E’ difficile spiegare le intenzioni di un gruppo ipercolto di musicisti riunitosi a sorpresa per esprimere l’arte di un illustre collega, altrettanto ipercolto, ma inimitabile, e perciò difficilmente interpretabile.
“Comicoperando si propone di rivisitare e reinventare il repertorio di Wyatt, pur rimanendo radicato alla tormentata inventiva del compositore e del suo spirito iconoclasta”, si legge nella nota del catalogo illustrativo della rassegna “L’Altro Suono”, al Teatro Comunale di Modena. “Il gruppo crea una diversità di stili e registri e presenta brani fondamentali, dagli esordi con i Soft Machine fino al più recente “sperimentalismo popolare” di Comicopera (2007), coprendo più di quarant’anni di storia musicale”.
In realtà, lo stupefacente ensamble di musicisti sul palco, un nonetto di livello senza eguali, sembra invece vagare tra una voglia di libera interpretazione, espressa però con indecisione e titubanza, e un desiderio di restare nell’ambito, più modesto, del “tributo” al grande maestro e amico.
In certi momenti lo spettacolo decolla e appare intellettualmente onesto, anche se non brillante. In altri, la reunion degli amici di Wyatt volta a rieseguire i brani celebri, prende il sopravvento e diventa esercizio di stile, restando nei binari di una piatta normalità.
Difficile l’approccio a Robert Wyatt, già solo per sostituire, nell’esecuzione di qualsiasi sua composizione, la sua voce, unica al mondo, inconfondibile, inimitabile persino per Richard Sinclair, che per sue doti naturali al timbro di Wyatt si è sempre avvicinato sino a mettere in difficoltà l’appassionato (nell’ascolto dei dischi anni 70 dei Caravan e dei Soft Machine si tendeva a scambiarli). La voce di Richard Sinclair poteva costituire l’alternativa giusta, forse l’unica possibile, per un’esecuzione degna di un tributo ai massimi livelli: ma Richard in tutto il concerto ha cantato poco, e quando lo ha fatto è parso freddo e ordinario, talvolta quasi pedissequo nel tentativo di cantare Wyatt senza rischiare.
Il rischio poteva risiedere nella scelta di discostarsi fortemente dall’interpretazione vocale originale – esprimendo quindi una volontà sperimentale e molto “artistica” – e spingersi sino a stravolgerla; oppure, il rischio Richard avrebbe potuto decidere di correrlo interpretando vocalmente Wyatt nella più totale aderenza al modello, ma a quel punto, per farlo, doveva tirar fuori tutta l’anima e il pathos, l’intensità che Wyatt ha sempre profuso nel suo cantare: e questo rischio Richard è sembrato non volerlo o saperlo sostenere.
E’ andata peggio a Dagmar Krause, altra grandissima interprete dell’ambiente wyattiano e fautrice delle sperimentazioni più estreme del Canterbury Sound con i suoi Henry Cow degli anni ’70. La Krause, già in naturale difficoltà per dover percorrere la strada inedita (e impervia) di un’interpretazione al femminile – tutta da trovare – per una composizione e una vocalità originariamente maschile, sembra aver incontrato una difficoltà ulteriore, costituita dai suoi limiti odierni: il suo cantato non rappresentava Wyatt, né lo rielaborava. E’ apparsa in difficoltà interpretativa nel brano “Maryan”, immensa armonia wyattiana che tutti hanno pensato bene di cantare coralmente, snaturando però quella vocalità esile e fragile che caratterizza la composizione.
Ma diversi brani celebri hanno mostrato una difficoltà interpretativa del gruppo e un’indecisione artistica. In “God Song”, in “Sea Song”, in “Calyx” è mancata l’idea risolutiva, o l’intensità, la drammaticità che solo Robert Wyatt sa infondere.
La più coriacea è apparsa Annie Whitehead al trombone, ma più per sue doti istrioniche e caratteriali che per un’effettiva sostanza sonora. Annie è stata la più brillante per presenza scenica e spirito di aggregazione, ma la sua carica suggestiva non ha del tutto colmato la sensazione latente di assistere a un progetto artisticamente lacunoso, o forse ancora in fase di sperimentazione e rodaggio.
Gigantesco, invece, come sempre, è apparso Chris Cutler, il batterista degli stessi Henry Cow, dei Pere Ubu, dei Brainville 3 (con Daevid Allen e il compianto Hugh Hopper). Chris Cutler, sperimentatore puro capace di superare ogni limite concettuale, riesce a oscurare i propri comprimari anche quando non si avventura in avventure sonore estreme e funamboliche. E’ strepitoso anche quando riesce a tenere la sua batteria in riga, senza lanciarla in progressioni free inconcepibili. Le sue sonorità, a sostegno dell’intero ensamble, equilibrate e calibratissime, sono state, come sempre, celestiali, pur senza rinunciare alle ritmiche originali, a quella ricerca che fa di lui un pittore della batteria: i suoi tessuti ritmici sono affreschi, saggi di improvvisazione, di disciplina e di visioni interpretative trasversali e imprevedibili. Un genio assoluto.
Il concerto, dal punto di vista tecnico, ovviamente non poteva certo deludere. Perfetti son stati Cristiano Calcagnile alle percussioni e Gilad Atzmon ai fiati, brillante tanto nei duetti con la Whitehead che nelle parti soliste. Ma anche Alex Maguire alle tastiere non poteva non costituire un elemento centrale per le sonorità espresse, decisivo nelle sue basi per caratterizzare la composizione wyattiana.
Sono mancati, insomma, un po’ di coraggio interpretativo e di interiorità a questi dotatissimi eroi di un’era musicale che si allontana sempre più, rispetto alla quale, forse, gli stessi artisti avvertono, per l’inesorabile avanzare dell’età, una distanza d’animo e una mutata disposizione artistica produttiva di un approccio fondato su una diversa sensibilità.
Setlist: 1.Pataphysical Introduction, 2.September The Ninth, 3.Little Red Robin Hood Hit The Road, 4.Just As You Are, 5.Calyx, 6.Memories, 7.Alifib, 8.God Song, 9.Maryan, 10.Alliance, 11.Sea Song, 12.Dondestan 13.O Caroline 14.Forest
Giuseppe Basile © Geophonìe