Dobbiamo fare uno sforzo: essere obiettivi. E per noi di Geophonìe, trattandosi dei Simple Minds, la cosa risulta difficile. Non possiamo negare un affetto profondo verso Jim Kerr e soci, lo nutriamo da anni: precisamente da quella sera del 7 luglio 1983, quando la band approdò a Taranto, la nostra città, e ci regalò una serata che è rimasta scolpita nel ricordo collettivo, un pezzo di storia della musica a Taranto, ma anche un pezzo della “nostra” storia personale. Se oggi questa piccola associazione culturale esiste lo dobbiamo un po’ anche a loro, a Jim e alla band.
Fummo talmente felici di quell’evento che in seguito abbiamo fatto di tutto per documentarlo, conservarne ogni traccia utile e mantenerne vivo il ricordo. Fu un momento di gloria, anche personale, per chi lo organizzò.
Ma inseguire gli eventi irripetibili è pericoloso. Ci abbiamo provato tante altre volte a ricreare quell’atmosfera, quel trasporto collettivo, abbiamo cercato di sostenere quella passione, ma un momento come quello non si è più ripetuto. Anche il nostro libro, “80 NEW SOUND, NEW WAVE” , in fondo era finalizzato a questo. Lo abbiamo regalato a Jim Kerr a Milano, dopo il concerto, lasciandolo speranzosi nelle mani di un addetto alla sicurezza ( … l’avrà ricevuto? Chissà! Ci piacerebbe saperlo). Volevamo che lui conoscesse la nostra storia, che potesse scoprire come di quel concerto si sia parlato per anni, tanto da arrivare a scrivere un libro per spiegare “che-cosa-accadeva-in-una-città-di-provincia-quando-negli-anni-80-passavano-i-Simple Minds” (… ma anche gli Ultravox, i Bauhaus, i Sound e Siouxsie, i New Order e gli altri …).
E’ pericoloso, talvolta, coltivare l’illusione di poter rivivere antiche emozioni in una nuova realtà, quella di oggi, in cui le sonorità dei Simple Minds non possono che risultarci scontate ed è inevitabile che non ci sorprendano più. In questi casi, quando si va al concerto con lo spirito dei fans, persino il critico musicale freddo e imparziale, forse, finisce col risultare più indulgente. I fans non sono obiettivi, i fans pretendono. Di declino, di tempo che passa, loro non vogliono sentir parlare. Sono consapevoli che una certa sonorità, un certo ‘stile’ oggi non può essere altro che revival, ma confidano che la propria band riuscirà a far dimenticare tutto questo. Il critico musicale, in fondo, direbbe che la band ha superato brillantemente questo ennesimo esame. Anche l’ultimo disco viene apprezzato dalla stampa specializzata e la folla, del resto, è uscita dall’Arena Civica felice e soddisfatta. Ma i fans del gruppo, quelli che hanno atteso molti anni per vederlo, pur nella gioia collettiva, commentano la serata in modo vario.
Un ragazzo dice: “Li avevo visti a Roma negli anni 80, dopo vent’anni eseguono tutti i brani alla stessa maniera”. Lo dice con rammarico.
“Se un artista si ripresenta su un palco dopo diversi anni, immagino che lo faccia perché ha voglia di dire qualcosa”, commenta una signora non giovanissima. Nessuna sorpresa, insomma. Sembra che i Simple Minds vogliano a tutti i costi assomigliare a sé stessi, senza concessioni ad alcun tipo di sperimentazione, né sonora, né compositiva. Il concerto è un recital. Si parte con “Waterfront”, con “I Travel”, si prosegue con Someone, Somewhere in Summertime”, “Glittering Prize”, “Promised You a Miracle”, “New Gold Dream”, “See The Light”, intervallate da poche novità, quelle dell’ultimo disco, un lavoro anch’esso molto allineato allo stile della band. “Moscow Underground”, il brano di punta di questo nuovo “Graffiti Soul”, assomiglia moltissimo alla fortunata “Home” del loro disco precedente.
Ma un po’ tutta la resa dei brani, anche nella versione in studio, appare sempre ferma su uno stesso clichè: scelta che oggi, forse, può apparire opinabile. Se nel 1983 aveva un senso proporre un unico trend sonoro, perché quello era il momento di mostrare al mondo intero quel nuovo sound in cerca di affermazione, questo perseverare oggi lascia perplessi.
“Ma è poi proprio obbligatorio dover cambiare sempre e comunque?” Dice di un ragazzo. “Quello che conta è avvertire la sincerità di una proposta artistica. Loro suonano così perché hanno voglia di suonare così”.
L’immutabilità di una formula, invece, secondo altri è mestiere, più che proposta artistica. Jim però, in effetti, appare sereno, si diverte, appare spontaneo, non ha l’atteggiamento graffiante dei primi ’80 ma appare appagato e felice. “Bellissima serata, Milano!” “Nessuno ha voglia di andare a dormire”, dice durante la performance.
Si sussegono “Belfast Child”, “The Dolfins”, “Alive And Kicking”, “Sanctify Yourself”, “Ghostdancing”, ma anche “This is it” dall’ultimo album a chiusura dello show, in una scenografia scarna che non sostiene adeguatamente i brani eseguiti.
Anche il modo di stare sul palco non registra variazioni di rilievo. Le mosse di Jim, quelle che ci sono rimaste scolpite nella memoria, come quelle del Live Aid, sono le stesse. C’è una sorta di parodia di sé stessi in questo, anche se espressa in modo sereno e rilassato, disinvolto. Non vogliono dimostrare nulla i Simple Minds (… e questo è il guaio!).
Un ragazzo giovanissimo, guardando Charles Burchill, dice: “Somiglia a Facchinetti, al chitarrista dei Pooh”. “No” – dice un altro – “Non a Facchinetti, a Red Canzian. Facchinetti non è il chitarrista, è il cantante, è il padre di DJ Francesco”. A sentire questo scambio di battute mi viene la malinconia. Vorrei che la mia band riuscisse a produrre un nuovo miracolo sonoro e compositivo, ora che ce n’è tanto bisogno, e che il pubblico fosse lì, zittito e rapito da una novità sconvolgente. Preferirei il silenzio e lo stupore della novità al facile successo del concerto-karaoke, quello del canto collettivo sollecitato da Jim, che più volte rivolge il microfono verso la folla. Ma in fondo è una festa di compleanno, forse non si può chiedere di più. O forse sì: sarà pure un compleanno, ma è quello dei trent’anni, quello di una maturità anagrafica che dovrebbe proiettare questi artisti verso un ruolo di guida, anzichè verso espressioni autocelebrative che si risolvono in un beneficio più per il cuore che per la mente.
Giuseppe Basile © Geophonìe