di Paul Butterfield, Creedence Clearwater Revival, Grateful Dead, Jhonny Winter e Mountain), interviste, booklet e memorabilia; l’altra versione, più comune, è un doppio DVD.

Michael Wadleigh e Artie Kornfeld al Biografilm Festival di Bologna (14.06.2009)


Una prima versione rimasterizzata, tuttavia, era già stata pubblicata nel corso degli anni ‘90 col titolo “Director’s Cut” (ed è stata distribuita dal periodico L’Espresso, sempre in giugno). Il documentario, che all’epoca fu premiato con l’Oscar, cattura e ritrae lo spirito del tempo: le performance degli artisti sono intervallate da lunghe scene descrittive dell’evento e da interviste significative.

Una visione istruttiva. Ciò che si coglie particolarmente è l’ingenuità e la pacatezza di quel popolo hippie, la sua filosofia già abbastanza lucida e consolidata, ben chiara nelle parole dei ragazzi intervistati, ma al tempo stesso il clima di “lentezza” che aleggiava sul meeting, sui giovani e sull’evento complessivo.
Stupisce, addirittura, l’assenza di ostentazione volta a professare uno stile di vita, a propagandarlo con gesti di rapido effetto. Mentre sul palco si alternavano artisti diversissimi fra loro, espressione di generi musicali persino opposti, questa folla immensa era lì, pronta ad assorbire un messaggio complessivo che di tutte quelle diversità artistiche doveva costituire il prodotto: quei ragazzi, nel film, anziché accelerare l’evoluzione e il tempo, sembravano quasi volerlo fermare, goderselo in modo statico, anche se le loro affermazioni in realtà risultavano tutt’altro che statiche per gli assetti sociali e culturali dell’epoca.
Parlavano di grandi temi esistenziali e sociali ma senza minimamente infervorarsi per questo. Il film ha immortalato una folla dolcemente anestetizzata, stranamente felice, priva di quella tensione tipica di chi consapevolmente si oppone al mondo e alle sue regole, con ciò sapendo di esporsi a forme persecutorie di emarginazione ed esclusione sociale.
Country Joe McDonald deve addirittura sollecitare una loro reazione collettiva mentre intona il suo inno antimilitarista “I feel like I’m fixing to die rag” che invece il pubblico ascolta restando seduto, canticchiando il ritornello in un clima di estatica serenità. Tutti lì, per terra, appoggiati l’uno all’altro come degli innamorati, i giovani accompagnano Country Joe come se stessero intonando strofe di una canzoncina romantica.
“Ma se non siete nemmeno in grado di cantare in coro il ritornello di questo pezzo, come pensate di poter fermare la guerra in Vietnam?”
, chiede dal palco Country Joe, incitandoli.
Sul Festival aleggia una lenta atmosfera che rivela un’autentica armonia spirituale, di quelle talmente benefiche che non si sente neppure il bisogno di esternare con particolari opere o azioni.

Una visione istruttiva, ripeto. Una di quelle pellicole che ti costringono a fare un po’ di “outing” e a cercare di davvero, al di là della retorica e delle facili suggestioni, la tua identità e la reale adesione ideologica, culturale, comportamentale a certe forme espressive.
Durante le mie ripetute visioni del film mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito, trovandomi lì, a integrarmi con quella tribù naturale.
Mi sarei davvero seduto in mezzo al fango a scambiare cibo con sconosciuti igienicamente pericolosi, a baciarmi con ragazze trascurate, a fumare spinelli preparati da mani luride?
Sarei riuscito a resistere per tre giorni in quelle latrine comuni?
Avrei fatto davvero la fila, con gioia e spirito collaborativo, per una scodella di riso bianco ?

In quella folla sterminata, messa a dura prova dal vento e dalla pioggia, penso che avrei desiderato ardentemente uno spazzolino da denti, una camicia asciutta, un bagno decente. Forse mi sarei persino avvilito per qualcuna di quelle performance, talvolta trascurabili e dilatate per colmare le difficoltà organizzative dettate dal difficile avvicendamento sul palco dei tanti gruppi e artisti.
Attraverso quel film ho sempre notato, insomma, una differenza culturale incolmabile tra quei giovani americani e noi. La loro rivoluzione appare quasi “involontaria” per quanto è spontanea. Anche se i contenuti vengono espressi e rimarcati chiaramente sul piano dialettico, ciò che risalta è la “fisicità” comportamentale di quei giovani piuttosto che le filosofie sottostanti. Abbandonarsi a un amore libero, un amore bambino, apparentemente privo di sovrastrutture razionali, o fumare, mangiare e lavarsi in una dimensione quasi primitiva, paiono essere il fine unico e ultimo del loro agire: non l’effetto di una precisa determinazione, né la causa iniziale per innescare certi ulteriori effetti. Dice bene Franco Bolelli nel suo “STARSHIP – Viaggio nella cultura psichedelica” (Castelvecchi Editore, 1995, ISBN 88-86232-31-4) : “la filosofia psichedelica non è pensiero intellettuale”.

Noi europei, o meglio, noi ‘Greci’ , non siamo così. Quando Aristotele oltre duemila anni fa diceva che “l’uomo è un animale politico”, aveva sicuramente colto un carattere fondamentale, un tratto culturale tipico delle sue genti. Chissà se vivendo tra i vichinghi del Nord Europa o gli aborigeni dell’Amazzonia avrebbe detto la stessa cosa.
Certo è che dalle nostre parti lo spirito libero degli hippies, se contagiò davvero la nostra società, offrì interpretazioni ben diverse e distanti dalle idee originarie, sino a produrre una visione tutta nostra, tutta europea di quegli slanci libertari.
Vivere secondo una filosofia “libertaria”, infatti, non necessariamente conduce verso una dimensione realmente “liberatoria”. Recepimmo, insomma, della cultura hippie, la carica razionale contestataria, ma quasi per nulla l’altra componente più visionaria, irrazionale e “impolitica”, produttiva di quella felicità psichedelica che si leggeva sulle facce degli hippies americani. Le riflessioni della letteratura e della stampa recenti, in occasione del quarantennale del ’68, hanno rimarcato più volte questo aspetto.

Nel libro “Dì qualcosa di destra. Da <<Caterina va in città>> a Paolo Di Canio” (di Angelo Mellone, Marsilio Editore, 2006, ISBN 88-317-8987-2), strepitoso affresco dell’Italia di oggi e dei suoi trasformismi culturali e mediatici, l’autore passa in rassegna le autentiche capriole e le acrobazie culturali di tanti opinionisti e osservatori che partendo dalle più inveterate e conservatrici critiche sul ’68 e la “degenerazione dei costumi”, sono poi passati nel ’98 (già tempi di celebrazioni e revival), prima a “magnificare il trentesimo anniversario della “rivoluzione”, la sua “esplosione di voglia di libertà e di critica radicale”, il “bisogno di autenticità”, “il senso assolutamente extraideologico della parola “comunismo”, “la spinta antagonista rispetto alle ideologie dominanti” e via discorrendo; e poi, nel 2008, hanno finito col riconoscere che quella parte più autenticamente innovativa del fenomeno hippie venne in realtà sacrificata sul freddo altare dell’ideologismo, mentre l’altra parte più razionale, politica e riformista venne appaltata e fatta propria da frange sociali politicizzate e militanti per supportare altre cause, sentite in quel momento come prioritarie nella cultura italiana di allora.

Secondo Luca Pollini, autore del libro “Hippie. La rivoluzione mancata. Ascesa e declino del movimento che ha sedotto il mondo” (Bevivino Editore, 2008, ISBN 978-88-95923-02-4), “a partire dall’autunno 1967, gli studenti universitari cominciano a occupare le università, inizia quello che convenzionalmente verrà chiamato Sessantotto, di lì a poco l’impegno e la militanza segnano una rottura fra la dimensione politica e quella impolitica, tipica degli hippie e dei beat di casa nostra. A differenza della situazione americana, la “base” sociale che costituisce il movimento italiano è diversa. Se negli Stati Uniti la maggior parte dei giovani Figli dei fiori è di estrazione piccolo borghese, in Italia, tranne alcune eccezioni, proviene dal proletariato. Pier Paolo Pasolini scrive: “il movimento beat e hippie non poteva incidere più di tanto come fenomeno della contestazione giovanile, perché in Italia ha avuto una grande importanza la Resistenza e ha ancora grande importanza la critica che il marxismo fa della società. I giovani che non vanno d’accordo con i padri borghesi hanno già dunque pronte tradizioni ( la Resistenza ) e le forme (le proteste razionali del marxismo) per rivoltarsi”.

In prossimità del quarantennale del ’68 – siamo ormai ai giorni nostri, al 2008, in piena epoca di outing delle sinistre, e di revisionismo critico – le celebrazioni vengono totalmente reinterpretate: cade definitivamente il dogma del ’68 positivamente modernizzatore e riformista e cominciano a fioccare impietose le analisi che rileggono quel periodo come un’anticamera del fallimento sociale degli anni ’70. Angelo Mellone nel suo libro (pag. 120) ricostruisce questo ripensamento: “ … la condanna tout court del sessantottismo è affidata su “Panorama” a Roberto Cotroneo, ripresa con decisione a fine 2005 anche da Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina, che giudicano il Sessantotto una sorta di grande deriva conservatrice, un movimento nato all’interno dei partiti che ha prodotto solo sterili utopie e ha bloccato l’evoluzione in senso riformista della sinistra italiana. Cotroneo considera il Sessantotto all’origine della catastrofe generazionale degli anni settanta (…) . A differenza di quello che accade in Francia o ancora prima negli Stati Uniti, dove le pulsioni libertarie e movimentiste producono innovazioni in tutti i campi sociali, “il 68 italiano, con tutto quello che ha generato, non fu affatto un movimento progressista, un movimento liberatorio, un movimento di modernizzazione del Paese, ma fu l’opposto”. Il critico è impietoso: parla di “una guerra civile, ma per cancellare ogni traccia di modernità dall’Italia”, il “blackout” della fantasia rispetto al quinquennio 1962-1967, che ha prodotto le opere più originali in campo letterario (dal Gruppo 63 a Carlo Emidio Gadda), nel cinema (Federico Fellini o Sergio Leone), nel teatro (Carmelo Bene), nel loisir (il Piper). La povertà creativa del Sessantotto partorisce solo un “polverone, una violenza linguistica, una incapacità di pensare in modo lucido e moderno che non ha eguali, quanto a perversione culturale (…). Si tratta del movimento più reazionario e violentemente ideologico del nostro dopoguerra”. “L’ideologia come tradimento del Sessantotto”, dice Angelo Mellone.

“E’ stato il big bang delle idee sbagliate. Da quell’esplosione originaria si è sprigionato uno sciame di detriti ideologici che continua a offuscare i nostri cieli” , scriveva Riccardo Chiaberge sul Corriere Della Sera (2 aprile 1996).

“Insomma” – continua Angelo Mellone – “quello che negli Stati Uniti era accaduto con la beat generation, in Italia è stato soffocato dalla blindatura politica della sinistra militante alle spinte di innovazione e di vera “rivoluzione sociale” presenti negli anni sessanta (…). Se oggi può sembrare strano, personalità come Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, William Burroughs, i figli dei fiori o i vagabondi autostoppisti hanno rappresentato per la sinistra militante e il suo apparato di critica intellettuale una pericolosa miscela di individualismo e spiritualismo, di ribellismo e insubordinazione, riottosa a essere incanalata nella camicia di forza delle ideologie e, ancora di più, intrasportabile nelle rigide discipline gruppettare che, per così dire, hanno demolito la tensione emancipatrice che ha reso davvero “formidabili” gli anni sessanta e l’hanno congelata nella violenza del conflitto politico”.

Negli anni della mia adolescenza, tra i ’70 e gli ’80, lo ricordo bene, talvolta avvertivo un disagio nel vivere il mio rapporto con la musica. Riuscivo a coglierne le migliori vibrazioni e contenuti, ma certe volte provavo imbarazzo quando ad esempio, per poter fruire di quel mondo, ero costretto a mescolarmi con gli utenti delle Feste dell’Unità: ero un ragazzo borghese. L’organizzazione dei maggiori eventi musicali si incanalava spesso nei binari delle piccole o grandi manifestazioni politiche, la qual cosa costituiva talvolta fonte di equivoci e suscitava una certa ritrosìa in chi non trovava proprio naturale prendere parte a quegli eventi. Erano anni in cui, specie al Sud – tradizionalmente sempre meno avvezzo alla partecipazione politica e alla socialità pubblica rispetto al più focoso Nord Italia – ci si esponeva il meno possibile, si cercava di tenersi a prudente distanza dai facili tumulti sociali, e si temeva che i propri comportamenti potessero essere pericolosamente classificati. Non mi piaceva l’idea di essere identificato con una frangia politica verso cui nutrivo diffidenza, e per questo motivo le Feste dell’Unità le frequentavo ugualmente, certo, ma con circospezione. A volte avevo proprio la sensazione che i ragazzi, irresistibilmente attratti dalla musica, fossero quasi “addescati” da un meccanismo che imponeva loro, come un prezzo da pagare, di doversi sorbire un comizio o una qualsivoglia forma di predica a sfondo politico. Mi ritrovavo in una folla festante accomunata da ideali che venivano urlati e condivisi con gesti estroversi: mi sentivo un “infiltrato”.

La cultura musicale era fortemente “appaltata” da quella politica, tanto che diveniva quasi automatico mescolare passione per la musica e passione politica, identificare gli appassionati di musica con l’area variegata dei militanti a vario titolo, fiancheggiatori o anche solo moderati sostenitori di certe idee. Con la medesima circospezione mi avvicinavo anche ai contenuti della musica che amavo: in verità non mi capitava poi così frequentemente di rinvenire quelle affinità che tutti davano per scontate con quella cultura di sinistra che tali affinità invece ostentava. Ma siccome questa commistione tra i valori del rock e quelli di una certa politica era un dogma così diffuso da non poter essere neppure messo in discussione, anche quando parlavo di contenuti cercavo prudentemente di non dare troppo l’impressione che la mia passione musicale implicasse necessariamente anche un’adesione a quei valori paralleli che, secondo il costume e la cultura sociale dominante, risultavano sottesi alla mia musica. La società borghese in cui vivevo, insomma, mi suggeriva di parlare di musica e di esternare la mia attrazione verso il fenomeno musicale con una certa pacatezza, direi quasi con un certo pudore. Aderire in modo pieno e incondizionato ai modelli (anche solo estetici) che il mondo del rock sembrava voler proporre, equivaleva ad assumere posizioni antagoniste, antiborghesi, alternative.

Non riuscivo a capire le ragioni di questo equivoco. Pensavo che i contenuti della mia musica non fossero, in realtà, gli stessi che la sinistra cercava di supportare. Credevo che questa identificazione dell’ideologia di sinistra con la mia musica e i miei eroi fosse il frutto di un fraintendimento, o forse no: forse quegli artisti erano davvero come la società politicizzata italiana me li descriveva e dunque ero io, per la mia giovane età, a non essere in grado di coglierne autenticamente i messaggi. Ero confuso. Ma permaneva in me la convinzione (indimostrabile) che l’espressione artistica dei Genesis, dei Pink Floyd, dei Led Zeppelin e di tutti gli altri, fosse un’enormità tale da non poter essere ristretta nella “blindatura politica” e nella “camicia di forza delle ideologie” con cui oggi Angelo Mellone efficacemente descrive quegli anni. Avevo 16-18 anni, non sapevo trovare le parole per dirlo, ma sentivo che anche il più becero dei borghesi potesse legittimamente tuffarsi in quella corrente impetuosa di suoni, parole e sentimenti che il mondo del rock diffondeva. Una corrente evoluta, portatrice di significati ben più alti delle interpretazioni demagogiche e riduttive offerte da schiere di interpreti sordi e miopi, prigionieri di un’ideologia che cercava disperatamente di avvalersi dell’Arte, di fruirne come mezzo, anziché come fine.

Nel 2008 viene pubblicato in Emilia un libro strepitoso: “Correggio Mon Amour – Storia di storie della musica rock in una città della provincia emiliana” (Lucio Lombardo Radice Editore, ISBN 978-88-960620-0-5), ponderoso volume documentaristico di 500 pagine che raccoglie documenti, immagini e testimonianze scritte da oltre 70 autori su fenomeni di costume, cronache ed eventi legati alla diffusione della musica popolare a Correggio, sede per oltre vent’anni di gigantesche feste dell’Unità che ospitarono, anno dopo anno, i più grandi nomi del rock mondiale. Nel volume si susseguono fatti e opinioni che illustrano in modo davvero ampio e avvincente il quadro sociale della provincia, dei suoi rapporti con la musica, i tratti salienti della vita culturale, i giri di boa tra le epoche che cambiano, le problematiche di un territorio con tutto il suo bagaglio di aspirazioni, storia e prospettive. Un caleidoscopio straordinario di storie, forse unico nel panorama dell’editoria musicale italiana. Di questo libro, la prima cosa che dovrebbe dirsi è questa: meriterebbe un premio letterario già solo per la sua portata documentaristica e la sua intensità, ma ne meriterebbe molteplici altri per il modo in cui illustra gli atteggiamenti culturali sottesi al rapporto tra musica e società.

Tra le tante affermazioni suggestive e luminose contenute nel libro, mi colpiscono quelle di un organizzatore delle feste dell’Unità, Guido Pellicciardi: “ … Mi è stato chiesto di raccontare i perchè di trent’anni di musica rock alle feste dell’Unità: perché la cultura rock era una cultura fortemente connotata a sinistra”. “Il perché i comunisti e poi i diessini di Correggio alle loro feste dell’Unità abbiano voluto organizzare tanti concerti di rilievo, penso abbia almeno tre diverse motivazioni. La prima è culturale ed è relativa a una certa adesione, soprattutto dei giovani della locale Fgci a valori ed espressioni che il rock ha promosso tra le generazioni di allora cresciute tra gli anni ‘60 e ’70 e, in parte, ancora negli anni ’80. La seconda ha una valenza più strettamente politica, legata alla volontà del partito di Berlinguer, anche e forse soprattutto a Correggio, di cercare insistentemente di avvicinare i giovani attraverso la musica, di calarsi nel loro mondo per riaprire un canale di comunicazione che, alla fine degli anni ’70, dopo l’esplosione del “movimento del ‘77”, sembrava essersi paurosamente ostruito: anche in quest’ottica vanno valutate le aperture verso la musica punk, new wave e più complessivamente, della cosiddetta scena alternativa che vennero gradualmente effettuate a partire dai primi anni ’80 nella programmazione di diversi concerti. La terza motivazione è legata più a una serie di contingenze locali fortunate e virtuose (…)” . “Alla base della seduzione verso la musica rock, vissuta a Correggio dalla Fgci e dal Pci a partire dagli anni ’70, ci sono senz’altro alcune particolari rappresentazioni simboliche che questa musica ha espresso sul piano socio culturale e anche politico in particolare in Europa, nonostante il rock’n’roll sia nato negli Stati Uniti. Una musica (…) che diventa molto presto popolarissima tra i giovani e si configura come espressione di un’alterità ai costumi e ai modelli espressivi “borghesi”. I giovani, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, grazie al rock assumono una loro specifica connotazione generazionale: non appartengono più a un’età di passaggio, non sono più piccoli adulti, ma diventano una sorta di “classe sociale” autonoma, alla ricerca di proprie identità e culture differenti. Si afferma tra di loro la ricerca di mezzi espressivi diversi e alternativi all’establishment degli adulti”.

“Il rock’n’roll” – continua Pellicciardi – “accompagna e promuove nuovi miti e nuovi modelli sociali antagonisti a una società dominata da una borghesia ipocrita e decadente: nascono le figure del ribelle creativo, del consumatore alternativo, del naturalista romantico. Si (ri)affermano nuovi valori e si ricercano modelli esistenziali un po’ bohemien e senz’altro non convenzionali”. “Il rifiuto delle pratiche sociali e delle regole morali dei padri si manifesta attraverso lo spontaneismo e la creatività, la ricerca di relazioni interpersonali più solidali e pacifiste, un nuovo rapporto tra donne e uomini grazie alla rivoluzione femminista, una maggiore libertà sessuale con la teorizzazione dell’amore libero. Il viaggio “on the road” – complici i poeti e gli scrittori americani della Beat Generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, e film-simbolo come Easy Rider – senza meta e senza un fine preciso, se non quello di ritrovare se stessi in un mondo diverso più umano e libero, è l’archetipo della controcultura giovanile”.

Pellicciardi esalta questa “ricerca di una nuova spiritualità, di una dimensione libertaria, di uno stato di natura che esalta gli istinti e che viene altresì favorito da un diffuso uso di droghe leggere consumate preferibilmente in una dimensione collettiva”. “Non è un caso che tra le parole più utilizzate nel vocabolario rock di quegli anni si possano incontrare definizioni come “essere liberi”, “pace e amore”, “tutti insieme”, oltre all’abusato “sesso, droga e rock’n’roll”. “Il concerto di Woodstock (…) e, più in generale il ballo rock costituiscono la massima espressione di questa ideologia” (ndr: colpisce come l’autore insista nel ricorso all’ideologia per fornire l’interpretazione dei fenomeni di cui parla, senza mai cogliere come l’ideologia, in quanto “sovrastruttura”, spesso si ponga in antitesi con lo “spontaneismo” e la “creatività” che egli stesso esalta). “A loro volta i filosofi della cosiddetta scuola di Francoforte – Theodor Adorno, Erich Fromm (il suo libro più famoso, “Avere o Essere?” diventerà presto un testo fondamentale, quasi un best seller) e Herbert Marcuse – con la critica dell’autoritarismo, a partire dalle istituzioni familiare e scolastica, alla “devastante” supremazia tecnologica e a un “oppressivo razionalismo positivista”, diventano i nuovi maìtre à penser dei giovani formatisi sull’onda del ’68 soppiantando ben presto Marx ed Engels. Il rock diventa anche la musica che meglio rappresenta e racconta gli ultimi, che sostiene le rivendicazioni di poveri, disagiati, oppressi,emarginati, di chi non si adatta a vivere secondo i canoni tradizionali e soprattutto di chi, “vittima dell’imperialismo”, lotta contro ingiustizie e umiliazioni: dai neri d’America e del Sudafrica ai popoli del Terzo Mondo in lotta contro le dittature. Che Guevara, Ho Chi Minh, Martin Luther King sono gli idoli di una generazione che ha creduto nella liberazione dall’oppressione dell’uomo sull’uomo e nella cancellazione delle ingiustizie a favore di un mondo migliore dove tutti potessero essere effettivamente liberi e uguali. Il sogno alternativo, l’utopia pacifista, la ricerca di una “vera” libertà individuale trovano in Bob Dylan e John Lennon, penso, la massima rappresentanza”.

Sono molteplici e indubbie le verità espresse nella sincera interpretazione della cultura rock offerta da Guido Pellicciardi, ma ciò che colpisce è la fiera ammissione di questo approccio programmatico (del resto, mai nascosto) verso quel fenomeno: un approccio così razionale, ma al tempo stesso così alterato da non consentire più distinzioni tra il contenitore e i contenuti. Era una volontà di identificazione tanto forzosa e ostinata da riuscire a offuscare il rock come forma d’arte aperta ad ogni contenuto, a ingabbiarne il linguaggio, e quindi il suo stesso pubblico: non si riusciva a vedere che l’immenso popolo di utenti della musica comprendeva una massa non marginale di persone totalmente indifferente, estranea, se non proprio antitetica, alle lotte di Che Guevara, agli scritti di Marcuse, e perfino a certi contenuti specifici della contestazione espressa dallo stesso John Lennon.

In modo meno dogmatico, e forse anche più divertente, un altro autore testimonia il momento della nascita delle radio libere a Correggio. Stefano Ligabue racconta: “Tra la seconda metà del ’76 e l’inizio del ’77 la Fgci correggese è alle prese con un allentamento del rapporto con la sua base e con i giovani in generale. Nei circoli si dibatte sui metodi di recupero del rapporto e una delle soluzioni più gettonate è sicuramente la costituzione di una radio. Finalmente, il 26 maggio del ’77, la “Commissione radio” arriva a una prima Bozza per la costituzione di un’emittente radio. L’impostazione è spiccatamente politica e sociale. La musica ha un ruolo marginale e di riempimento, tanto che il documento stabilisce graniticamente quale musica si può trasmettere e quale no. Ci rendiamo conto che la musica avrà anche qui un notevole spazio ma saranno fatte delle scelte precise. La musica che avrà maggior spazio sarà quella popolare, folk, alcuni tipi di musica rock, liscio. Sono escluse dalla trasmissione le cosiddette canzonette e per intenderci la soul music (con scelte ben precise). L’ala musicale è una minoranza entusiasta, ma la leadership (e i soldi) sono senza dubbio nelle mani dell’ala militante. Fatto sta che, in breve tempo, risulta abbastanza evidente che l’ascolto e l’impatto sociale e politico rasentano lo zero” .

E lo stesso Pellicciardi, nel rivangare aneddoti che oggi possono far sorridere, parlando del rapporto tra la Fgci e la musica, “quella, ovviamente “impegnata” ricorda: “Nella Fgci di Correggio c’era stato anche chi teorizzava il sabotaggio delle discoteche e della loro musica commerciale, con la motivazione che la disco-music allontanava i giovani dall’impegno e dalla politica: una posizione perdente, che venne presto sconfessata dalla maggioranza dei giovani figiciotti che non aveva alcuna intenzione di rinunciare a frequentare i locali da ballo alla ricerca in particolare dell’altro sesso” .

Per quanto mi riguarda – e per restare alle mie adolescenziali inibizioni borghesi – non nutrivo alcun pregiudizio sulla militanza di sinistra, di destra o sugli equilibrismi centristi che registravo nella società borghese del Sud Italia in cui vivevo: semplicemente, non riuscivo a soffermarmi sulla correlazione tra le idee e la musica che ascoltavo, persino quando gli artisti si esprimevano in modo esplicito a favore o contro alcune di esse. Era una correlazione che non trovavo necessaria: i Led Zeppelin per me potevano dire tutto e il contrario di tutto, li avrei amati comunque, come si ama la pura Arte , anche quando esprime l’esatto contrario di ciò che siamo o pensiamo. E con la maturità ho poi imparato a sorridere su quel tentativo di appaltare la musica, di strumentalizzarla: un peccato veniale, commesso, in fondo, un po’ ovunque, a tutte le latitudini ( la stessa Woodstock , del resto, costituì un innegabile momento di propaganda di stili di vita e di pensiero che alcuni agitatori e promotori, in qualche modo, cercarono ad ogni costo di introdurre nel festival. L’irruzione sul palco di Abbie Hoffman durante l’esibizione degli Who, per spingere il pubblico alla protesta contro l’arresto di John Sinclair, condannato a dieci anni di carcere per aver offerto due spinelli a un poliziotto, ne costituisce l’episodio esemplare: vicenda poi passata alla storia del festival come unico momento di violenza esplicita, quella di Pete Townshend, che respinge l’irruzione di Hoffman scaraventandogli una chitarra in testa). Con gli anni ho accettato che la strumentalizzazione costituisse un effetto quasi fisiologico, proprio per le caratteristiche che la musica popolare aveva espresso sin dai suoi esordi, negli anni 50 e 60, come strumento di comunicazione, aggregazione e spesso protesta.

Non potrò, insomma, addebitare troppo agli amici di Correggio e di tutte le feste dell’Unità della nostra italietta quell’assalto ideologico che mi inibiva, impedendomi di abbandonarmi a un ballo liberatorio nel bel mezzo di una festa popolare. Regredire sino al ballo primordiale, abbandonarmi agli stati alterati di un light-show di San Francisco, forse non mi sarebbe riuscito neppure nell’America dell’Era Hippie, dove queste performance liberatorie in effetti si manifestavano – anche lì – nel bel mezzo di atmosfere sociali talvolta anche più tumultuose delle nostre e tutt’altro che rassicuranti : ero un ragazzo borghese, ciò che percepivo non potevo che viverlo secondo la mia indole.

Ma quel medesimo assalto ideologico, che ricaviamo dagli spunti di “Correggio Mon Amour”, o quelle manifestazioni comportamentali che rivediamo in “Woodstock: 3 Days Of Peace and Music”, assumono oggi un significato prezioso e più ampio per comprendere i segni di questo tramonto della cultura rock al quale nessuno era preparato.
L’era post moderna e post ideologica, innescata già dagli anni ’80, ha senz’altro avuto la caratteristica di non richiedere alla Musica un ruolo così trainante per la diffusione di stili di vita, ideologie e forme di comunicazione;
I musicisti, liberati da questo ingombrante fardello, si sono assestati nella dimensione loro propria, quella di artigiani del suono, compositori, esploratori di sonorità, e col ripiegare sul solo fattore-musica hanno trovato la propria naturale condizione, uscendo, però, sempre più, e progressivamente, dal privilegiato consesso dei “comunicatori” ;
Le nuove forme di esperienza collettiva, di condivisione e di scambio, sono state appaltate dalle reti telematiche, dai social network, dalla comunicazione globalizzata che non ha bisogno del veicolo di una canzone per propagare ebbrezza ed emozioni;
L’emozione di massa, polverizzatasi in una miriade di micro-masse (quella dei sostenitori delle squadre di calcio, dei cultori dell’ufologia, del sesso virtuale, delle dotte accademie scientifiche, politiche, e delle infinite nicchie telematiche globalizzate per interessi specifici) ha finito col ridimensionare quel mondo che ruotava attorno alla cultura musicale e che su quella stessa emozione di massa fondava la propria legittimazione;
L’assenza di domanda, da parte del pubblico, non tanto di musica, quanto di “ruoli” trasmessi attraverso la musica, ha dissolto, insomma, nell’arco di un decennio tutta quella “sovrastruttura” che da una parte arricchiva i fenomeni musicali, e dall’altra li snaturava;
E quell’assimilazione tra musica e valori sociali, che produceva stili di vita e costumi, d’un tratto, è divenuto il retaggio di un’epoca lontana.

Dai ‘revival’ di culto per reduci, alla saga di History Channel, dunque, il passo è breve.

Giuseppe Basile © Geophonìe.
(13.08.2009) Diritti riservati