Occorreva sicuramente una scossa di autentico rock elettrico sul palco modenese del Music Village, contenitore orientato verso una programmazione cantautorale dai toni pacati e che sinora era apparso più indicato per le performance di artisti votati a una ricerca di linguaggi intimisti e sofisticati. Nel programma di questa stagione, infatti, si sono avvicendati Nick Cave e Tori Amos, Elvis Costello e De Gregori: per i cultori duri e puri del rock, insomma, pareva un cartellone di minore interesse rispetto alle tante altre programmazioni in corso e ai contestuali festival tematici che prosperano un po’ ovunque nel periodo estivo.
Il Music Village, pregevole contenitore di eventi (espressione del Pavarotti International) e dotato di una ottima struttura, nell’anno passato era stato oggetto di critiche per il proprio programma, ritenuto un po’ troppo glamour e generalista: caratteristica, questa, confermata anche quest’anno, ma che risponde alle esigenze di un pubblico ormai sempre più eterogeneo rimasto in città, e in cerca di un’offerta artistica variegata.
Tra i musical (Grease, La Febbre del Sabato Sera) e i divi italiani (Laura Pausini, Elisa), tra il varietà (Fiorello), le serate dance e il teatro cabaret (Littizzetto, Riondino), Patti Smith è stata l’artista destinata a tenere alta la bandiera del rock, posizionandosi tra gli esperimenti sonori evoluti di Elvis Costello e le oscurità di Nick Cave, suoi colleghi di area rock che prima e dopo di lei si sono avvicendati sullo stesso palco.
La performance di Patti ha visto un’entrata intellettuale, di fronte a un pubblico ordinatamente seduto e attento. La Smith ha esordito con brani lenti e profondi, tipici del suo personalissimo stile cantautorale (“Beneath The Southern Cross” , “Wing”, tratti dallo splendido “Gone Again” del 1996), ma al quarto brano ha cambiato improvvisamente marcia e invitando il pubblico ad alzarsi ha scatenato il suo rock viscerale con “Free Money”, tratto dal mitico “Horses” del 1976. E’ stato il tripudio immediato. La serata ha trovato la sua irreversibile svolta e nessuno ha più avuto la forza di sedersi.
Il crescendo – artistico ed emotivo – è stato assicurato dall’incalzante serie di brani sfoderati da Patti, dalla cover di “Like A Rolling Stone” di Bob Dylan (che lei ha ringraziato, urlando “Thank You, Bob!”), e dalla successiva cover di “Not Fade Away“ dei Rolling, intervallate dal reggae rock di “Redondo Beach” e seguite dalla sequela di hits storici dell’artista, sino alle immancabili “Gloria”, “Because The Night”, Horses”, “Dancing Barefoot”.
Patti Smith ha pescato da tutti i suoi lavori, ha eseguito “Ain’t It Strange” tratta da “Radio Ethiopia”, “25th Floor” da “Easter”, scatenando il rock più genuino e trascinante che possa esistere, per la gioia collettiva del pubblico. La potenza sonora, comunque, veniva sapientemente intervallata dalle sue ballate poetiche, dalle “Peaceable Kingdom” ed altre composizioni presenti nel suo ultimo lavoro del 2004, “ Trampin’ “, che presentò in Emilia nella passata tournee dell’autunno scorso, con concerti di sublime bellezza al Fillmore Club di Cortemaggiore (Piacenza) e a Bologna.
Nel corso dello spettacolo, poi, Patti ha recitato una poesia che ha dedicato a Giovanni Paolo II e ha cercato di comunicare, sempre in quel suo modo così vibrante e personale, con il pubblico, incitandolo a gridare: “Mai più guerra!”, in coro, con forza, come un inno e non solo come speranza o gesto propiziatorio. E’ una forma di comunicazione, quella di Patti Smith, che nelle mani di qualsiasi altro artista risulterebbe retorica, ipocrita, nostalgica o vagamente utopistica. Ma quando sul palco c’è lei a mettere in scena questo ballo furioso per urlare la voglia di pace e giustizia, la sua onestà e fede è talmente forte e convinta che lo stesso pubblico, anche quello che magari non condivide pienamente l’ideologia dell’artista, si sente piccolo di fronte alle sue convinzioni e ha quasi voglia di inchinarsi innanzi a cotanta veemenza.
Il ballo con la bandiera della pace in testa, diventato quasi un rito nelle sue numerose performance, è qualcosa che lei rappresenta senza alcuna autoironia, è disposta quasi a inscenare una parodia di se stessa pur di arrivare oltre il cuore della gente, e cioè al cervello. E’ un messaggio semplice, in fondo, ma di una tale intensità che è come un’onda d’urto che si riversa su un pubblico ormai imborghesito da venti o trent’anni, e che solo di fronte alla potenza poetica di Patti riesce a farsi accarezzare, ancora una volta, dalla magia comunicativa del rock. L’interpretazione di Patti è magistrale, sempre di petto, mai un falsetto o un cedimento. Rigorosa, quasi severa, dal palco lancia i suoi anatemi contro i mali del mondo, cercando al tempo stesso di portare per mano il suo pubblico verso il terreno fatato della bellezza, della poesia e dei sentimenti. Un concerto di Patti Smith è un’emozione interiore, un brivido che attraversa la nostra anima, come non accade quasi più.
Da non perdere.
Fantastici anche i suoi musicisti di sempre, Lenny Kaye (chitarra), Tony Shananah (basso), Jay Dee Daugherty (batteria). Fantastico anche Tom Verlaine dei Television, che l’ha accompagnata sul palco di Modena e che pochi giorni dopo (il 20 luglio 2005) abbiamo potuto rivedere, proprio con i Television, in un’unica e assolutamente inattesa data italiana ad Alberobello (Bari), fra i trulli (serata durante la quale i Television hanno riproposto i propri classici tratti dal mitico “Marquee Moon” e hanno anch’essi omaggiato Bob Dylan con una loro versione – un po’ incolore, in verità – di “Knockin’ on The Heaven’s Door”.
Giuseppe Basile © Geophonìe