Sul palco del Made in Bo salgono i Deep Purple, di fronte a un pubblico non numeroso e composto per lo più da “reduci e combattenti”. In verità sembra più nutrito il gruppo dei reduci, piuttosto che quello dei combattenti. I giovani, infatti, quelli sotto i trent’anni, si contano sulla punta delle dita e in fondo è giusto così. I padri dell’hard rock continuano a esibirsi in tutto il mondo di fronte a generazioni di musicofili che si recano a vedere i loro concerti indossando la maglia dei Metallica, dei Motorhead, degli Iron Maiden e dei Black Sabbath: dei discepoli dei Deep Purple, in definitiva. Quindi è chiaro che ormai il concerto che portano in scena non può che essere una sorta di visita alle vestigia degli antichi padri, una visita archeologica.
L’hard rock dei Deep Purple suona oggi quasi come una soft music, in confronto con quello che è sorto dopo il loro avvento. E Ian Gillan e soci lo sanno bene. Per questo non ci provano neppure a gonfiare il concerto, a renderlo altisonante, a ripristinare d’autorità una distanza irrimediabilmente perduta col mondo dell’hard, e non più recuperabile. Non fanno, insomma, quello che ad esempio farebbero i Rolling Stones, sempre occupati a tenere alto il proprio mito, sempre impegnati ad architettare tournee maestose e tronfie, con suoni e scenografie ingigantite. I Deep Purple preferiscono prendere atto del tempo che passa e scendono in pista con un concerto in perfetto stile anni 70, senza cambiamenti particolari negli arrangiamenti dei pezzi celebri. Si presentano, cioè, come un classico, da rivedere e risentire per quello che è. Del resto, particolari vette non si possono obiettivamente raggiungere: Ian Gillan appena entra sul palco procede con l’apertura obbligata, l’unica concepibile, quella “Higway Star” di “Made in Japan” che è entrata nella leggenda, ma con la metà della voce. Cominciamo male. Sembra quasi che canti in falsetto, come i Cugini di Campagna di “Anima mia”, e non prende quasi mai di petto le note. A volte la voce sembra sussurrata, sembra addirittura un problema di audio.
In realtà, invece, il calo di potenza della voce del buon Gillan risulta notevole anche nel corso del concerto, ma dopo i primi momenti di smarrimento per questa deminutio il pubblico si abitua a questo standard canoro e non ci bada più. L’interpretazione vocale di Gillan in sordina sembra quasi contribuire a definire il concerto come una sorta di rivisitazione, come quando ci si ritrova a canticchiare a voce più bassa e con minore enfasi un brano famoso di tanti anni fa. Poi ci si rende conto che non c’è nemmeno Ritchie Blackmoore alla chitarra, nè Jon Lord alla tastiera, cioè tre quarti del gruppo. Sono assenze note da anni, ma sempre difficili da assimilare. Quando ci si trova di fronte ai Deep Purple automaticamente si pensa che ci siano anche loro. Li sostituiscono, però, degnamente, Steve Morse e Don Airey, sempre della famiglia Deep Purple (hanno suonato per anni con Blackmoore nei Raimbow, e collaborato con tantissimi gruppi hard rock e traditionals). E anche Ian Paice, ormai, è lontano anni luce dal micidiale assolo di “The Mule”, leggendario come ogni altro brano di “Made in Japan”.
Il concerto, comunque, fatte queste premesse, prende il volo con le ali di cui oggi dispone e senza complicazioni. E’ uno show anni 70, con cavalcate maestose di organo e pianoforte elettrico che si intrecciano, duettando, con altrettante scale di chitarra elettrica, sulla base corposa di basso e batteria dei due originari fautori della base ritmica dei Deep Purple, ovvero Roger Glover e Ian Paice. Roger appare quello più in forma del gruppo, vigoroso, con una linea di basso poderosa e quasi preponderante sul suono complessivo (pur in presenza di tanta chitarra elettrica e tastiera). Quel sound corposo del basso caratterizza tutti i brani eseguiti dai Deep Purple, anche quelli più recenti e che proprio per l’impostazione ritmica e il tipo di suono rotondo e rimbombante del basso sembrano composti anch’essi negli anni 70. Ma è giusto così. E’ il loro modo di esprimere la composizione musicale, il loro modo di tradurre in suono l’idea. Il mestiere fa il resto e gioca moltissimo nel concerto. Si vede che tutti hanno una padronanza e una scioltezza, una disinvoltura tipica di chi ha l’abitudine di stare sul palco ad alti livelli tecnici: eccetto Gillan, che usa molto mestiere per coprire, purtroppo, la sua minore potenza vocale. Anche lui, comunque, si difende con dignità assoluta, senza imbarazzo, tanto da far passare come normale, come accettabile, una diversa resa di quei brani. Brani che tanto, in ogni caso, fanno saltare il pubblico dei reduci, come nella immancabile “Smoke On The Water” e negli altri classici e meno classici, tutti graditi.
In perfetto stile anni 70 anche il momento degli assoli individuali e dei rispettivi virtuosismi: trionfante e faraonico quello delle tastiere di Don Airey, che spazia dal brano di musica classica “Alla Turca” sino al leit motiv di “Guerre Stellari”, passando per bufere psichedeliche e atmosfere rock blues datate e perciò di effetto; ipertecnico quello di Steve Morse, in stile da chitarrista metal moderno e quindi, necessariamente, con una minore dose di carisma. La chitarra metal è sempre un po’ impersonale e leziosa, se paragonata a quella di Blackmoore. Ma è il genere stesso, hard rock tradizionale, che esce un po’ malconcio dalla performance.
L’impatto è necessariamente di minore effetto dopo aver ascoltato un decennio di punk e un successivo decennio di grunge, perché l’hard rock alla Deep Purple è rimasto identico a sé stesso, così com’era, lontano dalle nuove contaminazioni, ma ritagliandosi la sua onesta fetta di mercato a dispetto dei ritmi più evoluti e delle evoluzioni musicali che dai Sex Pistols sino ai Nirvana hanno determinato un nuovo concetto di “energia” in musica.
Nel complesso, comunque, i Deep Purple si riaffermano con uno show per “amanti del genere”, da vedere senza troppe pretese e col giusto spirito della rievocazione. Voto più che sufficiente, sia per tasso tecnico, sia come Oscar alla carriera.
Giuseppe Basile © Geophonìe