Sarà pur vero che tra i modelli della nuova società globalizzata non ci sono più le rockstar. Che la loro perdita di carisma e capacità comunicativa ha sdoganato ogni sorta di espressione sonora (sino ad annullarle tutte).
Che il pubblico, assuefatto alla promiscuità – anche qualitativa – si è abituato a ciondolare con indifferenza da un evento all’altro senza più dare troppo peso ai differenti valori artistici in campo: ma quando accade di imbattersi, anche per puro caso, in uno spettacolo come quello che David Byrne ha messo in scena sul palco del Teatro Pavarotti di Modena, è inevitabile rinsavire dall’ubriacatura consumistica di offerta musicale che ha saziato ogni nostra curiosità e reso i nostri neuroni resistenti a quasi ogni tipo di sollecitazione (quasi).
Girovaghiamo da anni senza meta, tra un concerto di Caparezza e uno di Ivan Segreto, tra una sperimentazione etnica e world e qualche stereotipata esibizione hip hop, tra i reduci del vecchio rock progressive (ormai li ritrovi ogni sera, ovunque) e i solitari e sconosciuti artefici del nuovo, una schiera di nuove promesse in perenne promozione e che non saranno mai promosse finchè si limiteranno alla sola ricerca “autistica” di belle sonorità, senza null’altro da dire. Sembriamo anime in pena, ma continuiamo a girovagare, un po’ per abitudine (andare a vedere concerti fa parte del nostro stile di vita e non sappiamo rinunciarvi, anche ora che non ce ne frega granchè di ciò che andiamo a vedere), un po’ per diletto (tutto sommato non si è ancora totalmente sopita la segreta speranza di vivere un’altra serata-mito, come quelle che si viveva da ragazzi, quando l’acquisto del biglietto tre mesi prima, e l’attesa fuori dai cancelli sei ore prima, erano riti preparatori per coltivare la nostra “identità”).
Questo girovagare, insomma, per fortuna ci spinge ancora a curiosare. Cosa farà mai oggi il nostro vecchio David Byrne? Il leader carismatico dei nostri anni ’80 evoluti? Andarlo a vedere vent’anni fa sarebbe stata per noi un’azione doverosa, una chiamata alle armi, un atto di presenza di quelli da tramandare ai posteri per poter dir loro il fatidico “c’ero anch’io”. Oggi si va con uno spirito diverso, non una ragione di vita ma un impulso, che tuttavia sentiamo ancora di dover assecondare. A qualcuno, vista l’occasione, viene voglia di rispolverare qualche feticcio anni ’80, qualche spilletta punk-new wave da applicare sulla giacca per arricchire il proprio stile casual ragionato. Pizzetti intellettuali, basette stilizzate e geometriche, occhiali neri di osso in perfetto stile “Devo”. Ma sono le donne in sala quelle che in realtà esprimono meglio questa tensione stilistica-revival ai favolosi ’80: una signora ostenta un magnifico binomio chiodo-anfibi, in perfetta sintonia col jeans (di alta moda) e con una camicina di seta, strass e merletti nera (di alta boutique). Messa in piega vaporosa da cento euro fresca di giornata, con colpi di sole e tonalizzanti. Eccoli, gli anni 80. Il casual edonista, il finto casual. Strepitosa.
Il pubblico è rigorosamente over 35 (siamo buoni: forse, over 40), un campionario micidiale di facce anni 80, di visi e atteggiamenti borghesi innamorati dell’evoluzione, di riformisti-reduci della Milano-da-bere. Insomma, sembra un appuntamento di quelli stile gay-pride, anni80-pride, orgoglio generazionale. Assembramento più unico che raro. I neuroni degli avventori casuali avvertono qualche prima avvisaglia: “forse è un evento”. Tutti sono convinti che Byrne incentrerà il suo spettacolo sul nuovo disco e su qualche altra sperimentazione inedita, non escludono che qualche concessione al glorioso repertorio Talking Heads la faccia, ma nessuno pensa al tripudio, alla serata catartica, all’apoteosi. Sarà come tutti gli altri, un concerto del dopo, uno di quegli show interessanti ma che non potrà porsi sullo stesso piano degli exploit degli esordi di carriera, quando Byrne sembrava anni luce avanti agli altri, quando dettava le regole dell’evoluzione della musica e del costume. Si parte con un paio di battute di David che esordisce sul palco: “stasera fate tutte le foto che volete. Anzi usate pure il cellulare o inviate una mail. Dopotutto avete pagato il biglietto…” , elegante, vestito di bianco, con quel suo immutato portamento rigido e serio e quel suo tono ironico.
L’entrata, con altre dieci persone sul palco (la band è al tempo stesso un corpo di ballo di grandi capacità sceniche), è tutta per il nuovo disco “Everyhing That Happens Will Happen Today”, ma già il secondo brano scuote il pubblico del Teatro Pavarotti, sulle prime inibito dalla classicità austera del luogo. Il brano è “I Zimbra”, un’essenza del Byrne-pensiero, tra le composizioni più celebri e acclamate di tutta la carriera. Non c’è ovviamente la chitarra di Robert Fripp, come nella versione originale di “Fear Of Music”, ma l’esecuzione è altrettanto suggestiva e straniante, un tripudio di elettronica, funk e tribale, esaltato dalla possente prova del corpo di ballo. E’ il primo momento di apoteosi sonora della serata, percussioni e balli ipnotici afro-funk, in perfetto stile Talking Heads: ma si pensa sia solo un intrattenimento per rompere il ghiaccio. Si riprende con un paio di brani dell’ultimo album che il pubblico osserva con attenzione, ma all’improvviso, le note di “Houses in A Motion” danno a intendere che l’evento è di portata storica. Ai primi versi declamati da Byrne (“For a long time I felt / without style or grace …”) l’uditorio del teatro si elettrizza, e da allora diventa un’autentica violenza carnale la costrizione a restare seduti.
Il concerto sino a quel momento ha stupito e calamitato le attenzioni (vi sono state anche due esecuzioni tratte dal “My Life In The Bush Of Ghost”), ma ora si procede con una sequela mozzafiato di brani della band, da “Heaven”, a “Crosseyed and Painless”, da “Born Under Punches (The Heat Goes On)”, sino all’apoteotica “Once in a Lifetime”, in cui Byrne canta accentuando l’atteggiamento declamatorio delle note strofe iniziali (“And you may find yourself …”), come in una sorta di parodia di sé stesso necessitata dalla location teatrale. Lo spettacolo sale alle stelle. Ancora pochi brani e il pubblico si alza definitivamente per il ballo liberatorio collettivo della platea e di cinque piani di palchi. Un tripudio mai visto. Si va avanti con una dance indiavolata sul palco, corse e girotondi in stile Talking Heads, sino alle finali “Take Me To The River”, “Burning Down The House” e alla chiusura elegantissima di “Everything That Happens” . Concerto irripetibile, che riconcilia con le identità perdute e ci consente di cogliere le distanze siderali tra la genialità artistica degli iniziatori assoluti e l’ordinarietà della scena musicale del nostro quotidiano.
Giuseppe Basile © Geophonìe.