
Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)
Dobbiamo fare uno sforzo: essere obiettivi. E per noi di Geophonìe, trattandosi dei Simple Minds, la cosa risulta difficile. Non possiamo negare un affetto profondo verso Jim Kerr e soci, lo nutriamo da anni: precisamente da quella sera del 7 luglio 1983, quando la band approdò a Taranto, la nostra città, e ci regalò una serata che è rimasta scolpita nel ricordo collettivo, un pezzo di storia della musica a Taranto, ma anche un pezzo della “nostra” storia personale. Se oggi questa piccola associazione culturale esiste lo dobbiamo un po’ anche a loro, a Jim e alla band.

Jim Kerr, Simple Minds, Taranto, 07.07.1983 (Marcello Nitti © Geophonìe)
Fummo talmente felici di quell’evento che in seguito abbiamo fatto di tutto per documentarlo, conservarne ogni traccia utile e mantenerne vivo il ricordo. Fu un momento di gloria, anche personale, per chi lo organizzò.
Ma inseguire gli eventi irripetibili è pericoloso. Ci abbiamo provato tante altre volte a ricreare quell’atmosfera, quel trasporto collettivo, abbiamo cercato di sostenere quella passione, ma un momento come quello non si è più ripetuto. Anche il nostro libro, “80 NEW SOUND, NEW WAVE” , in fondo era finalizzato a questo. Lo abbiamo regalato a Jim Kerr a Milano, dopo il concerto, lasciandolo speranzosi nelle mani di un addetto alla sicurezza ( … l’avrà ricevuto? Chissà! Ci piacerebbe saperlo). Volevamo che lui conoscesse la nostra storia, che potesse scoprire come di quel concerto si sia parlato per anni, tanto da arrivare a scrivere un libro per spiegare “che-cosa-accadeva-in-una-città-di-provincia-quando-negli-anni-80-passavano-i-Simple Minds” (… ma anche gli Ultravox, i Bauhaus, i Sound e Siouxsie, i New Order e gli altri …).

Charles Burchill, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)
E’ pericoloso, talvolta, coltivare l’illusione di poter rivivere antiche emozioni in una nuova realtà, quella di oggi, in cui le sonorità dei Simple Minds non possono che risultarci scontate ed è inevitabile che non ci sorprendano più. In questi casi, quando si va al concerto con lo spirito dei fans, persino il critico musicale freddo e imparziale, forse, finisce col risultare più indulgente. I fans non sono obiettivi, i fans pretendono. Di declino, di tempo che passa, loro non vogliono sentir parlare. Sono consapevoli che una certa sonorità, un certo ‘stile’ oggi non può essere altro che revival, ma confidano che la propria band riuscirà a far dimenticare tutto questo. Il critico musicale, in fondo, direbbe che la band ha superato brillantemente questo ennesimo esame. Anche l’ultimo disco viene apprezzato dalla stampa specializzata e la folla, del resto, è uscita dall’Arena Civica felice e soddisfatta. Ma i fans del gruppo, quelli che hanno atteso molti anni per vederlo, pur nella gioia collettiva, commentano la serata in modo vario.
Un ragazzo dice: “Li avevo visti a Roma negli anni 80, dopo vent’anni eseguono tutti i brani alla stessa maniera”. Lo dice con rammarico.
“Se un artista si ripresenta su un palco dopo diversi anni, immagino che lo faccia perché ha voglia di dire qualcosa”, commenta una signora non giovanissima. Nessuna sorpresa, insomma. Sembra che i Simple Minds vogliano a tutti i costi assomigliare a sé stessi, senza concessioni ad alcun tipo di sperimentazione, né sonora, né compositiva. Il concerto è un recital. Si parte con “Waterfront”, con “I Travel”, si prosegue con Someone, Somewhere in Summertime”, “Glittering Prize”, “Promised You a Miracle”, “New Gold Dream”, “See The Light”, intervallate da poche novità, quelle dell’ultimo disco, un lavoro anch’esso molto allineato allo stile della band. “Moscow Underground”, il brano di punta di questo nuovo “Graffiti Soul”, assomiglia moltissimo alla fortunata “Home” del loro disco precedente.

Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009 Milano Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Simple MInds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)
Ma un po’ tutta la resa dei brani, anche nella versione in studio, appare sempre ferma su uno stesso clichè: scelta che oggi, forse, può apparire opinabile. Se nel 1983 aveva un senso proporre un unico trend sonoro, perché quello era il momento di mostrare al mondo intero quel nuovo sound in cerca di affermazione, questo perseverare oggi lascia perplessi.
“Ma è poi proprio obbligatorio dover cambiare sempre e comunque?” Dice di un ragazzo. “Quello che conta è avvertire la sincerità di una proposta artistica. Loro suonano così perché hanno voglia di suonare così”.
L’immutabilità di una formula, invece, secondo altri è mestiere, più che proposta artistica. Jim però, in effetti, appare sereno, si diverte, appare spontaneo, non ha l’atteggiamento graffiante dei primi ’80 ma appare appagato e felice. “Bellissima serata, Milano!” “Nessuno ha voglia di andare a dormire”, dice durante la performance.
Si sussegono “Belfast Child”, “The Dolfins”, “Alive And Kicking”, “Sanctify Yourself”, “Ghostdancing”, ma anche “This is it” dall’ultimo album a chiusura dello show, in una scenografia scarna che non sostiene adeguatamente i brani eseguiti.
Anche il modo di stare sul palco non registra variazioni di rilievo. Le mosse di Jim, quelle che ci sono rimaste scolpite nella memoria, come quelle del Live Aid, sono le stesse. C’è una sorta di parodia di sé stessi in questo, anche se espressa in modo sereno e rilassato, disinvolto. Non vogliono dimostrare nulla i Simple Minds (… e questo è il guaio!).
Un ragazzo giovanissimo, guardando Charles Burchill, dice: “Somiglia a Facchinetti, al chitarrista dei Pooh”. “No” – dice un altro – “Non a Facchinetti, a Red Canzian. Facchinetti non è il chitarrista, è il cantante, è il padre di DJ Francesco”. A sentire questo scambio di battute mi viene la malinconia. Vorrei che la mia band riuscisse a produrre un nuovo miracolo sonoro e compositivo, ora che ce n’è tanto bisogno, e che il pubblico fosse lì, zittito e rapito da una novità sconvolgente. Preferirei il silenzio e lo stupore della novità al facile successo del concerto-karaoke, quello del canto collettivo sollecitato da Jim, che più volte rivolge il microfono verso la folla. Ma in fondo è una festa di compleanno, forse non si può chiedere di più. O forse sì: sarà pure un compleanno, ma è quello dei trent’anni, quello di una maturità anagrafica che dovrebbe proiettare questi artisti verso un ruolo di guida, anzichè verso espressioni autocelebrative che si risolvono in un beneficio più per il cuore che per la mente.
Giuseppe Basile © Geophonìe

David Byrne, 22.04.2009, Modena (Giuseppe Basile © Geophonìe)
Sarà pur vero che tra i modelli della nuova società globalizzata non ci sono più le rockstar. Che la loro perdita di carisma e capacità comunicativa ha sdoganato ogni sorta di espressione sonora (sino ad annullarle tutte).
Che il pubblico, assuefatto alla promiscuità – anche qualitativa – si è abituato a ciondolare con indifferenza da un evento all’altro senza più dare troppo peso ai differenti valori artistici in campo: ma quando accade di imbattersi, anche per puro caso, in uno spettacolo come quello che David Byrne ha messo in scena sul palco del Teatro Pavarotti di Modena, è inevitabile rinsavire dall’ubriacatura consumistica di offerta musicale che ha saziato ogni nostra curiosità e reso i nostri neuroni resistenti a quasi ogni tipo di sollecitazione (quasi).
Girovaghiamo da anni senza meta, tra un concerto di Caparezza e uno di Ivan Segreto, tra una sperimentazione etnica e world e qualche stereotipata esibizione hip hop, tra i reduci del vecchio rock progressive (ormai li ritrovi ogni sera, ovunque) e i solitari e sconosciuti artefici del nuovo, una schiera di nuove promesse in perenne promozione e che non saranno mai promosse finchè si limiteranno alla sola ricerca “autistica” di belle sonorità, senza null’altro da dire. Sembriamo anime in pena, ma continuiamo a girovagare, un po’ per abitudine (andare a vedere concerti fa parte del nostro stile di vita e non sappiamo rinunciarvi, anche ora che non ce ne frega granchè di ciò che andiamo a vedere), un po’ per diletto (tutto sommato non si è ancora totalmente sopita la segreta speranza di vivere un’altra serata-mito, come quelle che si viveva da ragazzi, quando l’acquisto del biglietto tre mesi prima, e l’attesa fuori dai cancelli sei ore prima, erano riti preparatori per coltivare la nostra “identità”).

Giuseppe Basile © Geophonìe
Questo girovagare, insomma, per fortuna ci spinge ancora a curiosare. Cosa farà mai oggi il nostro vecchio David Byrne? Il leader carismatico dei nostri anni ’80 evoluti? Andarlo a vedere vent’anni fa sarebbe stata per noi un’azione doverosa, una chiamata alle armi, un atto di presenza di quelli da tramandare ai posteri per poter dir loro il fatidico “c’ero anch’io”. Oggi si va con uno spirito diverso, non una ragione di vita ma un impulso, che tuttavia sentiamo ancora di dover assecondare. A qualcuno, vista l’occasione, viene voglia di rispolverare qualche feticcio anni ’80, qualche spilletta punk-new wave da applicare sulla giacca per arricchire il proprio stile casual ragionato. Pizzetti intellettuali, basette stilizzate e geometriche, occhiali neri di osso in perfetto stile “Devo”. Ma sono le donne in sala quelle che in realtà esprimono meglio questa tensione stilistica-revival ai favolosi ’80: una signora ostenta un magnifico binomio chiodo-anfibi, in perfetta sintonia col jeans (di alta moda) e con una camicina di seta, strass e merletti nera (di alta boutique). Messa in piega vaporosa da cento euro fresca di giornata, con colpi di sole e tonalizzanti. Eccoli, gli anni 80. Il casual edonista, il finto casual. Strepitosa.

Giuseppe Basile © Geophonìe
Il pubblico è rigorosamente over 35 (siamo buoni: forse, over 40), un campionario micidiale di facce anni 80, di visi e atteggiamenti borghesi innamorati dell’evoluzione, di riformisti-reduci della Milano-da-bere. Insomma, sembra un appuntamento di quelli stile gay-pride, anni80-pride, orgoglio generazionale. Assembramento più unico che raro. I neuroni degli avventori casuali avvertono qualche prima avvisaglia: “forse è un evento”. Tutti sono convinti che Byrne incentrerà il suo spettacolo sul nuovo disco e su qualche altra sperimentazione inedita, non escludono che qualche concessione al glorioso repertorio Talking Heads la faccia, ma nessuno pensa al tripudio, alla serata catartica, all’apoteosi. Sarà come tutti gli altri, un concerto del dopo, uno di quegli show interessanti ma che non potrà porsi sullo stesso piano degli exploit degli esordi di carriera, quando Byrne sembrava anni luce avanti agli altri, quando dettava le regole dell’evoluzione della musica e del costume. Si parte con un paio di battute di David che esordisce sul palco: “stasera fate tutte le foto che volete. Anzi usate pure il cellulare o inviate una mail. Dopotutto avete pagato il biglietto…” , elegante, vestito di bianco, con quel suo immutato portamento rigido e serio e quel suo tono ironico.

Giuseppe Basile © Geophonìe
L’entrata, con altre dieci persone sul palco (la band è al tempo stesso un corpo di ballo di grandi capacità sceniche), è tutta per il nuovo disco “Everyhing That Happens Will Happen Today”, ma già il secondo brano scuote il pubblico del Teatro Pavarotti, sulle prime inibito dalla classicità austera del luogo. Il brano è “I Zimbra”, un’essenza del Byrne-pensiero, tra le composizioni più celebri e acclamate di tutta la carriera. Non c’è ovviamente la chitarra di Robert Fripp, come nella versione originale di “Fear Of Music”, ma l’esecuzione è altrettanto suggestiva e straniante, un tripudio di elettronica, funk e tribale, esaltato dalla possente prova del corpo di ballo. E’ il primo momento di apoteosi sonora della serata, percussioni e balli ipnotici afro-funk, in perfetto stile Talking Heads: ma si pensa sia solo un intrattenimento per rompere il ghiaccio. Si riprende con un paio di brani dell’ultimo album che il pubblico osserva con attenzione, ma all’improvviso, le note di “Houses in A Motion” danno a intendere che l’evento è di portata storica. Ai primi versi declamati da Byrne (“For a long time I felt / without style or grace …”) l’uditorio del teatro si elettrizza, e da allora diventa un’autentica violenza carnale la costrizione a restare seduti.

Giuseppe Basile © Geophonìe
Il concerto sino a quel momento ha stupito e calamitato le attenzioni (vi sono state anche due esecuzioni tratte dal “My Life In The Bush Of Ghost”), ma ora si procede con una sequela mozzafiato di brani della band, da “Heaven”, a “Crosseyed and Painless”, da “Born Under Punches (The Heat Goes On)”, sino all’apoteotica “Once in a Lifetime”, in cui Byrne canta accentuando l’atteggiamento declamatorio delle note strofe iniziali (“And you may find yourself …”), come in una sorta di parodia di sé stesso necessitata dalla location teatrale. Lo spettacolo sale alle stelle. Ancora pochi brani e il pubblico si alza definitivamente per il ballo liberatorio collettivo della platea e di cinque piani di palchi. Un tripudio mai visto. Si va avanti con una dance indiavolata sul palco, corse e girotondi in stile Talking Heads, sino alle finali “Take Me To The River”, “Burning Down The House” e alla chiusura elegantissima di “Everything That Happens” . Concerto irripetibile, che riconcilia con le identità perdute e ci consente di cogliere le distanze siderali tra la genialità artistica degli iniziatori assoluti e l’ordinarietà della scena musicale del nostro quotidiano.
Giuseppe Basile © Geophonìe.
Artista: Patti Smith
Data: 30.06.2005
Luogo: Modena, Music Village Parco Novi Sad
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe
30/06/2005, Modena, Music Village30/06/2005, Modena, Music Village30/06/2005, Modena, Music Village
Artista: Patti Smith
Data: 23.10.2004
Luogo: Cortemaggiore (Piacenza), Fillmore Club
Copyright: Giuseppe Basile © Geophonìe

La recensione di Ondarock.
2008
di Mimma Schirosi
Titolo: 80, New Sound, New Wave – Vita, musica ed eventi nella provincia italiana degli anni 80
Autori: Giuseppe Basile, Marcello Nitti
Edizioni: Geophonie, 2007
Parlare di Taranto, negli anni 2000, pare azione quanto mai impavida e, nella maggior parte dei casi, carica di sdegno, per le tristi vicende politiche che, negli ultimi due anni, hanno restituito l’immagine di una città segnata dal “tutto da perdere”, anche per chi ancora nutrisse qualche speranza di riscatto da un eco-mostro siderurgico e da amministrazioni in assoluta discesa etica e culturale.
Le risposte, oggi, potrebbero essere riassunte in una sola, mortificante parola: fuga. Esaurita ogni energia positiva, la popolazione più giovane rinuncia alla riedificazione di un fantomatico “nuovo”, per proiettare le proprie ambizioni in territori nazionali e internazionali dotati degli elementi basilari per una più semplice forma di sopravvivenza.
Le città portuali, sin dai tempi più remoti, portano con sé l’afflizione di un costante contrasto tra bellezza spudorata, legata alla peculiarità del mare, e degrado sociale. Quasi per una sorta di incantesimo, le identità divengono drammatiche, esasperate, a volte grottesche, i movimenti arroccati su di un’orgogliosa identità di “classe”, i fenomeni di costume rigettati a priori, oppure anticipati, anche rispetto ai grandi centri di là a nord. Tutto ciò che accade, si dispiega, in questo tipo di centri, in maniera spesso del tutto singolare, nel bene e nel male.
Giuseppe Basile e Marcello Nitti, affondando le mani nelle acque torbide, oltraggiosamente e più volte rimescolate da personaggi di dubbia umanità (ché, a volte, i cattivi paiono i “deformi” di una civiltà aliena), operano paziente e meticolosa azione di pulizia, per restituirci una galleria che, procedendo attraverso il flashback visivo e verbale, a noi trentenni divoratori e ricercatori di suoni, pare un “ritorno al futuro” che agogniamo sin dall’adolescenza, tanto per la nostalgia di un’infanzia incuriosita dalle note gommose di una “Don’t You Want Me?” e dal brividino sulla schiena di fronte ai frames di un Robert Smith chiuso nell’armadio di “Close To Me”, quanto per la desolazione di un presente “musicale”, un movimento di intelletti, volontà, abnegazioni assolutamente da costruire in prima persona.
“80, New Sound, New Wave”, è una micro-storia di vittoria sui tempi, uno strabiliante documento di intuizione di quella che, per i più, sarebbe diventata una moda, vissuta nelle sue forme più vistosamente esteriori, un sentire comune rispetto a quella fascinosa weltanschauung che sottendeva a un’espressione musicale in rotta con le singole sfaccettature delle epoche precedenti.
Partendo dalla scena locale, l’elogio del telefonino veniva sostituito dalla sperimentazione con il synth, mutuando dagli anni 70 l’afflato più minimale, futuristico e glaciale.
Questa piccola comunità di ambiziosi mutanti inizia a muoversi intorno alla figura di due band dalle discrete fortune, i Central Unit e i Panama Studios. Tute metalizzate, trucchi iridescenti, pose provocatorie nella forma, David Bowie, Kraftwerk, Talking Heads, Devo, Pere Ubu, nella sostanza. E come da una fertile progenie, iniziano a fiorire altre realtà che vanno specificandosi in morfologie legate, invece, al movimento dark tout court (Bauhaus, Siouxsie and the Banshees, Cure), come i Lilith e i Vena.
Il centro del tutto è una piazza, un negozio di dischi e uno di abbigliamento. Le conversazioni, gli scambi di materiale, la condivisione avvengono vis à vis o, al massimo, attraverso quella accettabilissima comunicazione via etere costituita dalle radio libere, con alcuni, illuminati speaker che si fanno portavoce di queste nuove espressioni musicali.
Il bisogno di vivere da vicino l'”evento”, non solo per evitare la noia di centinaia di chilometri da macinare in auto, ma quale forma di naturale espressione di un circuito sociale e culturale che si era guadagnato ogni rispetto nelle piazze più “alternative” del paese, fa sì che si superi la fase di temerarietà propria dei principianti, per osare ciò che oggi pare impossibile: Bauhaus, New Order, Simple Minds, Ultravox, Cult, The Sound, Siouxsie and The Banshees e Style Council, in una manciata di anni dal 1982 al 1987.
Oggi, usufruendo di quel che resta di un territorio inginocchiato, mentre passeggiamo sulla battigia, riesce a materializzarsi la figura di Bernand Sumner che, dopo il glorioso concerto in città, resta folgorato dalla limpidezza dell’acqua jonica sino a scriverne in “The Beach”. Oppure, recandoci in auto alle ormai elitarissime dance hall indie-rock, ridiamo in faccia alle sbarbine vestite di bianco, in fila davanti alla discoteca Canneto, ripassando con la memoria visiva le foto di Siouxsie di rosso vestita che, nello stesso posto, più di vent’anni fa, riuscì a mettere all’angolo una clientela ordinaria e snob. E caricando nelle nostre playlist i Sound, quasi ci imbarazza appartenere a una generazione che scavalca la consolle per domandarci “che fighi… chi sono questi?”.
Il senso del nostro ritorno al futuro, del nostro viaggio a ritroso in un passato di cui custodiamo una memoria bambina, della speranza che giunga una nuova onda capace di battere sui tempi il resto del paese, dandoci la forza di restare, è tutta lì: nelle foto di Peter Murphy che gioca a tennis sui campi del “tempio” Tursport, crocevia e cuore di queste vicende, nell’immagine di Siouxsie che boccheggia come un pesce provocando gli astanti del Canneto, nello sguardo carico di ogni emozione di Adrian Borland, nella libertà degli uomini di usare l’eye liner per andare a ballare alla discoteca rock “Penthouse”, apripista del felice susseguirsi di eventi in quel quinquennio.
Operazione nostalgia? Potrebbe darsi. Ma la nostalgia ha il gran pregio di recare con sé la memoria, di ricordarci quanto la storia non segua un percorso necessariamente lineare, né sempre accidentato, e quanto, a volte, possano nascondersi delle piccole gallerie di intoccabile valore anche nelle pieghe di minuscoli centri urbani, sventrati selvaggiamente dalla miseria culturale degli “alieni deformi”, ma scelti dal Caso per la caduta prima di strabilianti meteoriti.
“Torneranno i tempi (?)” (cit. riveduta e corretta).
https://www.ondarock.it/speciali/newsound.htm
Mimma Schirosi © Ondarock