Con “Niente paura Joshua”, realizzato con Geophonìe, la street-band modenese giunge al suo battesimo discografico e introduce la Contemporary Christian Music nel panorama musicale italiano.
Hanno scelto l’Associazione Culturale Geophonìe per autoprodursi, e dopo diversi mesi di artigianale passione domestica, “passione” autentica, intesa come “fatica e tormento”, hanno dato alla luce il proprio primo disco. Nello studio di una casa discografica sarebbe stato tutto più semplice, col conforto e l’ausilio di tecnici del suono specializzati, consulenti e interpreti. Ma i Rockspel sono una street-band che non bazzica i circuiti ortodossi, suonano se e quando hanno qualcosa da dire e da trasmettere, senza contratti, impegni e condizioni. Fedeli a questo approccio, anche l’urgenza del disco, della sua realizzazione e pubblicazione, è stata vissuta con un impegno tutto proprio, assecondando gli slanci e i tempi nei quali certi impulsi emergono, chiusi tra quattro mura quando si può, col sole o le nebbie fuori dalle finestre, dopo il lavoro, la sera, o a prima mattina. Fare tutto da soli è un limite, ma è anche un’opportunità, un’avventura. Per certi versi è una crescita. La produzione, quella vera, costruisce immense sovrastrutture a supporto dei musicisti, li sostiene, talvolta li “sorregge”, nel senso che crea dei valori aggiunti attorno al prodotto, gonfiandolo, arricchendolo, portandolo al di là delle oneste intenzioni e delle reali capacità degli artisti. Così operando, le sorprese possono essere clamorose, ma la sostanza reale di un prodotto o di un autore la si riscontra poi dal vivo, dove non si può bleffare.
Il disco dei Rockspel non avrà certo quei valori aggiunti apportati da illuminati tecnici e arrangiatori o consulenti del suono, ma per questo ha il pregio di fotografare la band per ciò che è realmente, senza finzioni, camuffamenti e forzature. Un disco onesto e vero, un’istantanea della band ad oggi.
Il lavoro si inquadra perfettamente nella concezione artistica della Contemporary Christian Music, in cui si pensa ai contenuti, e in cui la sonorità prescelta per rappresentarli ed esprimerli è solo un vestito, un abito da indossare senza troppe pretese.
I lavori di Rebecca Saint James, degli Switchfoot, di Jeremy Camp, di Michael Sweet, girano intorno ai testi e si avvalgono di atmosfere di volta in volta pop, country, rockblues tradizionale, eccetera. Ascoltando i loro dischi ci si imbatte in sonorità già sentite, in schemi musicali già noti. Un ascolto limitato alla parte sonora, che non colga la fusione dei suoni con quei testi, rischia di produrre un giudizio riduttivo e quindi incompleto di questi lavori. Se però si decide di fare uno sforzo in più, e si prova a recepire il messaggio complessivo anche attraverso i testi, ci si accorge che l’espressione musicale nel suo complesso non è affatto scontata, come forse ad un primo superficiale approccio potrebbe apparire.
Ebbene, il disco dei ROCKSPEL merita di essere compreso proprio con un siffatto approccio. E’ un disco di traditionals, totalmente rielaborati in un rock dalle sonorità ben conosciute. Se si saltasse il passaggio della lettura dei testi (elegantemente riportati nel booklet interno, in lingua originale inglese e nella contestuale tradizione italiana) si andrebbe sicuramente fuori strada nell’opera di comprensione del lavoro. Se invece a questa lettura ci si presta, le stesse sonorità ne guadagnano, sino a risultare persino inedite, perché armoniche, e in originale sintonia con questi testi. Si tratta di nove brani con cui i ROCKSPEL esternano la propria attrazione per lo Spirito che animava il popolo degli schiavi afroamericani.
“La scelta del repertorio non è stata dettata dalla passione del gospel in quanto genere musicale in sé”, si legge nelle note di copertina. Ciò che la band vuole rievocare è quella spiritualità che teneva unito quel popolo. “Gli schiavi leggevano la storia del popolo ebraico raccontata nel Vecchio Testamento, come un’anticipazione del destino del popolo africano in esilio”.
Il Gospel e gli Spirituals, dunque, erano un mero veicolo, per realizzare quella unità. Come lo è oggi il rock per questa band, che tra i suoni Fender elettrici di Emilio Pardo e Valerio Corvino, e quelli acustici di Alberto Berna, ti parla di Mosè ( “Go Down Moses” ), della guerra per la conquista di Gerico ( “Joshua fit The Battle Of Jericho” ), e della “terra promessa”, ma agli schiavi afroamericani, e poi loro negata ( “Nobody Knows The Trouble I’ve Seen” ).
L’esordio dei ROCKSPEL è di sicuro impatto culturale. Un’operazione di valorizzazione e recupero di brani noti e meno noti, ma di cui pressochè sempre si è ignorato il vero contenuto e la profonda sostanza storica. Come “Oh Happy Day”, o come “Oh When The Saints Go Marchin’ in”, rimbalzati per decenni tra spot pubblicitari, documentazioni televisive d’epoca e rielaborazioni di ogni genere. Sono brani che i ROCKSPEL ripropongono, ma offrendoci anche ‘pillole’ di storia inedite e nuove visioni sonore.
Di sicuro impatto anche l’interpretazione di Grazia, lead singer della band intorno a cui si stringe il gruppo per valorizzare il suo particolare timbro vocale. “Since I Laid My Burden Down”, da lei cantata con modalità differenti rispetto agli altri brani del disco, conduce il gruppo su itinerari sonoro-mentali non-rock, ma di pura atmosfera, tra un dream-pop à la Cocteau Twins e atmosfere astrattamente trip, lente, anni ’90, a dimostrazione di una versatilità senz’altro apprezzabile.
“Niente Paura Joshua”, dunque, opera prima dei ROCKSPEL su disco, può consegnarsi al mercato come prodotto assolutamente gradevole, godibile, di buon gusto, equilibrato anche negli stimoli culturali che infonde, in modo discreto, a piccole dosi.
giuseppe basile © geophonìe
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