Amici,
ieri sera ho rischiato la vita (e la macchina fotografica) al concerto dei White Stripes. Non mi capitava dal 1993 (quando vidi Robert Plant al Festival Blues di Pistoia. Come quella sera, infatti, all’improvviso ieri mi ritrovo in mezzo ai ragazzi che “pogano” in modo violentissimo su tutto il parterre del palasport di Bologna. Un pubblico di età media tra i 20 e i 25 anni. Ero a dieci metri, anche meno, dal palco, ma appena è iniziato il concerto, violentissimo, la folla è impazzita letteralmente, e ha iniziato a ballare a spintoni e giravolte pazzesche. C’era anche chi rotolava sulle teste del pubblico, a corpo morto, lanciato in aria da un gruppo all’altro. Spaventoso. Dopo i primi cinque minuti ho deciso di andare indietro, ma la situazione era disagevole anche nelle retrovie. Fittissimo, infatti, era il pubblico sul parterre, tanto che poi, verso la fine, mi sono fatto forza e a spintoni ho riconquistato le prime file, ma in una posizione meno centrale rispetto al palco: lì, finalmente, sono riuscito a fare una quindicina di scatti.
Il concerto non mi è piaciuto perchè la composizione mi è parsa povera, poco originale, anche se ricchissime erano le sonorità. Lui, Jack White, devo ammettrlo, mi è risultato alquanto antipatico, interpretava un po’ la figura di un pazzo che invoca il satanismo (in modo retorico e involontariamente umoristico) e che inevitabilmente finiva con lo scimmiottare Angus Young, o Plant, o Ozzy Osbourne, o altri. Tutte pose già viste. Notavo però che i giovanissimi non coglievano queste imbarazzanti parentele artistiche, a tutto sfavore di Jack White ovviamente.
A un certo punto il Nostro ha accennato le note di “In My Time Of Dying”, dei Led Zeppelin (di Physical Graffiti), e ho rilevato che nessuno si è scomposto: non la conoscevano (e quindi non conoscevano nemmeno la versione originale di Bob Dylan che è l’autore). Lei, invece, Meg, mi è piaciuta moltissimo, con quella faccia da gatta malefica ma al tempo stesso bella, sensuale, percuoteva le percussioni come una bambina di cinque anni e con uno stile personalissimo: un’immagine che forse resterà nel mondo del rock, chissà.
E’ stato un tipico concerto heavy metal, caratterizzato da quella voglia irresistibile (tipica di questo genere di musicisti) di fare un casino infernale a suon di effetti, echi e riverberi chitarristici. Godono nel fare casino, nel fare ostentati virtuosismi chitarristici e nel cantare in modo sgraziato, a discapito della sostanza compositiva: non si preoccupano di trovare un motivo forte di composizione. I White Stripes di ieri sera hanno insistito su melodie corali nelle quali questo pubblico suggestionabile si sente unito, accomunato da quel senso di ubriacante appartenenza a una immaginaria schiera di adepti, adoranti di questo nuovo mito musicale e dei simbolismi inutili che questo si porta a corredo. Non possono disconoscersi, però, le notevoli abilità tecniche di Jack, la sua potenza sonora, la sua capacità interpretativa. Può non piacere, certo, ma chi predilige questi stili musicali trova nella sua performance uno spettacolo degno di rilievo.
Fatta eccezione per lei, Meg, che per la sua atipicità, scenica e tecnica, vale un viaggio, la serata mi è risultata tutto sommato evitabile, ma devo essere sincero: forse semplicemente non è il mio genere.
Giuseppe Basile © Geophonìe.