PAVEMENT 25.05.2010, Bologna, Estragon

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Pavement, 25.05.2010, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

“Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte”, diceva Oscar Wilde. Regola osservata in tante forme di espressione artistica, ma disattesa nella cultura rock, in cui, chissà perché, si pretende una sorta di aderenza dell’autore alla sua storia e la credibilità dell’artista, infatti, cresce quanto più egli riesca a identificarsi con ciò che interpreta.

“Non è così in letteratura e nemmeno nel cinema” – diceva Randy Newman (JAM n.52, ott.2008, p.43) – Non è necessario che Cormac McCarthy somigli allo sceriffo Ed Tom Bell, né pensiamo che dietro a Jack Torrance ci siano necessariamente le idee e i sentimenti di Stephen King o Stanley Kubrick. Eppure esigiamo che Bruce Springsteen sia nel profondo dell’anima uno di noi: la nostra capacità di credere nella sua musica deriva in parte dalla sensazione che egli sia la canzone che canta. Ci fidiamo dell’uomo perché ci fidiamo delle sue canzoni”.

Bel problema. Se è questo, allora, il meccanismo comunicativo che si instaura tra artista e pubblico, come deve porsi un artista tra i quaranta e i cinquant’anni ogni qual volta gli sia richiesto di interpretare un brano dei suoi vent’anni nel quale non si riconosce più?

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Stephen Malkmus, Pavement (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Salgono sul palco dell’Estragon i PAVEMENT, acclamata band anni ’90 che trovò un lunsinghiero successo internazionale per aver saputo esprimere, in modo davvero realistico, sincero e autentico, le smanie sonoro-mentali dei ventenni di quel decennio. Portavano sul palco, ma esprimevano anche nei testi e nelle sonorità, un atteggiamento mentale e culturale, tipico dei ragazzi di quel periodo. E lo facevano con una trascinante ed encomiabile genuinità artistica. Scanzonati, ciondolanti, caotici come il popolo grunge (da cui comunque si differenziavano), esprimevano una visione trasversale e originalissima nella scena musicale dei ‘90. Le melodie ebeti si mescolavano alle ballate, gli avventurismi chiassoni e cacofonici si susseguivano a momenti di intimismo e di splendide profondità compositive. Le interpretazioni erano cariche di energia che sprizzava da tutti i pori, di rabbia giovanile e di quell’impeto tipico dei ragazzi desiderosi di  dispensare adrenalina e cuore, di esternare rabbia e dolore, di accaparrarsi amore e piacere, ricercando in ogni possibile direzione la strada per soddisfare tutte queste interiori urgenze. Un vagare senza meta, alla fine incocludente, era la loro musica:  un manifesto artistico assolutamente evoluto nell’esprimere quella fase di crescita, ma per questo difficile, oggi, da rappresentare, col senno di un’altra età.

“Malkmus è ancora identico allo spilungone che sbatacchiava qua e là la chitarra  … Stessi giochi  scomposti, con la sei corde e la relativa tracolla, stesso atteggiamento scazzato” – commenta Davide Poliani su rockol  (http://www.rockol.it/news-143816/Pavement—Estragon-Bologna-25-05-10) – “… Certo, Spiral Stairs si è per lo meno irrobustito, e quella coppola incomprensibile che ormai tiene sempre in testa potrebbe nascondere una calvizie incipiente, ma sono solo dettagli. I Pavement sanno che è un reunion tour …..e i pezzi forti ci sono tutti ….. Ma stanno tutti al gioco, perché quando un gruppo così si riunisce, la ragione che spinge la gente a mettersi in macchina e farsi qualche centinaio di chilometri è vedere la magia ricrearsi. E i Pavement, la magia, hanno saputo ricrearla alla perfezione”.

PAVEMENT, BOLOGNA 25.05.2010, ESTRAGON 021

Pavement, 25.05.2010, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

(Giuseppe Basile © Geophonìe)

Vero.

Sottoscrivo parola per parola il commento di questo spettatore-fan-giornalista. I Pavement hanno suonato benissimo e tenuto il palco con grandissima vitalità, voglia di esserci, energia. Hanno scatenato quel disordine (anche scenico) col loro alternarsi confusamente, tipico dei loro spettacoli, contagiando il pubblico. Bravissimi, veramente. Il problema, però, è che è “revival”. Anche dieci anni possono diventare un tempo lungo per come siamo abituati, ormai, a veder susseguirsi mode e costumi. Il mondo e i pensieri cambiano rapidamente, e anche noi, già dopo dieci anni, non siamo più gli stessi. “Stiamo al gioco”, dunque, come dice il commentatore Davide Poliani. E godiamoci pure la “magia” (artificiosamente ricreata, con professionalità e mestiere, per carità … ma  anche, se vogliamo, con qualche trovata scenica un po’ abusata: penso allo strip di scarpe e calzini di Spiral, più rievocativo che necessario, e a certe pose ormai stantie, un clichè: l’originalità, del resto, dura lo spazio di un mattino. Poi diventa autocelebrazione). La magia fa sempre bene, ma l’autenticità,  “l’aderenza dell’autore alla sua storia” è normale che non possa percepirsi più. Abbiamo quarant’anni noi, e ce li hanno anche loro. Ieri era tutto cuore, oggi è un “come eravamo”, è “interpretazione”, anche se di tutto rispetto. Ma coi tempi che corrono, con le magre emozioni che la musica attuale ci sta dispensando, va bene anche così.

Setlist:

Gold Soundz / Grounded / Ell Ess Two / Kennel District / Cut Your Hair / Father To A Sister Of Thought / The Hexx / Zurich Is Stained / In The Mouth A Desert / Two States / Silent Kid / Unfair / Stop Breathin’ / Rattled By The Rush / Here / Perfume-V / Shady Lane / Debris Slide / We Dance / Trigger Cut / Spit On A Stranger / Summer Babe / Fin // Date With IKEA / Stereo / No Life Singed Her /// Range Life

Giuseppe Basile © Geophonìe

ULTRAVOX 14.04.2010, Nonantola, Vox Club

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Midge Ure, Ultravox (Armando De Leonardo)

Ieri sera a Nonantola la band di Midge Ure e soci ha incantato il pubblico con un tripudio di elettro-pop e romanticismi elettronici. Il Vox era gremito e il pubblico non ha risparmiato gli applausi. Se nel 2010 si assiste ancora a un concerto degli Ultravox non si può che uscirne rinfrancati: rivederli oggi, infatti, a vent’anni dall’apice del loro successo, è un segno che le ombre di quel futuro buio dominato dalla tecnologia, che la band descriveva negli anni ’80,  sono state scacciate.

Era il trend delle loro prime composizioni, ma oggi la band lo ripropone con sorrisi rassicuranti e con la giusta allegria per essere ancora qui, amata e acclamata.

Ieri sera gli Ultravox hanno esordito con una prima serie di brani più commerciale e conosciuta, “New Europeans”, “Passing Strangers”, “We Stand Alone”, ma il concerto è decollato con “Mr.X”, sinfonia elettronica fredda del 1980 che ha strappato i primi calorosi applausi. Un momento di grande emozione.

Generazione inquietante, quella degli artisti degli anni ’80. Tutti, loro compresi, stregati dall’elettronica e dalle ritmiche  robotiche, teorizzavano un mondo opprimente in cui lo spazio vitale dell’Uomo sarebbe sfociato in una deriva individualista. Futuristi e pessimisti. Ma mentre David Byrne profetizzava un futuro nevrotico, e i Devo invece su quello stesso futuro ironizzavano (sostenendo che l’avanzata della tecnologia avrebbe condotto al progressivo istupidimento della razza umana), gli Ultravox si soffermavano sulle malinconie di quella condizione, sottolineando quanto fosse necessaria e ineludibile, anche per l’Uomo Tecnologico, la linfa dei sentimenti. Con questa vena malinconica la band, inquadrata nel genere “new romantic”, trovò la chiave del suo successo riconfermato ieri sera.

Gli Ultravox, 14.04.2010, al Vox di Nonantola (Armando De Leonardo)

Al Vox gli spettatori, prevalentemente over 40, sono di quelli abituati a percorrere lo stivale in lungo e in largo per i concerti. “Veniamo dalla Puglia in aereo”, dice un gruppo di appassionati. Comunità umane reali, non virtuali, composte da gente ancora desiderosa di vivere emozioni fisiche sotto il palco, piuttosto che su un video o nei commenti superficiali di qualche social network.

Il concerto è andato avanti con la prevista sequela di hit mozzafiato, tra atmosfere colte e vampate di puro rock. I manifesti sonori della band, come “Thin Wall”, le composizioni più “epiche” come “Hymn” e “Dancing With Tears In My Eyes”, si sono susseguite e mescolate in un’atmosfera ritmica molto omogenea e costante. E’ il modo di concepire una reunion, con la carrellata dei successi che tutti pretendono. A rendere unico e forse anche speciale l’evento, però, sarebbe forse bastata anche una sola interpretazione differente, una variante nelle esecuzioni, o magari un inedito. Dopo vent’anni, musicisti di questa portata è strano che non abbiano voglia di uscire almeno per un minuto dal clichè sonoro e scenico che li cristallizza. Nessun dubbio sul fatto che questo sia il loro modo naturale di esprimersi. I tecnologici non sono degli improvvisatori (basti ascoltare il disco live pubblicato nel 2010, “Return To Eden”, per risentire, in modo assolutamente pedissequo, lo show del Vox, identico a quelli delle altre date del Tour europeo), ma almeno l’anima degli sperimentatori, anche con pochi accenni, avrebbe forse impreziosito un repertorio che per quanto amato, resta datato. Gli anni ’80 sono finiti da un pezzo, e dopo migliaia di ascolti, l’assuefazione a certe sonorità potrà sortire l’effetto nostalgia, ma non anche l’effetto sorpresa, che artisti di questo calibro possono sempre suscitare, se solo volessero.

La serata, che ha trovato diversi highlights – nell’esecuzione di “All Stood Still” scatenando il ballo robotico collettivo, o in quella di “Vienna” cantata benissimo da Midge Ure – si è chiusa con la pirotecnica e festosa “Sleep Walk” e le percussioni immancabili di “The Voice”, a degna conclusione di una performance prevedibile ma  di assoluto  rispetto,  senz’altro da ricordare.

Setlist: 01.  New Europeans 02.  Passing Strangers 03.  We Stand Alone 04.  Mr.X 05.  Vision’s in Blue 06.  Thin Wall 07.  I Remember (Death In Afternoon) 08.  Astradyne 09.  Rage in Eden 10.  Lament 11.  Hymn 12.  One Small Day  13.  All Stood Still 14.  White China 15.  Vienna  16.  Reap The Wild Wind 17.  Dancing With Tears In My Heart  18.  Love’s Great Adventure 19.  Sleep Walk 20.  The Voice

Giuseppe Basile © Geophonìe

Gazzetta di Modena 15.04.2010 (Recensione di Giuseppe Basile)

Gazzetta di Modena 25.01.2010 (Recensione Giuseppe Basile)

 

 

 

Comicoperando. Tributo a Robert Wyatt 06.03.2010, Modena, Teatro Comunale

E’ difficile spiegare le intenzioni di un gruppo ipercolto di musicisti riunitosi a sorpresa per esprimere l’arte di un illustre collega, altrettanto ipercolto, ma inimitabile, e  perciò difficilmente interpretabile.

“Comicoperando si propone di rivisitare e reinventare il repertorio di Wyatt, pur rimanendo radicato alla tormentata inventiva del compositore e del suo spirito iconoclasta”, si legge nella nota del catalogo illustrativo della rassegna “L’Altro Suono”, al Teatro Comunale di Modena.  “Il gruppo crea una diversità di stili e registri e presenta brani fondamentali, dagli esordi con i Soft Machine fino al più recente “sperimentalismo popolare” di Comicopera (2007), coprendo più di quarant’anni di storia musicale”.

Tributo a Robert Wyatt 037In realtà, lo stupefacente ensamble di musicisti sul palco, un nonetto di livello senza eguali, sembra invece vagare tra una voglia di libera interpretazione, espressa però con indecisione e titubanza, e un desiderio di restare nell’ambito, più modesto, del “tributo” al grande maestro e amico.

In certi momenti lo spettacolo decolla e appare intellettualmente onesto, anche se non brillante. In altri, la reunion degli amici di Wyatt volta a rieseguire i brani celebri, prende il sopravvento e diventa esercizio di stile, restando nei binari di una piatta normalità.

Difficile l’approccio a Robert Wyatt, già solo per sostituire, nell’esecuzione di qualsiasi sua composizione, la sua voce, unica al mondo, inconfondibile, inimitabile persino per Richard Sinclair, che per sue doti naturali al timbro di Wyatt  si è sempre avvicinato sino a mettere in difficoltà l’appassionato (nell’ascolto dei dischi anni 70 dei Caravan e dei Soft Machine si tendeva a scambiarli). La voce di Richard Sinclair poteva costituire l’alternativa giusta, forse l’unica possibile, per un’esecuzione degna di un tributo ai massimi livelli: ma Richard in tutto il concerto ha cantato poco, e quando lo ha fatto è parso freddo e ordinario, talvolta quasi pedissequo nel tentativo di cantare Wyatt senza rischiare.

Il rischio poteva risiedere nella scelta di discostarsi fortemente dall’interpretazione vocale originale  – esprimendo quindi una volontà sperimentale e molto “artistica” – e spingersi sino a stravolgerla; oppure, il rischio Richard avrebbe potuto decidere di correrlo interpretando vocalmente Wyatt nella più totale aderenza al modello, ma a quel punto, per farlo, doveva tirar fuori tutta l’anima e il pathos, l’intensità che Wyatt ha sempre profuso nel suo cantare: e questo rischio Richard è sembrato non volerlo o saperlo sostenere.

07bisE’ andata peggio a Dagmar Krause, altra grandissima interprete dell’ambiente wyattiano e fautrice delle sperimentazioni più estreme del Canterbury Sound con i suoi Henry Cow degli anni ’70. La Krause, già in naturale difficoltà per dover percorrere la strada inedita (e impervia) di un’interpretazione al femminile – tutta da trovare – per una composizione e una vocalità originariamente maschile, sembra aver incontrato una difficoltà ulteriore, costituita dai suoi limiti odierni: il suo cantato non rappresentava Wyatt, né lo rielaborava. E’ apparsa in difficoltà interpretativa nel brano “Maryan”, immensa armonia wyattiana che tutti hanno pensato bene di cantare coralmente, snaturando però quella vocalità esile e fragile che caratterizza la composizione.

Ma diversi brani celebri hanno mostrato una difficoltà interpretativa del gruppo e un’indecisione artistica. In “God Song”, in “Sea Song”, in “Calyx” è mancata l’idea risolutiva, o l’intensità, la drammaticità che solo Robert Wyatt sa infondere.

La più coriacea è apparsa Annie Whitehead al trombone, ma più per sue doti istrioniche e caratteriali che per un’effettiva sostanza sonora. Annie è stata la più brillante per presenza scenica e spirito di aggregazione, ma la sua carica suggestiva non ha del tutto colmato la sensazione latente di assistere a un progetto artisticamente lacunoso, o forse ancora in fase di sperimentazione e rodaggio.

Tributo a Robert Wyatt 041Gigantesco, invece, come sempre, è apparso Chris Cutler, il batterista degli stessi Henry Cow, dei Pere Ubu, dei Brainville 3 (con Daevid Allen e il compianto Hugh Hopper). Chris Cutler, sperimentatore puro capace di superare ogni limite concettuale, riesce a oscurare i propri comprimari anche quando non si avventura in avventure sonore estreme e funamboliche. E’ strepitoso anche quando riesce a tenere la sua batteria in riga, senza lanciarla in progressioni free inconcepibili. Le sue sonorità, a sostegno dell’intero ensamble, equilibrate e calibratissime, sono state, come sempre, celestiali, pur senza rinunciare alle ritmiche originali, a quella ricerca che fa di lui un pittore della batteria: i suoi tessuti ritmici sono affreschi, saggi di improvvisazione, di disciplina e di visioni interpretative trasversali e imprevedibili. Un genio assoluto.

Il concerto, dal punto di vista tecnico, ovviamente non poteva certo deludere. Perfetti son stati Cristiano Calcagnile alle percussioni e Gilad Atzmon ai fiati, brillante tanto nei duetti con la Whitehead  che nelle parti soliste. Ma anche Alex Maguire alle tastiere non poteva non costituire un elemento centrale per le sonorità espresse, decisivo nelle sue basi per caratterizzare la composizione wyattiana.

Sono mancati, insomma, un po’ di coraggio interpretativo e di interiorità a questi dotatissimi eroi di un’era musicale che si allontana sempre più, rispetto alla quale, forse, gli stessi artisti avvertono, per l’inesorabile avanzare dell’età, una distanza d’animo e una mutata disposizione artistica  produttiva di un approccio fondato su una diversa sensibilità.

Setlist: 1.Pataphysical Introduction, 2.September The Ninth, 3.Little Red Robin Hood Hit The Road, 4.Just As You Are, 5.Calyx,  6.Memories,  7.Alifib, 8.God Song, 9.Maryan, 10.Alliance, 11.Sea Song, 12.Dondestan 13.O Caroline 14.Forest

Giuseppe Basile © Geophonìe

Reduci pop

Le culture e i linguaggi del rock sono ormai un segno del secolo scorso. Nella nuova società globalizzata la rockstar non è più un modello sociale. E mentre la comunicazione collettiva percorre sempre nuove rotte telematiche, la civiltà della musica popolare, a quarant’anni dal Festival di Woodstock, finisce su History Channel.


Come le auto d’epoca. Come gli antichi dialetti. Un documentario a puntate sulla storia del rock fa il suo ingresso sul canale tematico di SKY, mescolandosi fra gli speciali dedicati alle rivoluzioni industriali, alle guerre mondiali, al boom economico del dopoguerra e ai segreti di Stalin, di Hitler, del Terzo Reich: tra l’Italia dei comuni e dei campanili, dei dialetti e dei conflitti Stato-Chiesa, tra le storie dei veneti e dei calabresi emigrati in Sud America, gli attentati ai Kennedy e a Fidel, tra le cospirazioni di Pinochet e i diari segreti del Duce. Improvvisamente, nella giungla mediatica a colpi di spot, si fa largo un titolo: “Le sette vite del rock. Terza puntata. Il punk, i Clash e i Sex Pistols. Domani sera, ore 23, su History Channel”.

La Cineteca Lumiere di Bologna, Sede del Biografilm Festival 2009

Le celebrazioni, pur fondandosi sullo stesso concetto (quello della rievocazione di un passato che non c’è più), a ben vedere appaiono meno ‘dolorose’ di un messaggio come quello che inevitabilmente si riceve da un passaggio su History Channel: inequivocabile, senza appello: come quando ti arriva per posta dal comune di residenza la Carta d’Argento gratuita, o la tessera per il cinema con lo sconto per gli anziani.

Il quarantennale del Festival di Woodstock, ad esempio, pur con tutto il suo bagaglio di cimeli d’archivio (e di autentica “archeologia”), forse per una strategia di marketing riesce ancora ad apparire come una dolce prosecuzione di certi tempi e atmosfere. Ma History Channel no: se qualcosa passa da lì significa che appartiene definitivamente a un passato che può rivivere solo nei documentari. E’ qualcosa ormai distante anni luce da noi e dal nostro “reale” presente.
Il “presente”, infatti, può anche essere vissuto in modo “irreale” : e solo così, del resto, può coltivarsi ancora l’illusione di un’affinità con mondi e linguaggi ormai estinti.

Per rendersi conto di quanto incolmabili siano, ormai, certe distanze, basta riguardare qualche sequenza del celebre film “Woodstock. Tre giorni di pace, amore e musica” del regista Michael Wadleigh (Warner, 1970), opera che illustra il raduno musicale più famoso di tutti i tempi con grande fedeltà e capacità documentaristica.
Mentre la versione originaria del film è ormai disponibile gratuitamente (sul Canale di film della Warner, visibile tramite Fastweb), una nuova edizione è stata recentemente pubblicata in due versioni nel giugno 2009 (in concomitanza con le celebrazioni del quarantennale): la più ricca è: “Woodstock: 3 Days Of Peace And Music, 40th Anniversart Ultimate Collector’s Edition” e contiene la versione rimasterizzata del film (4 DVD, per oltre 4 ore, oltre a 2 ore di performance inedite da parte di 13 gruppi, tra cui Joan Baez, Country Joe McDonald, Santana, The Who, Jefferson Airplane, Canned Heat, Joe Cocker, nonchè filmati inediti di Paul Butterfield, Creedence Clearwater Revival, Grateful Dead, Jhonny Winter e Mountain), interviste, booklet e memorabilia; l’altra versione, più comune, è un doppio DVD.

Michael Wadleigh e Artie Kornfeld al Biografilm Festival di Bologna (14.06.2009)


Una prima versione rimasterizzata, tuttavia, era già stata pubblicata nel corso degli anni ‘90 col titolo “Director’s Cut” (ed è stata distribuita dal periodico L’Espresso, sempre in giugno). Il documentario, che all’epoca fu premiato con l’Oscar, cattura e ritrae lo spirito del tempo: le performance degli artisti sono intervallate da lunghe scene descrittive dell’evento e da interviste significative.

Una visione istruttiva. Ciò che si coglie particolarmente è l’ingenuità e la pacatezza di quel popolo hippie, la sua filosofia già abbastanza lucida e consolidata, ben chiara nelle parole dei ragazzi intervistati, ma al tempo stesso il clima di “lentezza” che aleggiava sul meeting, sui giovani e sull’evento complessivo.
Stupisce, addirittura, l’assenza di ostentazione volta a professare uno stile di vita, a propagandarlo con gesti di rapido effetto. Mentre sul palco si alternavano artisti diversissimi fra loro, espressione di generi musicali persino opposti, questa folla immensa era lì, pronta ad assorbire un messaggio complessivo che di tutte quelle diversità artistiche doveva costituire il prodotto: quei ragazzi, nel film, anziché accelerare l’evoluzione e il tempo, sembravano quasi volerlo fermare, goderselo in modo statico, anche se le loro affermazioni in realtà risultavano tutt’altro che statiche per gli assetti sociali e culturali dell’epoca.
Parlavano di grandi temi esistenziali e sociali ma senza minimamente infervorarsi per questo. Il film ha immortalato una folla dolcemente anestetizzata, stranamente felice, priva di quella tensione tipica di chi consapevolmente si oppone al mondo e alle sue regole, con ciò sapendo di esporsi a forme persecutorie di emarginazione ed esclusione sociale.
Country Joe McDonald deve addirittura sollecitare una loro reazione collettiva mentre intona il suo inno antimilitarista “I feel like I’m fixing to die rag” che invece il pubblico ascolta restando seduto, canticchiando il ritornello in un clima di estatica serenità. Tutti lì, per terra, appoggiati l’uno all’altro come degli innamorati, i giovani accompagnano Country Joe come se stessero intonando strofe di una canzoncina romantica.
“Ma se non siete nemmeno in grado di cantare in coro il ritornello di questo pezzo, come pensate di poter fermare la guerra in Vietnam?”
, chiede dal palco Country Joe, incitandoli.
Sul Festival aleggia una lenta atmosfera che rivela un’autentica armonia spirituale, di quelle talmente benefiche che non si sente neppure il bisogno di esternare con particolari opere o azioni.

Una visione istruttiva, ripeto. Una di quelle pellicole che ti costringono a fare un po’ di “outing” e a cercare di davvero, al di là della retorica e delle facili suggestioni, la tua identità e la reale adesione ideologica, culturale, comportamentale a certe forme espressive.
Durante le mie ripetute visioni del film mi sono sempre chiesto se mai sarei riuscito, trovandomi lì, a integrarmi con quella tribù naturale.
Mi sarei davvero seduto in mezzo al fango a scambiare cibo con sconosciuti igienicamente pericolosi, a baciarmi con ragazze trascurate, a fumare spinelli preparati da mani luride?
Sarei riuscito a resistere per tre giorni in quelle latrine comuni?
Avrei fatto davvero la fila, con gioia e spirito collaborativo, per una scodella di riso bianco ?

In quella folla sterminata, messa a dura prova dal vento e dalla pioggia, penso che avrei desiderato ardentemente uno spazzolino da denti, una camicia asciutta, un bagno decente. Forse mi sarei persino avvilito per qualcuna di quelle performance, talvolta trascurabili e dilatate per colmare le difficoltà organizzative dettate dal difficile avvicendamento sul palco dei tanti gruppi e artisti.
Attraverso quel film ho sempre notato, insomma, una differenza culturale incolmabile tra quei giovani americani e noi. La loro rivoluzione appare quasi “involontaria” per quanto è spontanea. Anche se i contenuti vengono espressi e rimarcati chiaramente sul piano dialettico, ciò che risalta è la “fisicità” comportamentale di quei giovani piuttosto che le filosofie sottostanti. Abbandonarsi a un amore libero, un amore bambino, apparentemente privo di sovrastrutture razionali, o fumare, mangiare e lavarsi in una dimensione quasi primitiva, paiono essere il fine unico e ultimo del loro agire: non l’effetto di una precisa determinazione, né la causa iniziale per innescare certi ulteriori effetti. Dice bene Franco Bolelli nel suo “STARSHIP – Viaggio nella cultura psichedelica” (Castelvecchi Editore, 1995, ISBN 88-86232-31-4) : “la filosofia psichedelica non è pensiero intellettuale”.

Noi europei, o meglio, noi ‘Greci’ , non siamo così. Quando Aristotele oltre duemila anni fa diceva che “l’uomo è un animale politico”, aveva sicuramente colto un carattere fondamentale, un tratto culturale tipico delle sue genti. Chissà se vivendo tra i vichinghi del Nord Europa o gli aborigeni dell’Amazzonia avrebbe detto la stessa cosa.
Certo è che dalle nostre parti lo spirito libero degli hippies, se contagiò davvero la nostra società, offrì interpretazioni ben diverse e distanti dalle idee originarie, sino a produrre una visione tutta nostra, tutta europea di quegli slanci libertari.
Vivere secondo una filosofia “libertaria”, infatti, non necessariamente conduce verso una dimensione realmente “liberatoria”. Recepimmo, insomma, della cultura hippie, la carica razionale contestataria, ma quasi per nulla l’altra componente più visionaria, irrazionale e “impolitica”, produttiva di quella felicità psichedelica che si leggeva sulle facce degli hippies americani. Le riflessioni della letteratura e della stampa recenti, in occasione del quarantennale del ’68, hanno rimarcato più volte questo aspetto.

Nel libro “Dì qualcosa di destra. Da <<Caterina va in città>> a Paolo Di Canio” (di Angelo Mellone, Marsilio Editore, 2006, ISBN 88-317-8987-2), strepitoso affresco dell’Italia di oggi e dei suoi trasformismi culturali e mediatici, l’autore passa in rassegna le autentiche capriole e le acrobazie culturali di tanti opinionisti e osservatori che partendo dalle più inveterate e conservatrici critiche sul ’68 e la “degenerazione dei costumi”, sono poi passati nel ’98 (già tempi di celebrazioni e revival), prima a “magnificare il trentesimo anniversario della “rivoluzione”, la sua “esplosione di voglia di libertà e di critica radicale”, il “bisogno di autenticità”, “il senso assolutamente extraideologico della parola “comunismo”, “la spinta antagonista rispetto alle ideologie dominanti” e via discorrendo; e poi, nel 2008, hanno finito col riconoscere che quella parte più autenticamente innovativa del fenomeno hippie venne in realtà sacrificata sul freddo altare dell’ideologismo, mentre l’altra parte più razionale, politica e riformista venne appaltata e fatta propria da frange sociali politicizzate e militanti per supportare altre cause, sentite in quel momento come prioritarie nella cultura italiana di allora.

Secondo Luca Pollini, autore del libro “Hippie. La rivoluzione mancata. Ascesa e declino del movimento che ha sedotto il mondo” (Bevivino Editore, 2008, ISBN 978-88-95923-02-4), “a partire dall’autunno 1967, gli studenti universitari cominciano a occupare le università, inizia quello che convenzionalmente verrà chiamato Sessantotto, di lì a poco l’impegno e la militanza segnano una rottura fra la dimensione politica e quella impolitica, tipica degli hippie e dei beat di casa nostra. A differenza della situazione americana, la “base” sociale che costituisce il movimento italiano è diversa. Se negli Stati Uniti la maggior parte dei giovani Figli dei fiori è di estrazione piccolo borghese, in Italia, tranne alcune eccezioni, proviene dal proletariato. Pier Paolo Pasolini scrive: “il movimento beat e hippie non poteva incidere più di tanto come fenomeno della contestazione giovanile, perché in Italia ha avuto una grande importanza la Resistenza e ha ancora grande importanza la critica che il marxismo fa della società. I giovani che non vanno d’accordo con i padri borghesi hanno già dunque pronte tradizioni ( la Resistenza ) e le forme (le proteste razionali del marxismo) per rivoltarsi”.

In prossimità del quarantennale del ’68 – siamo ormai ai giorni nostri, al 2008, in piena epoca di outing delle sinistre, e di revisionismo critico – le celebrazioni vengono totalmente reinterpretate: cade definitivamente il dogma del ’68 positivamente modernizzatore e riformista e cominciano a fioccare impietose le analisi che rileggono quel periodo come un’anticamera del fallimento sociale degli anni ’70. Angelo Mellone nel suo libro (pag. 120) ricostruisce questo ripensamento: “ … la condanna tout court del sessantottismo è affidata su “Panorama” a Roberto Cotroneo, ripresa con decisione a fine 2005 anche da Gaetano Quagliariello e Giovanni Orsina, che giudicano il Sessantotto una sorta di grande deriva conservatrice, un movimento nato all’interno dei partiti che ha prodotto solo sterili utopie e ha bloccato l’evoluzione in senso riformista della sinistra italiana. Cotroneo considera il Sessantotto all’origine della catastrofe generazionale degli anni settanta (…) . A differenza di quello che accade in Francia o ancora prima negli Stati Uniti, dove le pulsioni libertarie e movimentiste producono innovazioni in tutti i campi sociali, “il 68 italiano, con tutto quello che ha generato, non fu affatto un movimento progressista, un movimento liberatorio, un movimento di modernizzazione del Paese, ma fu l’opposto”. Il critico è impietoso: parla di “una guerra civile, ma per cancellare ogni traccia di modernità dall’Italia”, il “blackout” della fantasia rispetto al quinquennio 1962-1967, che ha prodotto le opere più originali in campo letterario (dal Gruppo 63 a Carlo Emidio Gadda), nel cinema (Federico Fellini o Sergio Leone), nel teatro (Carmelo Bene), nel loisir (il Piper). La povertà creativa del Sessantotto partorisce solo un “polverone, una violenza linguistica, una incapacità di pensare in modo lucido e moderno che non ha eguali, quanto a perversione culturale (…). Si tratta del movimento più reazionario e violentemente ideologico del nostro dopoguerra”. “L’ideologia come tradimento del Sessantotto”, dice Angelo Mellone.

“E’ stato il big bang delle idee sbagliate. Da quell’esplosione originaria si è sprigionato uno sciame di detriti ideologici che continua a offuscare i nostri cieli” , scriveva Riccardo Chiaberge sul Corriere Della Sera (2 aprile 1996).

“Insomma” – continua Angelo Mellone – “quello che negli Stati Uniti era accaduto con la beat generation, in Italia è stato soffocato dalla blindatura politica della sinistra militante alle spinte di innovazione e di vera “rivoluzione sociale” presenti negli anni sessanta (…). Se oggi può sembrare strano, personalità come Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, William Burroughs, i figli dei fiori o i vagabondi autostoppisti hanno rappresentato per la sinistra militante e il suo apparato di critica intellettuale una pericolosa miscela di individualismo e spiritualismo, di ribellismo e insubordinazione, riottosa a essere incanalata nella camicia di forza delle ideologie e, ancora di più, intrasportabile nelle rigide discipline gruppettare che, per così dire, hanno demolito la tensione emancipatrice che ha reso davvero “formidabili” gli anni sessanta e l’hanno congelata nella violenza del conflitto politico”.

Negli anni della mia adolescenza, tra i ’70 e gli ’80, lo ricordo bene, talvolta avvertivo un disagio nel vivere il mio rapporto con la musica. Riuscivo a coglierne le migliori vibrazioni e contenuti, ma certe volte provavo imbarazzo quando ad esempio, per poter fruire di quel mondo, ero costretto a mescolarmi con gli utenti delle Feste dell’Unità: ero un ragazzo borghese. L’organizzazione dei maggiori eventi musicali si incanalava spesso nei binari delle piccole o grandi manifestazioni politiche, la qual cosa costituiva talvolta fonte di equivoci e suscitava una certa ritrosìa in chi non trovava proprio naturale prendere parte a quegli eventi. Erano anni in cui, specie al Sud – tradizionalmente sempre meno avvezzo alla partecipazione politica e alla socialità pubblica rispetto al più focoso Nord Italia – ci si esponeva il meno possibile, si cercava di tenersi a prudente distanza dai facili tumulti sociali, e si temeva che i propri comportamenti potessero essere pericolosamente classificati. Non mi piaceva l’idea di essere identificato con una frangia politica verso cui nutrivo diffidenza, e per questo motivo le Feste dell’Unità le frequentavo ugualmente, certo, ma con circospezione. A volte avevo proprio la sensazione che i ragazzi, irresistibilmente attratti dalla musica, fossero quasi “addescati” da un meccanismo che imponeva loro, come un prezzo da pagare, di doversi sorbire un comizio o una qualsivoglia forma di predica a sfondo politico. Mi ritrovavo in una folla festante accomunata da ideali che venivano urlati e condivisi con gesti estroversi: mi sentivo un “infiltrato”.

La cultura musicale era fortemente “appaltata” da quella politica, tanto che diveniva quasi automatico mescolare passione per la musica e passione politica, identificare gli appassionati di musica con l’area variegata dei militanti a vario titolo, fiancheggiatori o anche solo moderati sostenitori di certe idee. Con la medesima circospezione mi avvicinavo anche ai contenuti della musica che amavo: in verità non mi capitava poi così frequentemente di rinvenire quelle affinità che tutti davano per scontate con quella cultura di sinistra che tali affinità invece ostentava. Ma siccome questa commistione tra i valori del rock e quelli di una certa politica era un dogma così diffuso da non poter essere neppure messo in discussione, anche quando parlavo di contenuti cercavo prudentemente di non dare troppo l’impressione che la mia passione musicale implicasse necessariamente anche un’adesione a quei valori paralleli che, secondo il costume e la cultura sociale dominante, risultavano sottesi alla mia musica. La società borghese in cui vivevo, insomma, mi suggeriva di parlare di musica e di esternare la mia attrazione verso il fenomeno musicale con una certa pacatezza, direi quasi con un certo pudore. Aderire in modo pieno e incondizionato ai modelli (anche solo estetici) che il mondo del rock sembrava voler proporre, equivaleva ad assumere posizioni antagoniste, antiborghesi, alternative.

Non riuscivo a capire le ragioni di questo equivoco. Pensavo che i contenuti della mia musica non fossero, in realtà, gli stessi che la sinistra cercava di supportare. Credevo che questa identificazione dell’ideologia di sinistra con la mia musica e i miei eroi fosse il frutto di un fraintendimento, o forse no: forse quegli artisti erano davvero come la società politicizzata italiana me li descriveva e dunque ero io, per la mia giovane età, a non essere in grado di coglierne autenticamente i messaggi. Ero confuso. Ma permaneva in me la convinzione (indimostrabile) che l’espressione artistica dei Genesis, dei Pink Floyd, dei Led Zeppelin e di tutti gli altri, fosse un’enormità tale da non poter essere ristretta nella “blindatura politica” e nella “camicia di forza delle ideologie” con cui oggi Angelo Mellone efficacemente descrive quegli anni. Avevo 16-18 anni, non sapevo trovare le parole per dirlo, ma sentivo che anche il più becero dei borghesi potesse legittimamente tuffarsi in quella corrente impetuosa di suoni, parole e sentimenti che il mondo del rock diffondeva. Una corrente evoluta, portatrice di significati ben più alti delle interpretazioni demagogiche e riduttive offerte da schiere di interpreti sordi e miopi, prigionieri di un’ideologia che cercava disperatamente di avvalersi dell’Arte, di fruirne come mezzo, anziché come fine.

Nel 2008 viene pubblicato in Emilia un libro strepitoso: “Correggio Mon Amour – Storia di storie della musica rock in una città della provincia emiliana” (Lucio Lombardo Radice Editore, ISBN 978-88-960620-0-5), ponderoso volume documentaristico di 500 pagine che raccoglie documenti, immagini e testimonianze scritte da oltre 70 autori su fenomeni di costume, cronache ed eventi legati alla diffusione della musica popolare a Correggio, sede per oltre vent’anni di gigantesche feste dell’Unità che ospitarono, anno dopo anno, i più grandi nomi del rock mondiale. Nel volume si susseguono fatti e opinioni che illustrano in modo davvero ampio e avvincente il quadro sociale della provincia, dei suoi rapporti con la musica, i tratti salienti della vita culturale, i giri di boa tra le epoche che cambiano, le problematiche di un territorio con tutto il suo bagaglio di aspirazioni, storia e prospettive. Un caleidoscopio straordinario di storie, forse unico nel panorama dell’editoria musicale italiana. Di questo libro, la prima cosa che dovrebbe dirsi è questa: meriterebbe un premio letterario già solo per la sua portata documentaristica e la sua intensità, ma ne meriterebbe molteplici altri per il modo in cui illustra gli atteggiamenti culturali sottesi al rapporto tra musica e società.

Tra le tante affermazioni suggestive e luminose contenute nel libro, mi colpiscono quelle di un organizzatore delle feste dell’Unità, Guido Pellicciardi: “ … Mi è stato chiesto di raccontare i perchè di trent’anni di musica rock alle feste dell’Unità: perché la cultura rock era una cultura fortemente connotata a sinistra”. “Il perché i comunisti e poi i diessini di Correggio alle loro feste dell’Unità abbiano voluto organizzare tanti concerti di rilievo, penso abbia almeno tre diverse motivazioni. La prima è culturale ed è relativa a una certa adesione, soprattutto dei giovani della locale Fgci a valori ed espressioni che il rock ha promosso tra le generazioni di allora cresciute tra gli anni ‘60 e ’70 e, in parte, ancora negli anni ’80. La seconda ha una valenza più strettamente politica, legata alla volontà del partito di Berlinguer, anche e forse soprattutto a Correggio, di cercare insistentemente di avvicinare i giovani attraverso la musica, di calarsi nel loro mondo per riaprire un canale di comunicazione che, alla fine degli anni ’70, dopo l’esplosione del “movimento del ‘77”, sembrava essersi paurosamente ostruito: anche in quest’ottica vanno valutate le aperture verso la musica punk, new wave e più complessivamente, della cosiddetta scena alternativa che vennero gradualmente effettuate a partire dai primi anni ’80 nella programmazione di diversi concerti. La terza motivazione è legata più a una serie di contingenze locali fortunate e virtuose (…)” . “Alla base della seduzione verso la musica rock, vissuta a Correggio dalla Fgci e dal Pci a partire dagli anni ’70, ci sono senz’altro alcune particolari rappresentazioni simboliche che questa musica ha espresso sul piano socio culturale e anche politico in particolare in Europa, nonostante il rock’n’roll sia nato negli Stati Uniti. Una musica (…) che diventa molto presto popolarissima tra i giovani e si configura come espressione di un’alterità ai costumi e ai modelli espressivi “borghesi”. I giovani, forse per la prima volta nella storia dell’umanità, grazie al rock assumono una loro specifica connotazione generazionale: non appartengono più a un’età di passaggio, non sono più piccoli adulti, ma diventano una sorta di “classe sociale” autonoma, alla ricerca di proprie identità e culture differenti. Si afferma tra di loro la ricerca di mezzi espressivi diversi e alternativi all’establishment degli adulti”.

“Il rock’n’roll” – continua Pellicciardi – “accompagna e promuove nuovi miti e nuovi modelli sociali antagonisti a una società dominata da una borghesia ipocrita e decadente: nascono le figure del ribelle creativo, del consumatore alternativo, del naturalista romantico. Si (ri)affermano nuovi valori e si ricercano modelli esistenziali un po’ bohemien e senz’altro non convenzionali”. “Il rifiuto delle pratiche sociali e delle regole morali dei padri si manifesta attraverso lo spontaneismo e la creatività, la ricerca di relazioni interpersonali più solidali e pacifiste, un nuovo rapporto tra donne e uomini grazie alla rivoluzione femminista, una maggiore libertà sessuale con la teorizzazione dell’amore libero. Il viaggio “on the road” – complici i poeti e gli scrittori americani della Beat Generation come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso, e film-simbolo come Easy Rider – senza meta e senza un fine preciso, se non quello di ritrovare se stessi in un mondo diverso più umano e libero, è l’archetipo della controcultura giovanile”.

Pellicciardi esalta questa “ricerca di una nuova spiritualità, di una dimensione libertaria, di uno stato di natura che esalta gli istinti e che viene altresì favorito da un diffuso uso di droghe leggere consumate preferibilmente in una dimensione collettiva”. “Non è un caso che tra le parole più utilizzate nel vocabolario rock di quegli anni si possano incontrare definizioni come “essere liberi”, “pace e amore”, “tutti insieme”, oltre all’abusato “sesso, droga e rock’n’roll”. “Il concerto di Woodstock (…) e, più in generale il ballo rock costituiscono la massima espressione di questa ideologia” (ndr: colpisce come l’autore insista nel ricorso all’ideologia per fornire l’interpretazione dei fenomeni di cui parla, senza mai cogliere come l’ideologia, in quanto “sovrastruttura”, spesso si ponga in antitesi con lo “spontaneismo” e la “creatività” che egli stesso esalta). “A loro volta i filosofi della cosiddetta scuola di Francoforte – Theodor Adorno, Erich Fromm (il suo libro più famoso, “Avere o Essere?” diventerà presto un testo fondamentale, quasi un best seller) e Herbert Marcuse – con la critica dell’autoritarismo, a partire dalle istituzioni familiare e scolastica, alla “devastante” supremazia tecnologica e a un “oppressivo razionalismo positivista”, diventano i nuovi maìtre à penser dei giovani formatisi sull’onda del ’68 soppiantando ben presto Marx ed Engels. Il rock diventa anche la musica che meglio rappresenta e racconta gli ultimi, che sostiene le rivendicazioni di poveri, disagiati, oppressi,emarginati, di chi non si adatta a vivere secondo i canoni tradizionali e soprattutto di chi, “vittima dell’imperialismo”, lotta contro ingiustizie e umiliazioni: dai neri d’America e del Sudafrica ai popoli del Terzo Mondo in lotta contro le dittature. Che Guevara, Ho Chi Minh, Martin Luther King sono gli idoli di una generazione che ha creduto nella liberazione dall’oppressione dell’uomo sull’uomo e nella cancellazione delle ingiustizie a favore di un mondo migliore dove tutti potessero essere effettivamente liberi e uguali. Il sogno alternativo, l’utopia pacifista, la ricerca di una “vera” libertà individuale trovano in Bob Dylan e John Lennon, penso, la massima rappresentanza”.

Sono molteplici e indubbie le verità espresse nella sincera interpretazione della cultura rock offerta da Guido Pellicciardi, ma ciò che colpisce è la fiera ammissione di questo approccio programmatico (del resto, mai nascosto) verso quel fenomeno: un approccio così razionale, ma al tempo stesso così alterato da non consentire più distinzioni tra il contenitore e i contenuti. Era una volontà di identificazione tanto forzosa e ostinata da riuscire a offuscare il rock come forma d’arte aperta ad ogni contenuto, a ingabbiarne il linguaggio, e quindi il suo stesso pubblico: non si riusciva a vedere che l’immenso popolo di utenti della musica comprendeva una massa non marginale di persone totalmente indifferente, estranea, se non proprio antitetica, alle lotte di Che Guevara, agli scritti di Marcuse, e perfino a certi contenuti specifici della contestazione espressa dallo stesso John Lennon.

In modo meno dogmatico, e forse anche più divertente, un altro autore testimonia il momento della nascita delle radio libere a Correggio. Stefano Ligabue racconta: “Tra la seconda metà del ’76 e l’inizio del ’77 la Fgci correggese è alle prese con un allentamento del rapporto con la sua base e con i giovani in generale. Nei circoli si dibatte sui metodi di recupero del rapporto e una delle soluzioni più gettonate è sicuramente la costituzione di una radio. Finalmente, il 26 maggio del ’77, la “Commissione radio” arriva a una prima Bozza per la costituzione di un’emittente radio. L’impostazione è spiccatamente politica e sociale. La musica ha un ruolo marginale e di riempimento, tanto che il documento stabilisce graniticamente quale musica si può trasmettere e quale no. Ci rendiamo conto che la musica avrà anche qui un notevole spazio ma saranno fatte delle scelte precise. La musica che avrà maggior spazio sarà quella popolare, folk, alcuni tipi di musica rock, liscio. Sono escluse dalla trasmissione le cosiddette canzonette e per intenderci la soul music (con scelte ben precise). L’ala musicale è una minoranza entusiasta, ma la leadership (e i soldi) sono senza dubbio nelle mani dell’ala militante. Fatto sta che, in breve tempo, risulta abbastanza evidente che l’ascolto e l’impatto sociale e politico rasentano lo zero” .

E lo stesso Pellicciardi, nel rivangare aneddoti che oggi possono far sorridere, parlando del rapporto tra la Fgci e la musica, “quella, ovviamente “impegnata” ricorda: “Nella Fgci di Correggio c’era stato anche chi teorizzava il sabotaggio delle discoteche e della loro musica commerciale, con la motivazione che la disco-music allontanava i giovani dall’impegno e dalla politica: una posizione perdente, che venne presto sconfessata dalla maggioranza dei giovani figiciotti che non aveva alcuna intenzione di rinunciare a frequentare i locali da ballo alla ricerca in particolare dell’altro sesso” .

Per quanto mi riguarda – e per restare alle mie adolescenziali inibizioni borghesi – non nutrivo alcun pregiudizio sulla militanza di sinistra, di destra o sugli equilibrismi centristi che registravo nella società borghese del Sud Italia in cui vivevo: semplicemente, non riuscivo a soffermarmi sulla correlazione tra le idee e la musica che ascoltavo, persino quando gli artisti si esprimevano in modo esplicito a favore o contro alcune di esse. Era una correlazione che non trovavo necessaria: i Led Zeppelin per me potevano dire tutto e il contrario di tutto, li avrei amati comunque, come si ama la pura Arte , anche quando esprime l’esatto contrario di ciò che siamo o pensiamo. E con la maturità ho poi imparato a sorridere su quel tentativo di appaltare la musica, di strumentalizzarla: un peccato veniale, commesso, in fondo, un po’ ovunque, a tutte le latitudini ( la stessa Woodstock , del resto, costituì un innegabile momento di propaganda di stili di vita e di pensiero che alcuni agitatori e promotori, in qualche modo, cercarono ad ogni costo di introdurre nel festival. L’irruzione sul palco di Abbie Hoffman durante l’esibizione degli Who, per spingere il pubblico alla protesta contro l’arresto di John Sinclair, condannato a dieci anni di carcere per aver offerto due spinelli a un poliziotto, ne costituisce l’episodio esemplare: vicenda poi passata alla storia del festival come unico momento di violenza esplicita, quella di Pete Townshend, che respinge l’irruzione di Hoffman scaraventandogli una chitarra in testa). Con gli anni ho accettato che la strumentalizzazione costituisse un effetto quasi fisiologico, proprio per le caratteristiche che la musica popolare aveva espresso sin dai suoi esordi, negli anni 50 e 60, come strumento di comunicazione, aggregazione e spesso protesta.

Non potrò, insomma, addebitare troppo agli amici di Correggio e di tutte le feste dell’Unità della nostra italietta quell’assalto ideologico che mi inibiva, impedendomi di abbandonarmi a un ballo liberatorio nel bel mezzo di una festa popolare. Regredire sino al ballo primordiale, abbandonarmi agli stati alterati di un light-show di San Francisco, forse non mi sarebbe riuscito neppure nell’America dell’Era Hippie, dove queste performance liberatorie in effetti si manifestavano – anche lì – nel bel mezzo di atmosfere sociali talvolta anche più tumultuose delle nostre e tutt’altro che rassicuranti : ero un ragazzo borghese, ciò che percepivo non potevo che viverlo secondo la mia indole.

Ma quel medesimo assalto ideologico, che ricaviamo dagli spunti di “Correggio Mon Amour”, o quelle manifestazioni comportamentali che rivediamo in “Woodstock: 3 Days Of Peace and Music”, assumono oggi un significato prezioso e più ampio per comprendere i segni di questo tramonto della cultura rock al quale nessuno era preparato.
L’era post moderna e post ideologica, innescata già dagli anni ’80, ha senz’altro avuto la caratteristica di non richiedere alla Musica un ruolo così trainante per la diffusione di stili di vita, ideologie e forme di comunicazione;
I musicisti, liberati da questo ingombrante fardello, si sono assestati nella dimensione loro propria, quella di artigiani del suono, compositori, esploratori di sonorità, e col ripiegare sul solo fattore-musica hanno trovato la propria naturale condizione, uscendo, però, sempre più, e progressivamente, dal privilegiato consesso dei “comunicatori” ;
Le nuove forme di esperienza collettiva, di condivisione e di scambio, sono state appaltate dalle reti telematiche, dai social network, dalla comunicazione globalizzata che non ha bisogno del veicolo di una canzone per propagare ebbrezza ed emozioni;
L’emozione di massa, polverizzatasi in una miriade di micro-masse (quella dei sostenitori delle squadre di calcio, dei cultori dell’ufologia, del sesso virtuale, delle dotte accademie scientifiche, politiche, e delle infinite nicchie telematiche globalizzate per interessi specifici) ha finito col ridimensionare quel mondo che ruotava attorno alla cultura musicale e che su quella stessa emozione di massa fondava la propria legittimazione;
L’assenza di domanda, da parte del pubblico, non tanto di musica, quanto di “ruoli” trasmessi attraverso la musica, ha dissolto, insomma, nell’arco di un decennio tutta quella “sovrastruttura” che da una parte arricchiva i fenomeni musicali, e dall’altra li snaturava;
E quell’assimilazione tra musica e valori sociali, che produceva stili di vita e costumi, d’un tratto, è divenuto il retaggio di un’epoca lontana.

Dai ‘revival’ di culto per reduci, alla saga di History Channel, dunque, il passo è breve.

Giuseppe Basile © Geophonìe.
(13.08.2009) Diritti riservati

Simple Minds 03.07.2009, Milano, Arena Civica

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Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Dobbiamo fare uno sforzo: essere obiettivi. E per noi di Geophonìe, trattandosi dei Simple Minds, la cosa risulta difficile. Non possiamo negare un affetto profondo verso Jim Kerr e soci, lo  nutriamo da anni: precisamente da quella sera del 7 luglio 1983, quando la band approdò a Taranto, la nostra città, e ci regalò una serata che è rimasta scolpita nel ricordo collettivo, un pezzo di storia della musica a Taranto, ma anche un pezzo della “nostra” storia personale. Se oggi questa piccola associazione culturale esiste lo dobbiamo un po’ anche a loro, a Jim e alla band.

Jim Kerr col Corriere web

Jim Kerr, Simple Minds, Taranto, 07.07.1983 (Marcello Nitti © Geophonìe)

Fummo talmente felici di quell’evento che in seguito abbiamo fatto di tutto per documentarlo, conservarne ogni traccia utile e mantenerne vivo il ricordo. Fu un momento di gloria, anche personale, per chi lo organizzò.

Ma inseguire gli eventi irripetibili è pericoloso. Ci abbiamo provato tante altre volte a ricreare quell’atmosfera, quel trasporto collettivo, abbiamo cercato di sostenere quella passione, ma un momento come quello non si è più ripetuto. Anche il nostro libro, “80 NEW SOUND, NEW WAVE” , in fondo era finalizzato a questo. Lo abbiamo regalato a Jim Kerr a Milano, dopo il concerto, lasciandolo speranzosi nelle mani di un addetto alla sicurezza ( … l’avrà ricevuto? Chissà! Ci piacerebbe saperlo). Volevamo che lui conoscesse la nostra storia, che potesse scoprire come di quel concerto si sia parlato per anni, tanto da arrivare a scrivere un libro per spiegare “che-cosa-accadeva-in-una-città-di-provincia-quando-negli-anni-80-passavano-i-Simple Minds” (… ma anche gli Ultravox, i Bauhaus, i Sound e Siouxsie, i New Order e gli altri …).

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Charles Burchill, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

E’ pericoloso, talvolta, coltivare l’illusione di poter rivivere antiche emozioni in una nuova realtà, quella di oggi, in cui le sonorità dei Simple Minds non possono che risultarci  scontate ed è inevitabile che non ci sorprendano più. In questi casi, quando si va al concerto con lo spirito dei fans,  persino il critico musicale freddo e imparziale, forse, finisce col risultare più indulgente. I fans non sono obiettivi, i fans pretendono. Di declino, di tempo che passa, loro non vogliono sentir parlare. Sono consapevoli che una certa sonorità, un certo ‘stile’ oggi  non può essere altro che revival, ma confidano che la propria band riuscirà a far dimenticare tutto questo. Il critico musicale, in fondo, direbbe che la band ha superato brillantemente questo ennesimo esame. Anche l’ultimo disco viene apprezzato dalla stampa specializzata e la folla, del resto,  è uscita dall’Arena Civica felice e soddisfatta. Ma i fans del gruppo, quelli che hanno atteso molti anni per vederlo, pur nella gioia collettiva, commentano la serata in modo vario.

Un ragazzo dice: “Li avevo visti a Roma negli anni 80, dopo vent’anni eseguono tutti i brani  alla stessa maniera”. Lo dice con rammarico.
“Se un artista si ripresenta su un palco dopo diversi anni, immagino che lo faccia perché ha voglia di dire qualcosa”, commenta una signora non giovanissima. Nessuna sorpresa, insomma. Sembra che i Simple Minds vogliano a tutti i costi assomigliare a sé stessi, senza concessioni ad alcun tipo di sperimentazione, né sonora, né compositiva. Il concerto è un recital. Si parte con “Waterfront”, con “I Travel”, si prosegue con Someone, Somewhere in Summertime”, “Glittering Prize”, “Promised You a Miracle”, “New Gold Dream”, “See The Light”, intervallate da poche novità, quelle dell’ultimo disco, un lavoro anch’esso molto allineato allo stile della band. “Moscow Underground”, il brano di punta di questo nuovo “Graffiti Soul”, assomiglia moltissimo alla fortunata “Home” del loro disco precedente.

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Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009 Milano Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

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Simple MInds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Ma un po’ tutta la resa dei brani, anche nella versione in studio, appare sempre ferma su uno stesso clichè: scelta che oggi, forse, può apparire opinabile. Se nel 1983 aveva un senso proporre un unico trend sonoro, perché quello era il momento di mostrare al mondo intero quel nuovo sound in cerca di affermazione, questo perseverare oggi lascia perplessi.
“Ma è poi proprio obbligatorio dover cambiare sempre e comunque?” Dice di un ragazzo. “Quello che conta è avvertire la sincerità di una proposta artistica. Loro suonano così perché hanno voglia di suonare così”.
L’immutabilità di una formula, invece, secondo altri è mestiere, più che proposta artistica. Jim però, in effetti, appare sereno, si diverte, appare spontaneo, non ha l’atteggiamento graffiante dei primi ’80 ma appare appagato e felice. “Bellissima serata, Milano!” “Nessuno ha voglia di andare a dormire”, dice durante la performance.
Si sussegono “Belfast Child”, “The Dolfins”, “Alive And Kicking”, “Sanctify Yourself”, “Ghostdancing”, ma anche “This is it” dall’ultimo album a chiusura dello show, in una scenografia scarna che non sostiene adeguatamente i brani eseguiti.
Anche il modo di stare sul palco non registra variazioni di rilievo. Le mosse di Jim, quelle che ci sono rimaste scolpite nella memoria, come quelle del Live Aid, sono le stesse. C’è una sorta di parodia di sé stessi in questo, anche se espressa in modo sereno e rilassato, disinvolto. Non vogliono dimostrare nulla i Simple Minds (… e questo è il guaio!).
Un ragazzo giovanissimo, guardando Charles Burchill, dice: “Somiglia a Facchinetti, al chitarrista dei Pooh”. “No” – dice un altro – “Non a Facchinetti, a Red Canzian. Facchinetti non è il chitarrista, è il cantante, è il padre di DJ Francesco”.  A sentire questo scambio di battute mi viene la malinconia. Vorrei che la mia band riuscisse a produrre un nuovo miracolo sonoro e compositivo, ora che ce n’è tanto bisogno, e che il pubblico fosse lì, zittito e rapito da una novità sconvolgente. Preferirei il silenzio e lo stupore della novità al facile successo del concerto-karaoke, quello del canto collettivo sollecitato da Jim, che più volte rivolge il microfono verso la folla. Ma in fondo è una festa di compleanno, forse non si può chiedere di più. O forse sì: sarà pure un compleanno, ma è quello dei trent’anni, quello di una maturità anagrafica che dovrebbe proiettare questi artisti verso un ruolo di guida, anzichè verso espressioni autocelebrative che si risolvono in un beneficio più per il cuore che per la mente.

Giuseppe Basile © Geophonìe