Vita musica ed eventi nella provincia italiana degli anni ’80
’80 NEW SOUND, NEW WAVE (Basile/Nitti, Geophonìe, 2007, ISBN 978-88-903063-0-3) analizza stili di vita, società e costume degli anni ’80, ma è anche un’inedita storia di piccoli gruppi sorti in giro per l’Italia alla ricerca di una propria nuova identità musicale, sulla scia delle grandi band del decennio passate forse casualmente su palchi di periferia e prime ribalte di provincia.
Con un percorso trasversale in cui si intrecciano i destini di grandi e piccoli artisti, il volume passa in rassegna carriere, discografie, setlists di concerti e le mescola con ricordi personali di gente comune, appassionati, musicisti locali che cercarono di incrociare la propria strada con quella delle nuove star del decennio ’80.
Il risultato è un collage di ricordi, gadgets, memorabilia, considerazioni critiche e notizie inedite sui gruppi new wave: Siouxsie fece una passeggiata nella siderurgica Taranto del 1985, si recò al museo archeologico e dopo pochi mesi diede alle stampe il disco “Cities in The Dust”, città nella polvere, con un vaso greco in copertina. I New Order, dopo il loro concerto tenuto al Tursport Club di Taranto (Sud Italia) il 19 giugno 1982, si recarono al mare e dichiararono poi alla stampa italiana che quella spiaggia di Taranto costituiva il più bel ricordo della loro prima tournee italiana. Poco dopo composero il noto brano intitolato “The Beach”.
Il grande Adrian Borland dei Sound nella notte del 18 maggio 1985, a Taranto, venne portato in giro dai fans tra le bancarelle di una festa patronale, e poi di notte, nei vicoli di una città vecchia irreale e deserta, tra le barche dei pescatori a mangiare un panino, mentre i Bauhaus nel 1982 (il loro concerto costò soltanto 1. 500. 000 di vecchie lire!) se ne andarono in giro scorazzando con dei ragazzi di Taranto in una Renault 5 sotto un diluvio universale, facendosi poi coinvolgere anche in una partita di calcio e di tennis con i pochi fortunati fans presenti nel circolo sportivo che li ospitò (Taranto, 1-2 maggio 1982).
I ricordi di provincia testimoniano la semplicità degli artisti new wave agli esordi, all’alba della loro affermazione internazionale, così come le splendide foto illustrano l’incredulità e la disabitudine di quelle nuove giovanissime pop star ad un successo che si andava consolidando sempre più rapidamente. Lo sguardo e lo stupore di Jim Kerr mentre tiene in mano il quotidiano locale di Taranto che ne celebra l’arrivo in città è immortalato in un’immagine che da sola vale il libro. La partita di calcio e di tennis di Peter Murphy e dei Bauhaus con i ragazzi del luogo, le prime immagini dei New Order dopo la perdita di Ian Curtis in occasione del loro esordio in Italia, sono un cimelio fotografico. Il volume è stato realizzato interamente con materiali reperiti nei circuiti del collezionismo privato e amatoriale.
Pregevole, infine, è una discografia essenziale del decennio che spazia dai grandi nomi sino a quelli di nicchia, dal collezionismo più efferato alla cultura underground, con catalogazione per sottocategorie e generi (“i frivoli”, “gli ipercolti”, “i dark wave e gotici” , “i post punk”, “gli elettronici”, “i precursori” etc. ).
© Geophonìe
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“Dolceamaro”, il libro postumo di poesie e scritti di Carlo Amico, è stata la prima realizzazione editoriale curata in questo 2014 dalla nostra associazione. La vicenda è ormai nota, specie dopo la presentazione dell’opera avvenuta il 29 dicembre al Teatro Turoldo di Taranto, città natale di Carlo, e dopo vari articoli di stampa che hanno reso pubblica la storia di questo autore e dei suoi scritti.
Il 13 novembre 2012 Carlo Amico, laureando in filosofia all’università di Lecce, viene a mancare. I genitori raccolgono i suoi scritti, per lo più poesie, redatte su un quaderno. I versi sono scritti quasi sempre senza cancellature, di getto, con minime correzioni. La lettura dei suoi componimenti risulta sorprendente, diviene una sorta di enigma, un percorso profondo e interiore, silenzioso, che col tempo induce i genitori a condividere riservatamente questi preziosi componimenti con pochi intimi.
E’ casuale l’incontro con la nostra associazione Geophonìe. Ricevuto il manoscritto, Giuseppe Basile e Concetta Ingrosso avvertono una sensazione di disagio e d’insicurezza, lasciano emergere dubbi sulla fattibilità di una pubblicazione affidata ad un’associazione (Geophonìe) di natura amatoriale e non professionale: sospettano di maneggiare un’opera di particolare valore, tanto da suggerire di sottoporla ad altri per un giudizio e una valutazione più tecnica.
A interessarsi degli scritti di Carlo è Mario Desiati (scrittore, poeta e giornalista pugliese, collaboratore di Mondadori, Fandango Editore, L’Unità e Repubblica, finalista al Premio Strega nel 2011, autore di recenti romanzi di assoluto successo), il quale scrive a caldo le sue impressioni ai genitori, svelando, con la tipica sensibilità e competenza di chi sa, i reali valori dei testi, analizzandone i significati, cogliendone appieno, e complessivamente, il senso.
Da quel momento, consapevoli dell’unicità dell’opera, si può decidere di farne l’uso più opportuno, di portarla alla luce nel modo adeguato, consono e rispettoso del suo pregio. Geophonìe, in questo, non sembra la soluzione ottimale, per la sua natura non commerciale, per la sua struttura non specificamente “editoriale”, in senso stretto.
Ma Vincenzo Amico e Mariella Semeraro decidono ugualmente di affidare alla nostra associazione la produzione e la pubblicazione. Il libro viene elaborato graficamente e stampato a Modena, presso Grafica Studio, dagli esperti Maurizio Ferretti e Tania Toma.
Il 29 dicembre 2013, a Taranto, in un teatro gremito, Dolceamaro vede la sua prima divulgazione. Realizzato a cura dei genitori di Carlo, interamente da loro finanziato, e gratuitamente distribuito, “Dolceamaro” è stato immediatamente apprezzato e amato dalla comunità locale che si è interessata alla sua storia.
Carlo Amico era stato sostenitore di Amnesty International e i suoi pensieri universali, le sue parole profonde, hanno trovato ampia eco e risonanza anche in occasione della 29° Assemblea Nazionale dell’Istituzione tenutasi a Bari lo scorso 25 aprile, ove alcuni dei suoi vertiginosi versi sono stati letti pubblicamente.
E’ inutile rimarcare che da tale fortuito incontro (tra Geophonìe e la famiglia di Carlo) si sono impressi in noi segni profondi: merito delle parole di Carlo, e di questa realizzazione editoriale che ci ha unito, per la quale andiamo orgogliosi.
Giuseppe Basile © Geophonìe
Diritti Riservati
Di Mario Desiati

Mario Desiati presenta a Taranto “Dolceamaro”, Teatro P.Turoldo 29.12.2013
C’era una volta, un ragazzo. Jack era il suo nome; un nome come tanti penserete. Ma lui non era come tanti, o no. Era diverso da chiunque conoscesse, forse addirittura da chiunque altro abitasse sulla Terra. Perché mai direte voi: forse per via del carattere, o del fisico. E poi come fa una persona a essere radicalmente diversa? Lo è nell’anima: in questo caso nelle anime. Perché in Jack vivevano due anime, due lati completamente distinti…
In questo incipit del primo racconto che apre la sezione centrale della raccolta che state per leggere, ho provato a sostituire il nome Jack con quello di Carlo e ho forse capito solo allora quanto vario e potente fosse questo libro. Quante anime contenesse il volume e anche il suo autore.
Un pomeriggio d’estate entrò nella mia vita la scrittura di Carlo Amico. Fui contattato dalla madre Mariella che in una gentile e asciutta mail mi donava l’onore di leggere gli inediti del figlio scomparso lo scorso novembre.
Nelle righe che seguono ho provato a ripercorrere alcuni punti salienti della produzione letteraria di Carlo Amico. Per farlo mi sono lasciato guidare dall’emozione, soprattutto nella parte filosofica dove non ho le necessarie competenze per poter esprimere un adeguato parere sul valore degli scritti, posso però con certezza condividere con chi si incamminerà nelle pagine che seguono, delle piccole illuminazioni che ci fanno arrivare quanto a meno a sfiorare alcune delle mille anime del suo autore.
Quanto alla poesia e al racconto, leggendo il file degli scritti ho scoperto la voce di uno scrittore vero, e se dovessi inserirlo in uno schema direi che si tratta di quella linea letteraria pugliese che da trent’anni ahimè caratterizza alcune delle nostre voci più potenti. Quella che chiamo “I sentieri interrotti”: comincia da Stefano Coppola, passando per Salvatore Toma, Antonio Verri, Claudia Ruggieri e arriva a comprendere oggi anche la voce di Carlo Amico. Autori che non hanno avuto modo di esprimersi nelle loro massime potenzialità, ma che nella loro giovinezza prima di essere colti dalla morte prematura hanno mostrato un sintomo di grandezza.
Grazie alla scrittura i poeti continuano a vivere anche quando non ci sono più. È una delle regole auree, una massima che aleggia dentro l’uomo che spesso nei maggiori momenti di conflitto e attrito affida al simbolo il segno di un messaggio…
Se dovessi giocare con un luogo comune che indica i poeti con l’anima candida dei bambini e i filosofi con l’anima temprata dei vecchi, affiderei a Carlo Amico il riassunto di questa massima. Carlo Amico è andato via a vent’anni, ma aveva nel cuore due spiriti, l’innocenza di un bambino “che chiede cos’è la guerra” e la saggezza di un anziano barbuto che ascolta i suoi simili nell’agorà.
Esemplare nel senso di tale dualismo i versi che seguono: i bambini la sanno più lunga,/sanno che Babbo Natale non si vede/perché non c’è, o almeno lo sapranno./E poi che furbizia è mai questa?!/Se si vive di menzogne, vanno credute vere!/Son d’accordo con voi: si vive meglio/con l’aiuto di sogni e fantasie,/salvano dalla pazzia della ragione./Ma non è peggiore la malattia/di chi è sveglio e procede nel buio/per fingere la notte?
Gli scritti di Carlo Amico si articolano in due parti che rappresentano la personalità intellettuale dell’autore che andava facendosi. Il poeta-narratore e il saggista. Nella parte poetica si mostra la voce più malinconica, echi romantici e un lirismo che si mischia con una tensione narrativa come parte della poesia dei trentenni di oggi quali Massimo Fantuzzi, Gilda Policastro o certe prove di Marco Giovenale.
Estendo qui di seguito una poesia piuttosto significativa per dimostrare il lavoro di Carlo Amico orientato a dare nella poesia più narrazione possibile.
Per coloro che aspettano nella pioggia,
la propria ragazza venire;
per le donne che sopportano ogni cosa,
solo per essere chiamate “mamma”;
per il bambino che guarda lo schermo
e chiede: «cos’è la guerra?»
per due amici che litigano in macchina,
che sanno quanto poco durerà la tempesta;
per colei che sogna e piange,
aggrappata a poche strofe;
per colui che, parlando al suo cuore,
contro la moda, legge e scrive d’amore;
per tutti questi è il mondo, la vita
per chi durante il temporale vede solo le stelle
giocare a nascondino.
Il processo metrico di questi è oscillante, c’è una scelta precisa, Amico alterna dodecasillabi a ottonari, tranne alla fine quando la sua tensione narrativa diviene evidente. Ho scelto questa poesia perché oltre a compiere apertamente alcune sperimentazioni stilistiche, l’anafora “per”, le allitterazioni, una messe di doppie t che rende la lettura ad alta voce volutamente dura, dalla musicalità aspra.
Eppure Amico ha una vena lirica e dolce che nei frammenti narrativi presenti in questa raccolta viene fuori in modo limpido.
C’è un pezzo che fa tremare il cuore ed è tratto dal racconto “Ultimo viaggio”.
Le ore trascorrono lente e tranquille, camminando in mezzo alla natura. Gli alberi larghi e frondosi, le piante e i fiori odorosi di una nuova primavera e persino il ronzio laborioso degli insetti accolgono il forestiero nel loro regno. Jean si inoltrava in questa festa di colori e rumori soffusi, aspirando a farne parte. «È come toccare la libertà, ne sento persino il profumo: qui non esistono leggi, né follia: esiste solo il rispetto, un sottile gioco di vita e di morte che sopprime qualcuno, è vero, ma permette la felicità di tutti. Una società inconsapevole, viva senza bisogno di sapere perché». Benché non fossero altro che pensieri, Jean ebbe l’impressione che le sue parole avessero pervaso ogni resina, ogni foglia bagnata dalla rugiada, ogni filo d’erba asciugato dal sole, colpendone il cuore più intimo. Era il paradiso, ma anche questo ha le sue regole: il sentiero si fece sempre più angusto e impraticabile, obbligando Jean a usare tutte le sue forze e una certa parte di violenza per poter proseguire. A mezzodì, sbucò in una valle rigogliosa attraversata da un fiume, le cui acque sembravano aver strappato il colore agli zaffiri più puri. Poche decine di case in pietra viva risaltavano fra la natura lussureggiante: per quanto piccola, la presenza umana disturbava l’armonia.
Jean potrebbe essere uno degli alter ego dell’autore. Il protagonista del racconto ha trascorso una vita in serrato dialogo con padre Alfred, un sacerdote che ha un rapporto tormentato con la teologia e la pedagogia, ma ne espone i principi. In lui cerca, ma non trova il padre spirituale che lo possa guidare ad alcuni segreti della vita. La filosofia gli spalanca dei mondi nuovi (e sulla parola mondi nella partitura di Amico ci tornerò avanti). Il suo compagno di avventure e speculazioni è Massimo e a lui confida la necessità di un viaggio; bellissima la risposta di Massimo alla raccomandazione di Jean di non mettersi nei pasticci. “E tu invece vedi di cacciarti nei guai.”
I guai.
Perché il posto di Jean è nel vortice della vita, al centro troverà quella foresta che nasconde la valle rigogliosa attraversata da un fiume le cui acque hanno il colore degli zaffiri. La pace e le serenità dell’acqua, la terra, la natura è il sentimento della grazia che mette ordine alla potenza del fuoco solare che ha guidato il cammino di Jean nell’intricata foresta fatta dalle sue parole.
“Stare al mondo” è una delle ossessioni di Amico ed è in questo racconto che si nasconde una chiave segreta per poterlo spiare da uno spiraglio, più avanti infatti scrive ne “Il libro chiuso”: la filosofia, e la cultura umanistica nel suo insieme, ha il compito di educare la società proponendole strade sempre coerenti e sempre nuove per permetterle il suo ultimo scopo: sentirsi a casa nel mondo.
E il mondo di Amico era continuamente innamorarsi delle cose più semplici, a cominciare dai valori che ne facevano un uomo impegnato nella società civile, lui candidamente ammette: Per coloro che aspettano nella pioggia,/ la propria ragazza venire;/ per le donne che sopportano ogni cosa,/ solo per essere chiamate “mamma”;/ per il bambino che/ guarda lo schermo/ e chiede: «cos’è la guerra?»… ho immaginato Carlo quel bambino che guarda lo schermo e chiede cos’è la guerra, e che col tempo ha tenuto quell’atteggiamento autentico e schietto, come quello che hanno i bambini.
In questo tempo di alluminio e falsità,/marciamo come bambini,/aggrappati a colonne, fredde – scrive l’autore, in una poesia senza titolo che inizia con proprio questi versi. Ecco un frammento dell’anima pura dietro i testi raccolti in questo libro, l’anima pura è quella dei ragazzini che vedono nelle cose sempre un mondo ulteriore, che sanno dare peso al simbolo, ma soprattutto che hanno le pagine bianche dell’innocenza.
L’innocenza è la virtù della poesia, guardare le cose con l’energia dell’infanzia, con la visionarietà che si ha da bambini, dare alle cose che appaiono un tratto simbolico, andare oltre l’apparenza. Un vero poeta è un bambino dentro, ma anche un vecchio signore che sa come mantenere il contegno, non scomporsi e vivere l’inferno dentro come al termine della poesia “Epitaffio per un filosofo” scrive: Voi che avete da vivere,/ ascoltate il consiglio di un vecchio:/ vivete e godete, amate il prossimo e il mondo,/e avrete fra le mani la profonda ragione dell’Essere.
Nella parte più romantica, Amico diviene nostalgico, a volte brillante e sentenzioso come in questo verso secco che si apre all’ipotesi di un amore che ha a sempre a che vedere con la propria più intima eccezionalità: ti amo, perché sei ciò che non sono…
Questo verso mi ha commosso e credo commuova chiunque perché parla di un suo amore e universalmente dei nostri amori. Non c’è dubbio che qui centri l’insegnamento platonico, nessuno capirà cos’è la filosofia se non parte dall’amore.
Ma l’amore che presuppone quel verso, è un amore non identitario, è l’amore. Ciò che è diverso è uno scambio e una crescita. È un’idea che si avvicina ad alcune teorie lacaniane come quelle di Badiou che contesta la logica dell’identità, l’amore è minacciato per definizione, poiché si mettono in questione la sua inclinazione per la differenza, la sua dimensione asociale, il suo lato indomito, persino violento. La ricerca di un amante simile a noi. E ribaltando al contrario il verso di Carlo Amico, innamorarsi dell’altro in quanto simile a noi. Tralasciando la deriva narcisista di un simile comportamento, si tratterebbe di un amore arido, senza prospetto. E invece Amico è in un solco opposto, come quello di Badiou che nell’Elogio dell’Amore scrive: “E si farà propaganda a favore di un “amore” in tutta sicurezza, perfettamente in linea con le altre pratiche secu-ritarie. Di conseguenza, difendere l’amore in ciò che ha di trasgressivo ed eterogeneo rispetto alla legge è un compito molto attuale. Nell’amore, come minimo, ci si affida alla differenza anziché sospettarne. La reazione, infatti, impone sempre di diffidare della differenza a favore dell’identità: è la sua massima generale. Se invece vogliamo aprirci alla differenza e a ciò che essa implica, ovvero a che il collettivo sia capace di estendersi al mondo intero, una delle esperienze individuali praticabili è la difesa dell’amore: al culto identita-rio della ripetizione è necessario contrapporre l’amore per ciò che è diverso, unico, per ciò che non ripete nulla, che è erratico e straniero. Nel 1982 scrivevo in Théorie du sujet: «Amate ciò che non vedrete mai due volte».”
Nel libro di Amico aleggia l’inquietudine, a volte il pessimismo e la rabbia, ma una rabbia pericolosa solo per se stessi che non farà mai male a nessuno. Per esempio quando nel libro sembra raccogliere in una strofa la tragica profezia che vuole avverarsi, ma viene fatto con una semplice e sottile evocazione, senza esplicitare il male di vivere: È ora di andare, lo dico da tempo./Imbocco nuove strade,/incontro anime sempre diverse,/sullo sfondo paesaggi mai visti.
Sulla parte filosofica e marziale del libro andrebbe detto che si manifesta un pensiero filosofico che a una prima definizione potrebbe evocare il pensiero di Carlo Michelstaedter e per le stesse ragioni, con eguale rovello, si libera il potenziale di tragicità dell’esistenza, attraverso violente contrapposizioni concettuali (nell’unica opera di Michelstaedter era sin dal titolo questo dualismo: “persuasione-rettorica.”)
In uno dei suoi microsaggi Amico scrive: un incontro tra due personalità è sempre uno “scontro”, nel senso che non possono mai comunicare direttamente, ma attraverso dei filtri quali il linguaggio verbale e non verbale, i quali a loro volta contengono schemi concettuali e ideologici che fungono anche loro da “lenti” per la comunicazione. Per quanto tutto ciò possa apparire scontato, le conseguenze logiche non lo sono affatto.
All’interno della parte filosofica del libro si trovano riflessioni e ragionamenti che vista la giovane età del suo autore , sono ancora in fieri, scrive lui stesso a proposito: Queste pagine racchiudono ragionamenti, non lezioni. Centinaia di avvenimenti, esperienze, incontri e scontri mi hanno portato, oltre che qualche notte insonne, anche riflessioni e pensieri sul mondo, sulle persone, semplicemente su ciò che di volta in volta mi capitava. Pensieri che ora, con fatica, trascrivo…
Eppure ci sono tracce importanti di originalità come la riflessione sulla libertà di pensiero e la libertà d’azione. Carlo Amico parte dal presupposto che la libertà d’azione non potrà mai essere assoluta, proprio perché recintata da ostacoli fisici, “non è possibile compiere 2000 chilometri a piedi in 20 minuti”, scrive. Ma anche la libertà di pensiero ha i suoi confini ed è condizionata dalla memoria, le reazioni ai fenomeni della vita e le sue scoperte.
Carlo Amico è un solco infuocato nel cuore della sua generazione, nelle sue parole c’è disagio e profondità, conflitto e poesia, ma anche una speranza insondabile nei confronti della bellezza e della scrittura che arde come lui racconta in questi bellissimi versi:
Ancora brucio, brucio,
come un incendio nella notte più buia;
vado a fuoco, mi convinco che non è così.
Ma non è fumo,
è il profumo più dolce, dimentico tutto;
non sono più, non amo, non soffro.
Non so. È un attimo.
Il pensiero in nuove forme. Viaggio nel mondo dei “Post”, frontiera neo-espressionista della comunicazione. Tra la banalità e la dignità del nuovo genere letterario.
Sono i mezzi, i supporti, le risorse, a dettare le regole del nostro comunicare?
Ora, senz’altro, meno che in passato.
La carenza di mezzi nel mondo del neolitico doveva essere condizionante oltre ogni nostra attuale immaginazione. Scrivere, dipingere, rappresentare, erano attività che potevano realizzarsi unicamente con i tempi e le forme primitive dei graffiti.
L’urgenza comunicativa era spirituale o propiziatoria: ci si prodigava ad incidere scene di caccia e di danza, figure di guerrieri e di animali, oggetti, utensili e simboli. Ci sarà anche stata, accanto a quelle esigenze esoteriche, qualche altra forma più banale di urgenza espressiva, ludica, disimpegnata, ma ugualmente condizionata dalla difficoltà dell’uso di un mezzo, l’incisione, di sicuro ostacolo all’immediatezza. Quando un mezzo espressivo è di difficile utilizzo e richiede risorse non sempre disponibili o accessibili, s’impone una selezione, una scelta prioritaria tra i contenuti che si vogliono esprimere e rappresentare.
Oggi la Rosa Camuna, simbolo della civiltà rupestre del neolitico in Valcamonica, è l’emblema della Regione Lombardia e i graffiti vengono riproposti in spettacolari mostre multimediali. Ma tanta altra arte spontanea non ha goduto di un destino altrettanto benigno. La maggior parte dell’espressione umana, sino ad oggi, è stata naturalmente, ineluttabilmente cancellata dal tempo.
Questo vale, ovviamente, per tutte le epoche, e tutte le forme di espressione e comunicazione.
I condizionamenti e le limitazioni espressive imposte dai supporti, dai papiri egizi alla pietra della colonna Traiana; dalle incisioni testuali sul ferro fino alla stessa stampa; o i condizionamenti determinati dagli spazi utilizzabili, dal supporto fonografico di quarantacinque minuti, alle pareti urbane rivestite di mosaici (ieri) o di murales (oggi), in passato sono assurti a “misura” dell’arte e dell’espressione.
La comunicazione telegrafica, la lettera confidenziale, la modalità di comunicazione verbale di uno scambio di pensieri telefonico, la struttura di un palinsesto televisivo con i suoi spazi prefissati, sono state – diciamo un’ovvietà – espressione di un pensiero umano “ristretto”, conformato dal mezzo, dal supporto.

La Rosa Camuna, simbolo della civiltà rupestre dei Camuni

Incisioni rupestri nella Val Camonica (1000 a.C.)
E’ sotto gli occhi di tutti, allora, la fortuna di questa nuova attuale umanità, praticamente onnipotente nell’attività comunicativa. Non esistono più spazi entro cui comprimere il pensiero che si intende diffondere, non esistono costi, misure, tempi. La fotografia e la comunicazione in forma digitale costituiscono il giro di boa più colossale della storia dell’uomo. Ora che tutto può essere detto e diffuso in tempo reale, tutto può simultaneamente essere illustrato ed esposto, a dispetto di ogni distanza e limite temporale, la comunicazione produce, e produrrà, nuove bellezze e nuove banalità.

Murales all’esterno del Liceo Sigonio (Modena)
Le banalità, forse, non richiedono alcun viaggio esplorativo, sebbene anch’esse costituiscano un importante termometro esistenziale e non siano, perciò, del tutto prive di valore.
Le bellezze, invece, probabilmente possono richiedere nuove attenzioni per emergere dal bollore di un magma indistinto che caratterizza la comunicazione di oggi, ove tutto si mescola, e ove nessuno ha l’autorità di elevare facilmente, da quel magma, qualche singola perla nascosta.
E’ il prezzo della Post-Letteratura.
La letteratura tradizionale, quella espressa in cinquemila anni di civiltà, si fondava su un meccanismo elettivo governato dal mecenate, dal committente, dall’editore.
La Post-Letteratura è invece arte spontanea, senza regole precostituite, senza un necessario orientamento progettuale, editoriale, nella più assoluta libertà di forme, mezzi e supporti. Sganciata, talvolta, perfino dall’aspirazione al consenso di un ipotetico pubblico, sino alla manifestazione autistica. Arte, Letteratura per se stessi. Regola individuale. O in certi casi, di respiro collettivo. Universale.
La frontiera del blog, dell’E-book, del Post sul social network, costituisce il nuovo terreno letterario che descrive questa umanità. Di questa epoca. Chissà quali di questi graffiti supereranno il proprio tempo e assurgeranno, in un tempo futuro, a simbolo descrittivo del pensiero odierno.

Murales sul tetto del Liceo Sigonio (Modena)
Abbiamo pensato di cristallizzare alcuni Post, espressioni di questa Post-Letteratura (il gioco di parole era troppo invitante per essere evitato).
Ci sono i Post originali e quelli derivativi, rubati o presi in prestito.
I post legati alla cronaca e al tempo presente, e quelli senza tempo, esistenziali puri.
Ci sono i Post Storia, i Post Poesia, i Post Narrativi. I messaggi cifrati. I segnali di fumo.
Le confusioni psichedeliche, i Post surrealistici, le interpretazioni, le visioni e le volontarie o involontarie alterazioni, le mescolanze tra realtà, fantasia, verità, finzione.
Il mondo e la mente, insomma. In un unico nuovo magma. Accessibile.
01.05.2014
Giuseppe Basile © Geophonìe
Concetta Ingrosso, “Connie” , fondatrice della nostra associazione, è stata fra noi
la prima scrittrice a sperimentare il Post come modalità “alta” di scrittura comunicativa. Ha svolto sul Post una sorta di “test di funzionalità”, lo ha, per così dire, “forzato”, provando a elevarlo dalla dimensione maggiormente in uso (quella della superficialità espressiva e del surrogato virtuale al parlare comune), alla dimensione di nuova categoria tra i generi letterari.
Individuare i generi è operazione semplice finchè si naviga nei più tradizionali schemi: è poesia il componimento in versi che cerca di riprodurre la musicalità di un suono attraverso le parole.
E’ prosa tutto ciò che normalmente si definisce “narrativa”, ovvero racconti e romanzi, o comunque tutte le opere non in versi. E’ teatro quella forma d’arte che fonde le prime due e talvolta vi associa la musica.
Come ben sappiamo, però, accanto a queste forme codificate di espressione più classiche si sviluppano continue nuove opzioni e le contaminazioni elaborano generi spuri, come è stato, in passato, il fotoromanzo (letteralmente “un romanzo per immagini”), o come gli screenplay (le sceneggiature cinematografiche o televisive attorno a cui, talvolta, s’incentra l’attenzione del mercato editoriale).
Il post di Concetta, provocazione contenutistica, in qualche modo diviene un esperimento di tecnica letteraria.
Con la costruzione di affermazioni lapidarie, proprie e altrui, mescolate in modo magmatico, i suoi post si avventurano su temi assolutamente inusuali per la comunicazione web più ordinaria, quella frugale, scomposta, sbrigativa. L’esperimento è quello di testare la capacità comunicativa del mezzo, la sua “continenza”, ad esempio, nell’illustrare un percorso anziché un singolo pensiero, o nel descrivere sentimenti non estemporanei ma durevoli, che necessitano di tempi lunghi (diversi da quelli che il Post pare offrire per la frase quotidiana, il pensiero improvviso, la cronaca di un evento). Un esperimento talvolta lucido e ardito, talaltra istintivo e involontario.
Del resto, se oggi questo è il mezzo, candidato al primato della comunicazione, rottamatore della labiale e sonora parola proferita, esso allora dev’essere dilatato sino a poter accogliere le innumerevoli – e sempre insopprimibili – istanze esistenziali immanenti nel nostro animo, quelle che la web-culture mai potrà comprimere o sradicare, perché connaturate al nostro essere.
Concetta parla di sentimenti e d’instabilità esistenziale, parla di tempo e d’infinito, di rapporti conflittuali tra realtà e fantasia, e costruisce un caleidoscopio di dimensioni svelando una clamorosa natura visionaria e multiforme, vissuta su una molteplicità di piani paralleli, spesso tra loro in conflitto.
Sospesa tra l’outing e la pura astrazione, tra il vivere e il teorizzare, l’autrice alimenta sé stessa e i suoi differenti ambienti interiori cercando appigli nel mondo letterario dei grandi (Irene Nemirowski è la sua dea, suprema musa ispiratrice nel viaggio tra i mille risvolti dell’animo femminile; Milan Kundera l’idolo letterario e il modello stilistico, colui che mescola filosofia e realtà nella sintesi magistrale del romanzo), e prendendo a prestito, di volta in volta (di pari passo con le sue avide letture) parole, aforismi, pensieri di mille autori di ogni estrazione (da Proust e Wilde a Gramellini, da Madre Teresa a Callimaco, Saffo, Menandro, da Andrea De Carlo alla Fallaci, tra note e versi di Capossela, Dalla, Battisti, De Gregori).
Un percorso accidentato, quasi inconsapevole, il suo. La scrittura di Concetta è un’instabile ma vibrante ricerca di punti fermi vincolanti e libertà pretese, di rassicuranti regole e superamenti inattesi, in una dimensione sospesa tra la realtà vera, concreta, del quotidiano, e l’immaginazione, la visionaria alterazione dei sogni ( “I sogni sono la mia più grande ricchezza” ).

La lettura dei Post di Concetta rivela, lentamente, passo dopo passo, una natura conflittuale, conforme solo a slanci di vita e bisogni di volo, come sia, sintomatici di una misteriosa essenza, e talvolta così intensi da arrivare a negarla.
L’insofferenza verso ogni forma di vita ingabbiata da regole porta all’elaborazione di vie di fuga, vere o soltanto immaginate, e vissute – questa è la particolarità dell’autrice – in dimensioni diverse. “La realtà non so quale sia: quella che vedo con gli occhiali, quella che vedo con le lenti a contatto o quella che intravedo con i miei soli occhi nudi? …Non lo so e non lo saprò mai..ma mi piace immaginare che ce ne siano tante, tante quante le dimensioni che riesco a sentire dentro di me”.
L’autrice è animata da una morbosa e urgente ricerca di felicità e di pienezza, una felicità ubriacante, così emotiva da richiedere un senso di libertà irrazionale, senza regole (“Voglia di volare, di urlare, di cantare la vita” ; “Sabato, travolgimi”; “Solo il coraggio può cambiarci la vita. “Siate affamati, siate folli” ; “Opporsi alle emozioni porta soltanto a farle permanere più a lungo dentro di noi”).
Questa felicità, allora, viene ricercata nel reale, ma anche altrove, in una dimensione senza tempo: il tempo, infatti, è un protagonista assoluto del Post-pensiero di Concetta Ingrosso (“Essere veloce è il mio segreto per vivere più a lungo lo spazio troppo breve di un giorno”).
Per sottrarsi alla tirannia del tempo, allora, un’ipotesi risolutiva può essere forse quella di proiettare sé stessi al di là, al di fuori del tempo, laddove il nostro io può vivere anche “negli occhi degli altri”, o in luoghi in cui la realtà può venire vissuta (o rivissuta) “con gli occhi della mente”.
La nostra espansione negli occhi degli altri, nel ricordo che gli altri serbano di noi, è una possibile vittoria sul limite, l’affermazione di noi stessi oltre la nostra attualità e fisicità. (“Bisognerebbe fermarsi almeno una volta a guardare la propria vita dalla finestra del vicino, osservarla di fronte, da un’altra prospettiva. Forse coglieremmo tutte le piccole, grandi felicità che ci sfuggono, capiremmo meglio il significato dei piccoli gesti di ogni giorno, l’animo di chi ci sta vicino, il senso della nostra stessa vita” ; “Mi piacerebbe qualche volta guardarmi con gli occhi degli altri e scoprire tutto quello che mi sfugge di me” ; “Esisto solo negli occhi di chi amo” ; “Il tempo ha gli occhi dei figli”).
La dimensione della notte, o quella della corsa (contro il tempo), divengono i luoghi descrittivi di queste dimensioni “altre”, alternative, parallele al reale, anche se “la realtà è sempre in agguato, come un cinico ragioniere che non abbandona mai il blocchetto delle fatture e se lo porta dietro anche in vacanza”.
La dimensione del ricordo è l’altro tema dirompente del pensiero dell’autrice. Il ricordo è un contenitore sconfinato, ove la realtà può essere amplificata e manipolata a dismisura, e nel quale si espande il nostro stesso io. “Spero che le persone che ho incontrato nella mia vita, quelle più importanti ma anche quelle che mi hanno conosciuto solo per pochi attimi, ogni tanto pensino a me”; “Sono una “creatrice ” di ricordi… A volte, mentre sto vivendo momenti indimenticabili, mi capita di sentirli già lontani nella memoria, come se li stessi rielaborando nella mente sotto forma di ricordi”).
La lettura dei post di Concetta, produce in certi momenti un’ebbrezza che punta al surreale, mescolando (anche drammaticamente) finzione e realtà, incontri reali e aspettative interiori, a volte solo immaginate, a volta realmente tradite. Si viaggia verso universi plurimi: mai s’intravede, infatti, con chiarezza, l’esatto luogo e la dimensione in cui collocare certe narrazioni.
Nel viaggio accidentato alla ricerca di emozioni, passioni e di tutto ciò che l’autrice percepisce come sublimazione di vita, il destino assurge a complice, o scade a comodo alibi (“mentre il destino sta tessendo le sue trame fantastiche, noi siamo intanto liberi dalla responsabilità di rendercene conto”), ma questo è solo un dettaglio: ciò che conta è riuscire ad amplificare la realtà, a sfidarne il limite, a traghettarla sino alla dimensione della favola.
Il singolare approccio di vita dell’autrice produce energie e conflitti, ricchezze e danni materiali, incomprensioni e diffidenze ( “Invidio ai programmi informatici il tasto “elimina lo step precedente” ; “Ci sono momenti in cui vorresti che comparisse da quache parte la targhetta luminosa con la scritta in rosso “uscita di sicurezza”). E’ difficile, del resto, far collimare dimensioni differenti, governate da regole opposte.
L’impaziente attesa di proiettarsi in contesti contrari alla realtà, che per superarla, finiscono col rinnegarla, è un’offesa alla realtà stessa e quindi il Tradimento, la Fedeltà, l’Appartenenza, la scissione tra Passione e Sentimento – o la contaminazione dell’una nell’altro, che orienta questi nitidi impulsi verso confini torbidi – costituiscono il banco di prova per le improbabili convivenze tra le dimensioni parallele dell’autrice. “Quanti cocci da ricomporre nella vita, siamo troppo maldestri, o forse distratti, o solo fragili”, “Quelle verità nascoste nelle tasche delle giacche, nei cassetti degli armadi, nelle memorie indelebili dei cellulari, negli angoli delle case, sugli sguardi bassi, nelle borse, sotto le scarpe, nelle parole”). 
Il rebus dell’Amore, allora, a fronte di una siffatta confusione di campi e di spazi, può essere sciolto solo dai grandi, i giganti, i pensatori inarrivabili a cui l’autrice ricorre: “Amami quando lo merito meno, perché sarà quando ne ho più bisogno – (Catullo)”.
Se quello delle Post-letterature è un esercizio di ricomposizione, un puzzle, il collage degli scritti di Concetta Ingrosso costituisce una straordinaria occasione per cimentarsi in questa nuova modalità di fruizione letteraria. La lettura unitaria dei post, anche se cronologica e non per temi, quindi confusa, consente di scorgere valori e contenuti ulteriori rispetto a quelli che si colgono, giorno per giorno, dalla loro percezione singola.
Gli effetti di questo lavoro possono risultare sorprendenti. Nel ricomporre i post, lentamente, affiorano le linee di un pensiero, il percorso vagante, s’intravedono le rotte, le deviazioni, gli arresti e i ritorni, e si coglie qualcosa di ben superiore alla sommatoria delle brevi quotidiane esternazioni. Si coglie, insomma, un po’ di anima, di carne viva, di materialità prorompente, di spiritualità e poesia, talvolta espressa anche mediante rapide immagini.
Siamo ormai orfani di quei tempi lunghi prima concessi da una vita lenta, che consentiva all’autore di immergersi tra le “sudate carte” ed estraniarsi per scrutare l’Infinito. E’ un esercizio, questo, ormai impedito dai frenetici ritmi della quotidianità, ove tutto grava su di noi, sulle nostre spalle, e ove il tempo è sempre più tiranno.
Per necessità, dunque, siamo costretti a superare il proposito di costruire la sintesi di un pensiero attraverso l’opera pianificata e completa, quella che si realizzava con il Libro, il Romanzo. Ma quella era Letteratura. Questa, invece, è la scrittura e lettura di oggi, il pasto frugale di cui disponiamo: un altro modo di nutrirsi, ma che a volte sa svelare (proprio come il romanzo) un filo conduttore e una trama avvincente.
Giuseppe Basile © Geophonìe
25.06.2014 Diritti riservati