
Marcello Nitti © Geophonìe. 10.10.1984, Corriere Del Giorno
Dicono bene i New Order che “i sogni non finiscono mai”; infatti non c’è niente di più azzeccato nel definire l’esordio dei “Prefab Sprout” un vero e proprio collage di sogni.
“Swoon” è il titolo dell’ultimo disco.
I fratelli Paddy e Martin McAloon insieme alla dolcissima voce di Wendy Smith formano il trio, e il loro nome, “Prefab Sprout”, così simpatico e buffo, ha più il sapore di uno di quei prodotti da cucina americani che non il nome di una band inglese, capace di una musica acustica, ricca di variazioni e deliziosamente notturna.
Dicevo che “Swoon” è il loro album, e oltre ai nostri tre amici c’è anche Graham Lant alla batteria che percorre tutti i brani con un tocco magico, caricandoli di swing, così presente ovunque. Le undici composizioni sono di una bellezza unica e a mio avviso ci troviamo di fronte ad uno dei migliori album del 1984: provate ad ascoltare “Couldn’t bear to be special”, così leggera e soave che ti sembra di essere a bordo di una nuvola ad osservare i tuoi amici rimasti a bocca aperta, e poi ancora “Cue fanfare” e “Here on the eerie” rifinite da chitarre acustiche e tastiere da sembrare amorevolmente un prodotto di alta oreficeria.
“Ghost town blues” invece ti porta in un bar fumoso pieno di gente con tanta voglia di raccontare ciò che non hanno mai fatto e quel pianista che danza sui tasti del suo strumento ci strizza l’occhio con un sorriso pieno di felice rassegnazione. Quello che fanno grandi i “Prefab Sprout” è la loro maniera di cantare, le loro melodie sono frastagliatissime, la loro voce di Wendy Smith si colora di tinte senza nome, e l’uso che ne viene fatto in “Don’t sing” e in “Elegance” ne è una prova convincente.
Paddy McAloon che è il masimo autore dei brani di “Swoon”, è anche la voce principale, molto originale e molto confidenziale, e l’esibizione “Technique” e in “I never play basketball now” dovrebbe convincere i più scettici. In finale le più belle composizioni dell’intera raccolta, “Cruel” e “Green Isaac I “ e “II”, dove sono fuse tutte le qualità dei “Prefab Sprout”, la giusta dolcezza che accarezza una nuda spalla femminile addormentata di fronte alle stelle chiacchierone.
Marcello Nitti © Geophonìe
10.10.1984, Corriere Del Giorno
Stasera The Sound. Ecco il loro ultimo ellepì.
“Heads And Hearts” dovrebbe essere il disco della definitiva affermazione del gruppo inglese. Borland & soci stanno insieme da quattro anni e nonostante siano riusciti a destare l’interesse della critica e degli addetti ai lavori non hanno ancora conquistato il consenso popolare che è in definitiva la molla per fare di più col futuro lavoro.
Non è la prima volta che un gruppo inglese non riesce a vendere dischi nella propria terra: vale per tutti l’esempio dei Genesis, che all’inizio della loro carriera venivano ignorati anche dalla critica inglese mentre avevano conquistato la fiducia di quella italiana e di quella continentale e soprattutto vendevano dischi con facilità.
La tournèe che The Sound stanno tenendo in questi giorni in Italia potrebbe far scattare quel meccanismo sufficiente a far entrare nelle classifiche l’album “Heads And Hearts”, il primo vero a lunga durata dopo “Jepoardy” dell’80,”From The Lions’ Mouth” dell’anno dopo, “All Fall Down” dell’82 e “Shock Of Daylight”, il primo inciso per la Statik del gruppo Virgin.
“Heads And Hearts” comprende undici brani, tutti con idee abbastanza originali e con il rock a comune denominatore. L’iniziale “Whirlpool” è in un certo senso il biglietto da visita dell’album con un ritmo trascinante basato su una frase ritmica che rimane ben impressa (si badi bene che però sfiora soltanto l’orecchiabilità); la successiva “Total recall” è invece costituita su un efficace giro di basso con chitarra acustica e tastiere che completano l’atmosfera su cui si erge la voce solista di Adrian Borland. “Under You” iniziò con un fraseggio fra il basso di Graham Bailey e la batteria di Mike Dudley in cui si inserisce anche la chitarra e ad un certo punto appare il sax dell’ospite Jan Nelson; forse un tantino anonima è “Burning part of me” pervasa dalle tastiere di Colvin Mayers e sottolineata in maniera egregia dalla voce di Borland. La facciata si chiude con “Love is not a ghost” che più di tutte le altre si avvicina al repertorio dei leggendari Doors di Jim Morrison per la sua staticità esecutiva.
Gira il disco e “Wildest dreams” si snoda su un tessuto ritmico eccezionale con la chitarra di Borland ad avventurarsi in un assolo per poi intgrarsi con il resto della strumentazione. E’ la volta di “One Thousand Reasons” che dopo un inizio decadente si snoda in un incedere epico. Davvero stimolante è “Restless Time”, uno degli episodi più effervescenti della facciata con un ritmo sostenuto fino alla fine. Più pacato è invece “Mining For Heart” che riesce a creare un’ atmosfera ostinata (in bella evidenza il basso e il tessuto delle tastiere). “World As It Is” colpisce per il nervoso incedere rock e nella sua relativa brevità ha un sapiente punto di forza; chiude questa seconda facciata “Temperature Drop” che nel nuovo rock proposto dai quttro Sound è forse il compendio più geniale.
Dopo l’ascolto di questo disco l’attesa per il concerto tarantino del Tursport è davvero notevole e sicuramente non rimarranno delusi quanti si aspettano da questo gruppo quegli stimoli sufficienti per continuare a sperare in un microcosmo musicale più creativo
Franco Gigante
18.05.1985, Corriere Del Giorno
Tempo pugliese per Psychedelic Furs
Anche i Psychedelic Furs sono approdati in terra pugliese, effettuando un impeccabile concerto nel campo comunale di Triggiano (Bari).
Il gruppo dei fratelli Butler era atteso con impazienza visto il constante aumento degli affezionati del gruppo e delle critiche quasi sempre positive che la stampa mondiale ha sempre loro riservato.
Lo spettacolo è stato un compendio della loro carriera, da “Low My Way”, tratto dall’album “Forever Now” passando a “Pretty in Pink”, “Sister Europe”, “President Gas”, “Heaven”, “Imitation of Christ” e concludendo con “Into you like a Train” e “India”. In sintesi hanno eseguito sedici brani comprendendo “Angels”, un inedito, e raccogliendo consensi da parte del pubblico presente. Richard Butler era accompagnato dal fratello Tim al basso da John Ashton alla chitarra e da altri quattro amici che suonavano rispettivamente le tastiere, la batteria, la seconda chitarra e i fiati.
Un concerto di buona musica rock, dove l’attenzioe era tutta rivolta verso Richard che con la sua roca voce ha dato un timbro inconfondibile al sound dei Psychedelic Furs.
Questo tour italiano ha permesso ai P.F. di promuovere il loro ultimo album “Mirror Moves” che esce a quasi due anni di distanza dall’eccellente “Forever Now” e di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. Dopo un attento ascolto di “Mirror Moves”, almeno due brani colpiscono per immediatezza e calore, mi riferisco a “The ghost in you” e ad “Heaven”, brani tipici dei fratelli Butler, che oramai hanno raggiunto un alto livello compositivo.
Proseguendo c’è “My Time” che racchiude atmosfere eteree, dominate da un ingresso e un tappeto di tastiere, poi ancora la dura “Heartbeat”, pubblicata in versione “extended” e che ha fatto il giro delle discoteche, forse il brano meno tipico del gruppo. Con “Alice’s House”, “Like A Stranger” e “High Wire Days”, Richard Butler canta con rauca passione e ci rimanda a quei giorni che hanno preceduto dei momenti di crisi, quei giorni che sono venuti come una fune messa lì per aiutarti a salire su per la collina ad abbracciare il sole …
Marcello Nitti © Geophonìe

Questa volta si parla di sue singoli a confronto, sempre nella versione E.P., e precisamente dei nuovi brani di Matt Johnson (alias The The), e di Paul Weller (ex Jam) e Mick Talbot come “The Style Council”. C’è subito da dire che “This is the day” di The The e “Long Hot Summer” dei Style Council sono forse i prototipi della musica del prossimo anno.
Matt Johnson lo conosciamo bene per aver precedentemente pubblicato “Uncertain Smile” e “Perfect”, dove i suoi brani con quella melodia frastagliata e accattivante hanno subito creato uno stile inconfrontabile. Nel suo nuovo singolo “This Is The Day” Matt Johnson ci propone una pop-song dal sapore dolce e romantico. Lunghe passeggiate e momenti di riflessione: sono i ricordi che affiorano all’ascolto, e la canzone scivola via. L’incedere ovattato della batteria rende ancora più gradevole e luminoso il sound.
D’altra parte, Paul Weller e Mick Talbot hanno confezionato un E.P. (“Long Hot Summer”) che arriva diritto al cuore, bisognerebbe farlo ascoltare al tavolo “russo-americano” di Ginevra per il disarmo nucleare, sarebbe senza dubbio molto convincente. Atmosfere di pace e di benessere, i pori della pelle si aprono, sembra veramente l’estate più calda, siamo tutti innamorati.
In verità è successo tutto molto presto Paul, non credevamo che con i “Style Council” avresti sbalordito come già con i tuoi Jam (ricordi?). Adesso da te pretendiamo tutto, tu ci hai sempre viziati con il tuo buong gusto, e buona parte dei prossimi mutamenti musicali ti vedranno protagonista.
A mio parere con “Long Hot Summer” ci hai regalato qualcosa di più di una canzone.
Marcello Nitti © Geophonìe
Corriere del Giorno