Assistere a un concerto di Rokia Traorè è esperienza ormai inusuale, vista la misura di assuefazione raggiunta dal pubblico a sonorità finte, sintetiche e digitali. Come pure assai inusuale, in uno spettacolo, è ritrovare la sensazione di sprofondare nella contemplazione di una dote ormai sconosciuta alla maggioranza degli artisti oggi in circolazione: la naturalezza. E’ un concerto naturale, quello di Rokia Traorè: come la Terra, il Cielo, gli Alberi, i Sentimenti, l’Energia. E naturali sono le sonorità, saldamente africane, ove solo gli arrangiamenti rockeggianti (sovrastrutture) ne scalfiscono il tessuto. Come naturale, liberatorio, esplosivo, è il ballo di lei sul palco, un concentrato di energia gioiosa, di energia “buona”, quella capace di annientare il male, il dolore, le debolezze, le fragilità dell’animo umano. Rokia Traorè è un personaggio di un magnetismo unico al mondo, quelli che la conoscono lo sanno bene, e sono tutti d’accordo, unanimamente, nel riconoscerle la statura di artista internazionale di prima grandezza. Un gigante, una grande regina africana, chiara, limpida, lineare nelle sue idee, saggia. La sua musica è lo specchio esatto di questa saggezza. Una saggezza che implica conoscenza, studio, dedizione, sia alla musica che all’anima. Il concerto del Campovolo, dopo un pomeriggio di intensa pioggia che lo ha messo a rischio, è un concentrato di questi valori, musicali e di contenuti. Senza pose da diva, senza fronzoli inutili, lo spettacolo è tutta sostanza. Sostanza e bellezza. Gioia. Con momenti di crescendo travolgenti, ritmiche afro e accelerazioni fino a stati di ebbrezza, ma anche nenie africane ipnotiche che nell’ossessiva ripetizione, come un mantra, ti conquistano lentamente sino ad avere totalmente ragione di te.
Un rituale africano, quello della lenta, inesorabile vittoria schiacciante, che nella lucida combinazione di sonorità acustiche, disturbate solo da una splendida chitarra elettrica graffiante e distorta, trova la sua piena realizzazione. La voce di Rokia, poi, è incantevole, flautata, con quei vibrati che lei sprigiona con naturalezza, come fossero qualcosa di semplice, di immediato, e che invece sono il frutto di una lunga storia di disciplina vocale e di professionalità.
Lei, quella voce, la modula con variazioni improvvise, anche con prove di forza, e momenti di rabbiosa intensità come certi brani drammatici del suo penultimo disco “Beautiful Africa” del 2013, lavoro eccelso che lascia stupefatti, ma che Rokia ha utilizzato meno del previsto nel concerto di Reggio Emilia, privilegiando com’è giusto l’ultimo suo lavoro, “Nè So”, con cui prosegue il suo percorso di commistione di tradizione e modernità, tra sonorità ambient acustiche tipiche del Mali di Ali Farka Tourè e ritmiche intermedie tra rock e funky che dal vecchio afrobeat di Fela Kuti giungono rielaborate fino ai giorni nostri: operazione, questa, che come molti artisti afro-francesi stanno in questi anni stanno realizzando.
Negli ultimi dieci anni non ricordo un solo artista, nel quale mi sia imbattuto, che sia stato capace di trasmettermi pari emozioni. La band di supporto è affiatata, potente e intrisa di un unico e corposo sound, un tessuto sonoro in grado di produrre un effetto talvolta straniante, talaltra unificante e travolgente, capace di condurre il pubblico nei territori dell’interiorità come dell’euforia collettiva, fino a culminare nel ballo smodato, libero, senza freni. La performance di Rokia, insomma, è di quelle che andrebbero portate sui massimi palcoscenici italiani, in una cornice diversa da quella offertale in una piovosa serata di festival di fine estate, ma che ieri sera lei, ugualmente, ha subito saputo conquistare, senza alcuna fatica e già dal primo brano, a discapito del freddo e del disagio climatico presto dimenticato da un pubblico facile preda delle note, in balìa di un canto difficile da dimenticare.
Giuseppe Basile © Geophonìe