Di Mario Desiati
C’era una volta, un ragazzo. Jack era il suo nome; un nome come tanti penserete. Ma lui non era come tanti, o no. Era diverso da chiunque conoscesse, forse addirittura da chiunque altro abitasse sulla Terra. Perché mai direte voi: forse per via del carattere, o del fisico. E poi come fa una persona a essere radicalmente diversa? Lo è nell’anima: in questo caso nelle anime. Perché in Jack vivevano due anime, due lati completamente distinti…
In questo incipit del primo racconto che apre la sezione centrale della raccolta che state per leggere, ho provato a sostituire il nome Jack con quello di Carlo e ho forse capito solo allora quanto vario e potente fosse questo libro. Quante anime contenesse il volume e anche il suo autore.
Un pomeriggio d’estate entrò nella mia vita la scrittura di Carlo Amico. Fui contattato dalla madre Mariella che in una gentile e asciutta mail mi donava l’onore di leggere gli inediti del figlio scomparso lo scorso novembre.
Nelle righe che seguono ho provato a ripercorrere alcuni punti salienti della produzione letteraria di Carlo Amico. Per farlo mi sono lasciato guidare dall’emozione, soprattutto nella parte filosofica dove non ho le necessarie competenze per poter esprimere un adeguato parere sul valore degli scritti, posso però con certezza condividere con chi si incamminerà nelle pagine che seguono, delle piccole illuminazioni che ci fanno arrivare quanto a meno a sfiorare alcune delle mille anime del suo autore.
Quanto alla poesia e al racconto, leggendo il file degli scritti ho scoperto la voce di uno scrittore vero, e se dovessi inserirlo in uno schema direi che si tratta di quella linea letteraria pugliese che da trent’anni ahimè caratterizza alcune delle nostre voci più potenti. Quella che chiamo “I sentieri interrotti”: comincia da Stefano Coppola, passando per Salvatore Toma, Antonio Verri, Claudia Ruggieri e arriva a comprendere oggi anche la voce di Carlo Amico. Autori che non hanno avuto modo di esprimersi nelle loro massime potenzialità, ma che nella loro giovinezza prima di essere colti dalla morte prematura hanno mostrato un sintomo di grandezza.
Grazie alla scrittura i poeti continuano a vivere anche quando non ci sono più. È una delle regole auree, una massima che aleggia dentro l’uomo che spesso nei maggiori momenti di conflitto e attrito affida al simbolo il segno di un messaggio…
Se dovessi giocare con un luogo comune che indica i poeti con l’anima candida dei bambini e i filosofi con l’anima temprata dei vecchi, affiderei a Carlo Amico il riassunto di questa massima. Carlo Amico è andato via a vent’anni, ma aveva nel cuore due spiriti, l’innocenza di un bambino “che chiede cos’è la guerra” e la saggezza di un anziano barbuto che ascolta i suoi simili nell’agorà.
Esemplare nel senso di tale dualismo i versi che seguono: i bambini la sanno più lunga,/sanno che Babbo Natale non si vede/perché non c’è, o almeno lo sapranno./E poi che furbizia è mai questa?!/Se si vive di menzogne, vanno credute vere!/Son d’accordo con voi: si vive meglio/con l’aiuto di sogni e fantasie,/salvano dalla pazzia della ragione./Ma non è peggiore la malattia/di chi è sveglio e procede nel buio/per fingere la notte?
Gli scritti di Carlo Amico si articolano in due parti che rappresentano la personalità intellettuale dell’autore che andava facendosi. Il poeta-narratore e il saggista. Nella parte poetica si mostra la voce più malinconica, echi romantici e un lirismo che si mischia con una tensione narrativa come parte della poesia dei trentenni di oggi quali Massimo Fantuzzi, Gilda Policastro o certe prove di Marco Giovenale.
Estendo qui di seguito una poesia piuttosto significativa per dimostrare il lavoro di Carlo Amico orientato a dare nella poesia più narrazione possibile.
Per coloro che aspettano nella pioggia,
la propria ragazza venire;
per le donne che sopportano ogni cosa,
solo per essere chiamate “mamma”;
per il bambino che guarda lo schermo
e chiede: «cos’è la guerra?»
per due amici che litigano in macchina,
che sanno quanto poco durerà la tempesta;
per colei che sogna e piange,
aggrappata a poche strofe;
per colui che, parlando al suo cuore,
contro la moda, legge e scrive d’amore;
per tutti questi è il mondo, la vita
per chi durante il temporale vede solo le stelle
giocare a nascondino.
Il processo metrico di questi è oscillante, c’è una scelta precisa, Amico alterna dodecasillabi a ottonari, tranne alla fine quando la sua tensione narrativa diviene evidente. Ho scelto questa poesia perché oltre a compiere apertamente alcune sperimentazioni stilistiche, l’anafora “per”, le allitterazioni, una messe di doppie t che rende la lettura ad alta voce volutamente dura, dalla musicalità aspra.
Eppure Amico ha una vena lirica e dolce che nei frammenti narrativi presenti in questa raccolta viene fuori in modo limpido.
C’è un pezzo che fa tremare il cuore ed è tratto dal racconto “Ultimo viaggio”.
Le ore trascorrono lente e tranquille, camminando in mezzo alla natura. Gli alberi larghi e frondosi, le piante e i fiori odorosi di una nuova primavera e persino il ronzio laborioso degli insetti accolgono il forestiero nel loro regno. Jean si inoltrava in questa festa di colori e rumori soffusi, aspirando a farne parte. «È come toccare la libertà, ne sento persino il profumo: qui non esistono leggi, né follia: esiste solo il rispetto, un sottile gioco di vita e di morte che sopprime qualcuno, è vero, ma permette la felicità di tutti. Una società inconsapevole, viva senza bisogno di sapere perché». Benché non fossero altro che pensieri, Jean ebbe l’impressione che le sue parole avessero pervaso ogni resina, ogni foglia bagnata dalla rugiada, ogni filo d’erba asciugato dal sole, colpendone il cuore più intimo. Era il paradiso, ma anche questo ha le sue regole: il sentiero si fece sempre più angusto e impraticabile, obbligando Jean a usare tutte le sue forze e una certa parte di violenza per poter proseguire. A mezzodì, sbucò in una valle rigogliosa attraversata da un fiume, le cui acque sembravano aver strappato il colore agli zaffiri più puri. Poche decine di case in pietra viva risaltavano fra la natura lussureggiante: per quanto piccola, la presenza umana disturbava l’armonia.
Jean potrebbe essere uno degli alter ego dell’autore. Il protagonista del racconto ha trascorso una vita in serrato dialogo con padre Alfred, un sacerdote che ha un rapporto tormentato con la teologia e la pedagogia, ma ne espone i principi. In lui cerca, ma non trova il padre spirituale che lo possa guidare ad alcuni segreti della vita. La filosofia gli spalanca dei mondi nuovi (e sulla parola mondi nella partitura di Amico ci tornerò avanti). Il suo compagno di avventure e speculazioni è Massimo e a lui confida la necessità di un viaggio; bellissima la risposta di Massimo alla raccomandazione di Jean di non mettersi nei pasticci. “E tu invece vedi di cacciarti nei guai.”
I guai.
Perché il posto di Jean è nel vortice della vita, al centro troverà quella foresta che nasconde la valle rigogliosa attraversata da un fiume le cui acque hanno il colore degli zaffiri. La pace e le serenità dell’acqua, la terra, la natura è il sentimento della grazia che mette ordine alla potenza del fuoco solare che ha guidato il cammino di Jean nell’intricata foresta fatta dalle sue parole.
“Stare al mondo” è una delle ossessioni di Amico ed è in questo racconto che si nasconde una chiave segreta per poterlo spiare da uno spiraglio, più avanti infatti scrive ne “Il libro chiuso”: la filosofia, e la cultura umanistica nel suo insieme, ha il compito di educare la società proponendole strade sempre coerenti e sempre nuove per permetterle il suo ultimo scopo: sentirsi a casa nel mondo.
E il mondo di Amico era continuamente innamorarsi delle cose più semplici, a cominciare dai valori che ne facevano un uomo impegnato nella società civile, lui candidamente ammette: Per coloro che aspettano nella pioggia,/ la propria ragazza venire;/ per le donne che sopportano ogni cosa,/ solo per essere chiamate “mamma”;/ per il bambino che/ guarda lo schermo/ e chiede: «cos’è la guerra?»… ho immaginato Carlo quel bambino che guarda lo schermo e chiede cos’è la guerra, e che col tempo ha tenuto quell’atteggiamento autentico e schietto, come quello che hanno i bambini.
In questo tempo di alluminio e falsità,/marciamo come bambini,/aggrappati a colonne, fredde – scrive l’autore, in una poesia senza titolo che inizia con proprio questi versi. Ecco un frammento dell’anima pura dietro i testi raccolti in questo libro, l’anima pura è quella dei ragazzini che vedono nelle cose sempre un mondo ulteriore, che sanno dare peso al simbolo, ma soprattutto che hanno le pagine bianche dell’innocenza.
L’innocenza è la virtù della poesia, guardare le cose con l’energia dell’infanzia, con la visionarietà che si ha da bambini, dare alle cose che appaiono un tratto simbolico, andare oltre l’apparenza. Un vero poeta è un bambino dentro, ma anche un vecchio signore che sa come mantenere il contegno, non scomporsi e vivere l’inferno dentro come al termine della poesia “Epitaffio per un filosofo” scrive: Voi che avete da vivere,/ ascoltate il consiglio di un vecchio:/ vivete e godete, amate il prossimo e il mondo,/e avrete fra le mani la profonda ragione dell’Essere.
Nella parte più romantica, Amico diviene nostalgico, a volte brillante e sentenzioso come in questo verso secco che si apre all’ipotesi di un amore che ha a sempre a che vedere con la propria più intima eccezionalità: ti amo, perché sei ciò che non sono…
Questo verso mi ha commosso e credo commuova chiunque perché parla di un suo amore e universalmente dei nostri amori. Non c’è dubbio che qui centri l’insegnamento platonico, nessuno capirà cos’è la filosofia se non parte dall’amore.
Ma l’amore che presuppone quel verso, è un amore non identitario, è l’amore. Ciò che è diverso è uno scambio e una crescita. È un’idea che si avvicina ad alcune teorie lacaniane come quelle di Badiou che contesta la logica dell’identità, l’amore è minacciato per definizione, poiché si mettono in questione la sua inclinazione per la differenza, la sua dimensione asociale, il suo lato indomito, persino violento. La ricerca di un amante simile a noi. E ribaltando al contrario il verso di Carlo Amico, innamorarsi dell’altro in quanto simile a noi. Tralasciando la deriva narcisista di un simile comportamento, si tratterebbe di un amore arido, senza prospetto. E invece Amico è in un solco opposto, come quello di Badiou che nell’Elogio dell’Amore scrive: “E si farà propaganda a favore di un “amore” in tutta sicurezza, perfettamente in linea con le altre pratiche secu-ritarie. Di conseguenza, difendere l’amore in ciò che ha di trasgressivo ed eterogeneo rispetto alla legge è un compito molto attuale. Nell’amore, come minimo, ci si affida alla differenza anziché sospettarne. La reazione, infatti, impone sempre di diffidare della differenza a favore dell’identità: è la sua massima generale. Se invece vogliamo aprirci alla differenza e a ciò che essa implica, ovvero a che il collettivo sia capace di estendersi al mondo intero, una delle esperienze individuali praticabili è la difesa dell’amore: al culto identita-rio della ripetizione è necessario contrapporre l’amore per ciò che è diverso, unico, per ciò che non ripete nulla, che è erratico e straniero. Nel 1982 scrivevo in Théorie du sujet: «Amate ciò che non vedrete mai due volte».”
Nel libro di Amico aleggia l’inquietudine, a volte il pessimismo e la rabbia, ma una rabbia pericolosa solo per se stessi che non farà mai male a nessuno. Per esempio quando nel libro sembra raccogliere in una strofa la tragica profezia che vuole avverarsi, ma viene fatto con una semplice e sottile evocazione, senza esplicitare il male di vivere: È ora di andare, lo dico da tempo./Imbocco nuove strade,/incontro anime sempre diverse,/sullo sfondo paesaggi mai visti.
Sulla parte filosofica e marziale del libro andrebbe detto che si manifesta un pensiero filosofico che a una prima definizione potrebbe evocare il pensiero di Carlo Michelstaedter e per le stesse ragioni, con eguale rovello, si libera il potenziale di tragicità dell’esistenza, attraverso violente contrapposizioni concettuali (nell’unica opera di Michelstaedter era sin dal titolo questo dualismo: “persuasione-rettorica.”)
In uno dei suoi microsaggi Amico scrive: un incontro tra due personalità è sempre uno “scontro”, nel senso che non possono mai comunicare direttamente, ma attraverso dei filtri quali il linguaggio verbale e non verbale, i quali a loro volta contengono schemi concettuali e ideologici che fungono anche loro da “lenti” per la comunicazione. Per quanto tutto ciò possa apparire scontato, le conseguenze logiche non lo sono affatto.
All’interno della parte filosofica del libro si trovano riflessioni e ragionamenti che vista la giovane età del suo autore , sono ancora in fieri, scrive lui stesso a proposito: Queste pagine racchiudono ragionamenti, non lezioni. Centinaia di avvenimenti, esperienze, incontri e scontri mi hanno portato, oltre che qualche notte insonne, anche riflessioni e pensieri sul mondo, sulle persone, semplicemente su ciò che di volta in volta mi capitava. Pensieri che ora, con fatica, trascrivo…
Eppure ci sono tracce importanti di originalità come la riflessione sulla libertà di pensiero e la libertà d’azione. Carlo Amico parte dal presupposto che la libertà d’azione non potrà mai essere assoluta, proprio perché recintata da ostacoli fisici, “non è possibile compiere 2000 chilometri a piedi in 20 minuti”, scrive. Ma anche la libertà di pensiero ha i suoi confini ed è condizionata dalla memoria, le reazioni ai fenomeni della vita e le sue scoperte.
Carlo Amico è un solco infuocato nel cuore della sua generazione, nelle sue parole c’è disagio e profondità, conflitto e poesia, ma anche una speranza insondabile nei confronti della bellezza e della scrittura che arde come lui racconta in questi bellissimi versi:
Ancora brucio, brucio,
come un incendio nella notte più buia;
vado a fuoco, mi convinco che non è così.
Ma non è fumo,
è il profumo più dolce, dimentico tutto;
non sono più, non amo, non soffro.
Non so. È un attimo.