“Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte”, diceva Oscar Wilde. Regola osservata in tante forme di espressione artistica, ma disattesa nella cultura rock, in cui, chissà perché, si pretende una sorta di aderenza dell’autore alla sua storia e la credibilità dell’artista, infatti, cresce quanto più egli riesca a identificarsi con ciò che interpreta.
“Non è così in letteratura e nemmeno nel cinema” – diceva Randy Newman (JAM n.52, ott.2008, p.43) – Non è necessario che Cormac McCarthy somigli allo sceriffo Ed Tom Bell, né pensiamo che dietro a Jack Torrance ci siano necessariamente le idee e i sentimenti di Stephen King o Stanley Kubrick. Eppure esigiamo che Bruce Springsteen sia nel profondo dell’anima uno di noi: la nostra capacità di credere nella sua musica deriva in parte dalla sensazione che egli sia la canzone che canta. Ci fidiamo dell’uomo perché ci fidiamo delle sue canzoni”.
Bel problema. Se è questo, allora, il meccanismo comunicativo che si instaura tra artista e pubblico, come deve porsi un artista tra i quaranta e i cinquant’anni ogni qual volta gli sia richiesto di interpretare un brano dei suoi vent’anni nel quale non si riconosce più?
Salgono sul palco dell’Estragon i PAVEMENT, acclamata band anni ’90 che trovò un lunsinghiero successo internazionale per aver saputo esprimere, in modo davvero realistico, sincero e autentico, le smanie sonoro-mentali dei ventenni di quel decennio. Portavano sul palco, ma esprimevano anche nei testi e nelle sonorità, un atteggiamento mentale e culturale, tipico dei ragazzi di quel periodo. E lo facevano con una trascinante ed encomiabile genuinità artistica. Scanzonati, ciondolanti, caotici come il popolo grunge (da cui comunque si differenziavano), esprimevano una visione trasversale e originalissima nella scena musicale dei ‘90. Le melodie ebeti si mescolavano alle ballate, gli avventurismi chiassoni e cacofonici si susseguivano a momenti di intimismo e di splendide profondità compositive. Le interpretazioni erano cariche di energia che sprizzava da tutti i pori, di rabbia giovanile e di quell’impeto tipico dei ragazzi desiderosi di dispensare adrenalina e cuore, di esternare rabbia e dolore, di accaparrarsi amore e piacere, ricercando in ogni possibile direzione la strada per soddisfare tutte queste interiori urgenze. Un vagare senza meta, alla fine incocludente, era la loro musica: un manifesto artistico assolutamente evoluto nell’esprimere quella fase di crescita, ma per questo difficile, oggi, da rappresentare, col senno di un’altra età.
“Malkmus è ancora identico allo spilungone che sbatacchiava qua e là la chitarra … Stessi giochi scomposti, con la sei corde e la relativa tracolla, stesso atteggiamento scazzato” – commenta Davide Poliani su rockol (http://www.rockol.it/news-143816/Pavement—Estragon-Bologna-25-05-10) – “… Certo, Spiral Stairs si è per lo meno irrobustito, e quella coppola incomprensibile che ormai tiene sempre in testa potrebbe nascondere una calvizie incipiente, ma sono solo dettagli. I Pavement sanno che è un reunion tour …..e i pezzi forti ci sono tutti ….. Ma stanno tutti al gioco, perché quando un gruppo così si riunisce, la ragione che spinge la gente a mettersi in macchina e farsi qualche centinaio di chilometri è vedere la magia ricrearsi. E i Pavement, la magia, hanno saputo ricrearla alla perfezione”.
Vero.
Sottoscrivo parola per parola il commento di questo spettatore-fan-giornalista. I Pavement hanno suonato benissimo e tenuto il palco con grandissima vitalità, voglia di esserci, energia. Hanno scatenato quel disordine (anche scenico) col loro alternarsi confusamente, tipico dei loro spettacoli, contagiando il pubblico. Bravissimi, veramente. Il problema, però, è che è “revival”. Anche dieci anni possono diventare un tempo lungo per come siamo abituati, ormai, a veder susseguirsi mode e costumi. Il mondo e i pensieri cambiano rapidamente, e anche noi, già dopo dieci anni, non siamo più gli stessi. “Stiamo al gioco”, dunque, come dice il commentatore Davide Poliani. E godiamoci pure la “magia” (artificiosamente ricreata, con professionalità e mestiere, per carità … ma anche, se vogliamo, con qualche trovata scenica un po’ abusata: penso allo strip di scarpe e calzini di Spiral, più rievocativo che necessario, e a certe pose ormai stantie, un clichè: l’originalità, del resto, dura lo spazio di un mattino. Poi diventa autocelebrazione). La magia fa sempre bene, ma l’autenticità, “l’aderenza dell’autore alla sua storia” è normale che non possa percepirsi più. Abbiamo quarant’anni noi, e ce li hanno anche loro. Ieri era tutto cuore, oggi è un “come eravamo”, è “interpretazione”, anche se di tutto rispetto. Ma coi tempi che corrono, con le magre emozioni che la musica attuale ci sta dispensando, va bene anche così.
Setlist:
Gold Soundz / Grounded / Ell Ess Two / Kennel District / Cut Your Hair / Father To A Sister Of Thought / The Hexx / Zurich Is Stained / In The Mouth A Desert / Two States / Silent Kid / Unfair / Stop Breathin’ / Rattled By The Rush / Here / Perfume-V / Shady Lane / Debris Slide / We Dance / Trigger Cut / Spit On A Stranger / Summer Babe / Fin // Date With IKEA / Stereo / No Life Singed Her /// Range Life
Giuseppe Basile © Geophonìe