Cathy Richardson, l’ultima vocalist dei Jefferson Starship (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Trascinati dalla nuova lead singer, i Jefferson Starship di Paul Kantner e David Freiberg riescono a scrivere un ulteriore capitolo del loro quarantennale percorso artistico, tra rock, folk e psichedelia. Cronaca di una grande serata romana.

“Le pop star di oggi … fra un anno o due non ti ricorderai neppure il loro nome. Fra cinque anni saranno cancellate dalla storia”. A dirlo, nel 1997, fu un giovane e promettente figlio d’arte, Jacob Dylan. Così i giovani, da vent’anni a questa parte, descrivono se stessi. E ciò che colpisce, in effetti, è quanto l’affermazione sia vera. Lo si può constatare da tanti segnali emblematici: dalle copertine delle riviste musicali specializzate, ove all’immagine dei giovani viene sempre preferita quella dei vecchi musicisti, tanto sfatti (talvolta anche artisticamente) quanto ancora trainanti; dai dati di vendita dei cd, sempre saldamente ancorati alla musica degli anni 70 e 80, con uno scarto enorme rispetto alle produzioni contemporanee; dall’affluenza ai concerti.

Ovviamente le eccezioni si contano sempre, da ambo le parti. Come non mancano i giovani carismatici, così pure non mancano le tante vecchie glorie incapaci di difendere il proprio spazio artistico e la propria visibilità: la rendita di posizione dei vecchi, insomma, non è proprio un effetto automatico.

Certo è, comunque, che tra le mille storie di musica e di vecchi artisti è raro trovarne di quelle che testimoniano ancora una reale capacità di ricerca e di rinnovamento, perchè il momento in cui il vecchio grande artista tira i remi in barca e porta sul palco solo il mestiere, prima o poi inesorabilmente arriva.

Stupisce, allora, quando un gruppo di così lungo corso riesca ancora a trovare energie, motivazioni e capacità comunicative, senza peraltro dover accantonare il repertorio classico e rassicurante che la folla attende.

La ricerca e la reinterpretazione sono a volte l’effetto ineludibile del turn over che il passare del tempo impone. Pensionamenti, defezioni, avvicendamenti, producono necessariamente delle mutazioni. A volte, però, questo cercare per l’ennesima volta una via è ancora un’autentica ricerca artistica, piuttosto che una mera contingenza.

Cathy Richardson, David Freiberg e Jude Gold (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Di avvicendamenti i Jefferson Starship ne hanno visti in quantità, tanto da cristallizzarsi definitivamente come street band, come gruppo, cioè, che ha fatto della fase live tanto il proprio principale obiettivo, da concepire l’alternarsi dei componenti come un mero dettaglio.

Alle origini, come sappiamo, non fu così. La band, capitanata da Paul Kantner e Grace Slick, si esprimeva con una formazione imperniata su un nucleo abbastanza stabile, sebbene non mancassero mai, come in tutti i gruppi di cultura hippie, partecipazioni e ospiti importanti. Col passare degli anni, però, la filosofia dell’alternanza ha finito col prendere il sopravvento, tanto che nel loro ultimo disco del 2008, “Tree of Liberty”, la band si ripresentò al pubblico con una foto emblematica: “The Main Ten”, recitava la didascalia, i principali dieci. Un assemblaggio fotografico, che voleva testimoniare una storia scritta, suonata e cantata a più mani e più voci. Un ensemble.

Diane e Paul

Diana Mangano e Paul Kantner, 09.10.2005, Sausalito, Mexico (Corrado Cagalli © Geophonìe)

Diana1

Diana Mangano a Milano, 01.12.2006, Blue Note (Giuseppe Basile © Geophonìe)

A focalizzare l’attenzione dei fans e del pubblico, però, era l’avvicendamento nella posizione della lead singer ad essere sempre, e comprensibilmente, il più sentito. Dopo l’uscita di scena di Grace Slick la difficile eredità passò a Diana Mangano, che per oltre quindici anni ha retto il fronte del palco, sostituita sporadicamente da Darby Gould. Diana l’abbiamo vista in Italia svariate volte, l’ultima nel 2006 al Blue Note di Milano, nel corso di due serate nelle quali si percepì un momento di difficoltà e stanchezza della band.

Nel 2008, i Jefferson ci onorarono di un loro nuovo passaggio, ma questa volta senza la fantastica Diana, a cui il pubblico è sempre stato affezionato. La band questa volta sperimentava una nuova singer, di notevole curriculum nella scena folk rock del mercato interno americano, e di grande carattere: una certa Cathy Richardson, pressochè sconosciuta al pubblico italiano. Di lei si sapeva poco o nulla, si diceva che in America fosse la migliore interprete di Janis Joplin in circolazione, si parlava della sua vocalità robusta e potente e della sua indole molto rock.

Il concerto tenuto a L’Aquila (prima del terremoto) spiazzò i fans, ancora abituati alle dolcezze psichedeliche e alla pose hippie di Diana, ma lasciò intendere che la band forse stava per l’ennesima volta cercando un’ultima via di sopravvivenza, una soluzione per non restare intrappolata nello schema della band-revival per reduci.

Il disco “Tree of Liberty” risultò un lavoro decoroso, colto, fiero, con citazioni nobili del folk americano e la giusta dose di sonorità tipiche della band. Non si sapeva, però, quale direzione avrebbe davvero potuto assumere la nave dei Jefferson per il prosieguo. Abbiamo così dovuto attendere i concerti di Catanzaro e Roma, (9 e 12 ottobre 2012) per scoprire come questa formazione abbia saputo evolversi.

Cathy Richardson ha preso in mano le redini della band, come forse neppure a Diana Mangano riusciva, e ha ri-portato il gruppo su ritmi e composizioni intense e a tinte forti. Di psichedelia praticamente non c’è traccia, mentre il rock classico della band viene invece ripescato e riproposto senza esitazioni.

Cathy e Paul, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Cathy è una vigorosa interprete, ma è anche una fervida autrice, qualità che ha voluto rendere nota al pubblico italiano presentando nel corso della performance il disco d’esordio (“The Other Side”) della sua band collaterale, The Macrodots, eseguendone un brano (“If I Could”). I linguaggi sonori, ovviamente, sono tutt’altra cosa rispetto alla band di Paul Kantner. Si tratta di un sound tipicamente anni 2000, caratterizzato dalla chitarra di Jude Gold, giovane musicista che milita con Cathy in questa giovane formazione, ma che è anche sul palco dei Jefferson, come chitarra solista.

Slick

Slick Aguilar, 19.11.2006 Amsterdam, Melkweg (Corrado Cagalli © Geophonìe)

E’ la marcia in più che forse mancava al gruppo di Paul Kantner, e che sostituisce il veterano Slick Aguilar, per anni artefice delle sonorità elettriche dei Jefferson, sempre presente in tutti i loro tour sin dal 1992.

Jude Gold e Cathy insieme tirano da matti: il concerto romano è di sorprendente potenza, sonora e vocale, e su questa caratteristica è costruita la setlist.
La “Somebody to Love” degli Airplane è addirittura il primo brano, come a volersi subito scrollare di dosso il macigno, ma che naturalmente ben dispone il pubblico.
Segue “Fresh Air”, parallelo omaggio ai Quicksilver Messanger Service, ovvero l’altra band che contribuì alla nascita dei Jefferson Starship, nel lontano 1970. David Freiberg la esegue perfettamente, con voce forte e interpretazione sicura.
Per quanto è breve, la successiva invocazione di “Sunrise” giunge come una mera sensazione di psichedelia, un omaggio al tema filosofico portante della storia del gruppo, ma non ti lascia il tempo di cullarti nelle sue suggestioni hippie: la serata, infatti, deve scorrere su un altro registro. La band infatti esegue di seguito “Have You Seen The Saucers?” e “Find Your Way Back”, due brani non celebri e poco sfruttati da Kantner (il primo, composto nel 1970, venne poi inserito in una raccolta di opere minori degli Airplane pubblicata solo nel 1974, “Early Flight”; il secondo, invece, è un pezzo ripescato da “Modern Times”, lavoro che i Jefferson Starship pubblicarono, senza fortuna, nel 1981). Queste due esecuzioni risultano essere un segno di forza del concerto romano, perché stanno a dimostrare che se una band suona ad alti livelli, anche i lavori minori possono trovare un momento di gloria inattesa. Entrambi i pezzi sono una riscoperta, e l’interpretazione dell’intero gruppo li rigenera e valorizza.

Cathy Richardson, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Ma è tempo ormai di sfoderare la sequela mozzafiato di hits, a furor di popolo, e di brillanti vibrazioni rock. “When The Heart Moves Again” (pietra miliare d’apertura dell’inarrivabile “Bark” del 1971) è come sempre un inno, a cui seguono “Get Together”, “Miracles”, “Count On Me”, una dopo l’altra. Si arriva così a “Wooden Ships”, ovvero alla pura leggenda, al punto compositivo più alto di Kantner/Crosby, corale, calda, con il duo vocale Kantner-Richardson convinto e concentratissimo.

La band ci crede, dimostra affiatamento, solidità, voglia di inondare il pubblico di emozioni. A sostenere il crescendo ritmico c’è Prairie Prince, storico batterista della band che negli ultimi anni si era allontanato dal gruppo per seguire altri progetti, ma che per una manciata di date di questo tour ricompare, proprio in Italia. Era (e forse è ancora, chissà) il compagno di vita di Diana Mangano, di cui invece non si ha quasi più notizia dal momento della sua uscita dal gruppo, fatta eccezione per qualche sua apparizione negli States con altri musicisti. Alle tastiere, invece, inamovibile, come nelle precedenti tournee italiane del 2005 e 2006, c’è Chris Smith, questo bravo ragazzo dalla faccia buona che da anni riesce a sostenere ritmicamente la band accollandosi anche le parti di basso.

David

David Freiberg, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Dopo l’esecuzione di Wooden Ships, accolta dagli applausi, c’è spazio per due sorprese. David Freiberg intona da solo, voce e chitarra, “Harp Tree Lament”, ovvero il suo più grande capolavoro, una delle canzoni più belle del mondo. L’interpretazione è commovente perché ti fa comprendere quanto possa essere grande il cuore di un uomo, anche in età avanzata. E’ questa oggi, purtroppo, la condizione del grande David, un vecchio hippie che ha vissuto nove vite e che ha ancora la forza di presentarti una canzone così intensa dimostrandoti quanto lui stesso la ami. Certo, la versione originale contenuta su “Baron von Tollbooth & the Chrome Nun” del 1973 non è obiettivamente riproducibile (lì siamo davvero fra le stelle), ma questa versione acustica è una celebrazione (giusta), un omaggio dovuto a una composizione che vive di vita propria, di quelle che quando te ne innamori non la lasci più.

Subito dopo tocca a Cathy diversificare il concerto presentando “If I Could”, tratto dal disco realizzato con The Macrodots (decisamente un bel lavoro, robusto e godibile al tempo stesso, attuale e originale: alla fine del concerto lei stessa riceve il pubblico all’uscita dal XS Live – il locale che ospita i Jefferson e che loro inaugurano – e ne vende una gran quantità di copie).

PAUL KANTNER

Paul Kantner, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto quindi entra nella sua fase finale, rock a tutto spiano, con un’altra raffica di brani memorabili. Si riparte con “Ride The Tiger”, e “Fast Buck Freddie”, con cui il gruppo dimostra di voler porre l’accento sul suo repertorio più rockettaro, cosa che invece non si riscontrò sempre nel corso delle loro ultime esibizioni italiane. Kantner pesca infatti a piene mani da “Dragonfly” e “Red Octopus” del 1974 e 1975, scaricando i suoi riff tipici degli Starship dell’età di mezzo (quella successiva agli esordi psichedelici di “Blows Against The Empire”, e precedente alla fase di fine anni ‘70 e primi ’80 durante la quale la band s’incamminò verso contaminazioni di ambiente pop americano ed esperimenti commerciali). Si prosegue con “Jane”, fortunatissimo brano del 1979 (tratto da “Freedom at Point Zero”): tutti brani, questi, in cui Cathy sfodera una forza interpretativa da leone e viene sostenuta da un Jude Gold straordinario che davvero fa la differenza, brillantissimo, di grande tecnica chitarristica e lucentezza di suoni, brillante in assoli straripanti che ne catalizzano la presenza sul palco.

E’ il momento di affrontare la fase finale con un’ultima marcia trionfale di successi, pura storia della musica. “Crown of Creation”, “Hyperdrive”, “The Ballad Of You And Me & Pooneil”, sino a “White Rabbit” (con una Cathy ormai alle stelle, ma sempre lucida e carismatica nel condurre la performance), e quindi al delirio finale di “Volunteers”.

L’XS Live sulla via Ostiense di Roma vive un momento di gloria che mai dimenticherà, un pubblico maturo e avanti negli anni si abbandona all’ebbrezza della gioia collettiva, mentre Paul Kantner chiude, come quasi sempre è solito fare, con “The Other Side Of This Life”, ora siamo davvero dall’altra parte della nostra stessa vita.

Non ci sono parole per celebrare i Jefferson.

Autentici Eroi. Serata epica.

Giuseppe Basile © Geophonìe
(Riproduzione Riservata)