Gli Archivi fotografici di Paolo De Siati rappresentano la più ampia e organica raccolta esistente di immagini della Taranto del ‘900, un autentico tesoro documentaristico. Un ritratto della società jonica, dei suoi stili di vita e di un mondo economico e culturale ormai estinto.
Paolo De Siati (25.1.1895 – 27.10.1960), tarantino, è un nome noto nel mondo della fotografia di cui ancora si sente parlare, nonostante sia scomparso oltre cinquant’anni orsono.
Spesso, infatti, la sua opera fotografica ha suscitato attenzione e interessi, sia per il suo indubbio valore illustrativo e documentaristico del territorio pugliese e di Taranto in particolare, sia anche per questa sua attitudine rievocativa e di testimonianza di un’epoca, con tanti scatti memorabili che descrivono costumi e stili di vita della prima metà del ‘900.
Vi sono, in effetti, negli archivi De Siati, immagini di Taranto assolutamente uniche, molte delle quali sono poi entrate a far parte dell’iconografia della città, grazie soprattutto all’attività commerciale del suo negozio di ottica sito in Taranto alla via Di Palma angolo via Pupino. In quello storico esercizio commerciale, gestito dai figli fino alla sua cessazione del 1995, molte di quelle immagini vennero custodite e diffuse, spesso anche gratuitamente, ad amatori, alla stampa e all’editoria, trovando quindi la loro giusta e meritata notorietà.
Ma l’attività fotografica del Paolo De Siati puro fotografo, artista e sperimentatore, rigoroso artigiano dell’immagine, non ha incontrato particolari occasioni per essere svelata al grande pubblico come è avvenuto per l’attività documentaristica. Uno studio dedicato ai suoi lavori privati, ai ritratti di gente comune, ai paesaggi in bianco e nero degli anni ‘30 e ’40, consentirebbe oggi di cogliere la qualità fotografica di certe istantanee, frutto di lunghe prove e di soluzioni tecniche, sia in fase di realizzazione che di stampa.
La collezione privata della famiglia De Siati, infatti, costituisce un esempio più unico che raro dello stato dell’arte fotografica nell’Italia della prima metà del ‘900. Attraverso lo studio delle sue immagini si scoprono, talvolta, scelte operative, correttivi e ritocchi artigianali, stili d’immagine: tutte cose realizzate con i mezzi di allora. Ma si scorge anche la modalità antica del lavoro di fotografo, il suo approccio alla macchina tutta meccanica, senza aiuti, tutori, autofocus, misuratori della luminosità. La macchina fotografica era un congegno muto, che solo la mente del fotografo poteva condurre. Riuscire a ottenere da quelle strepitose ottiche la massima resa era una scommessa da vincere solo con l’ausilio delle proprie conoscenze e capacità.
Appostarsi dietro l’obiettivo e attendere: che una certa luce diventi più morbida, che la nuvolosità vada a diradarsi, che certi riflessi del sole non risultino molesti. Questo era (anche) il mestiere del fotografo professionista. La fotografia del passato, sino all’avvento della macchina digitale, era il prodotto di lunghe attese, di ritorni sul luogo dello scatto, di ripetute prove. Si cercavano le condizioni ottimali per ottenere un dato effetto. La luce dopo il temporale, il controluce di un pomeriggio assolato, il contrasto tra luci e ombre. Ombre lunghe, raggi di sole obliqui e fendenti, nuvole basse, cieli azzurri e nitidezze da brivido. L’arte fotografica consisteva, prima di tutto, nel saper aspettare. L’attesa paziente, la tenacia, erano il requisito iniziale necessario per poter scattare l’istantanea immaginata. Se la natura e la fortuna soccorrevano il fotografo, offrendogli le condizioni sperate, l’opportunità doveva sposare la prontezza, la tempestività, il ricorso a chiare cognizioni tecniche per far sì che quel dato momento, quella specifica posa, venissero catturate.
A volte la fotografia realizzata dopo estenuanti appostamenti, tentativi falliti, occasioni sprecate, esperimenti sbagliati, assomigliava alla pesca: l’attesa, la rapidità del momento, la concentrazione nel cogliere l’attimo. L’immagine era la preda. Ma a differenza della pesca, qui non bastava accaparrarsi la preda catturandola alla meglio. Catturare un’immagine vuol dire, talvolta, catturare un dettaglio di quell’immagine. La folata di vento improvvisa sugli alberi d’autunno. Il banco di nebbia minaccioso sulle rotaie del treno. L’atterraggio degli uccelli sul campo incolto alle prime luci del mattino gelido, fra le ultime ombre torbide della notte che se ne va. Tutto questo è produzione fondata sulla dedizione.
Oggi è molto più semplice. Con la post produzione si arriva a fare quello che nel momento creativo originario non si è saputo o voluto fare. Una grande conquista della tecnica. Rileggere oggi certe immagini di Paolo De Siati dopo aver acquisito la pratica della post produzione, del ritocco, dell’elaborazione, produce emozione e stupore. Proprio per la facilità con cui ormai si riesce a intervenire sull’immagine sino a stravolgerne la sua stessa essenza, si comprende la difficoltà sottesa ad uno scatto degli anni 30 in cui certi dettagli volutamente risaltano. Questione di costanza, di tecnica, di immaginazione della resa finale.
La fotografia del passato dimostra quanto fosse importante prefigurarsi un certo effetto, per poterlo efficacemente realizzare. Oggi quello stesso effetto lo si produce con mille prove in laboratorio, persino in modo involontario. E questo dimostra quanto fosse grande la capacità visiva e tecnica dei fotografi del passato nel prefigurarsi quel dato risultato e nel cercarlo intenzionalmente.
Il lavoro di Paolo De Siati, dopo le produzioni dell’Editore Schena (1994) e delle Edizioni Archita (2002), si spera possa tornare alle stampe. L’Associazione Geophonìe, se officiata dagli eredi De Siati, ne sarebbe grata e orgogliosa.
Pubblichiamo un breve testo che a fine 1994 venne scritto da Jolanda Pavone e letto in pubblico da Lucilla Pavone – nipoti di Paolo De Siati – in occasione della presentazione del volume “Taranto nelle foto di Paolo De Siati” (ISBN 88-7514-701-9) realizzato da Roberto Cofano per l’Editore Schena. La presentazione avvenne a Taranto in una sala del glorioso Bar La Sem di via Giovinazzi.
Ricordo di mio nonno, Paolo De Siati.
A cent’anni dalla nascita di Paolo De Siati, la pubblicazione di un libro che raccoglie alcune delle sue foto più belle è il modo migliore di ricordarlo.
Don Paolo, “Malatièmpe”, mai nomignolo fu più azzezzato, amava il grigio, maschera dietro la quale si nascondono gli uomini fatti di concretezza e di ideali. Lo amava in tutte le gradazioni, quello delle giornate piovose e della vita attiva, dei mattini freddi e dell’altruismo, delle difficoltà e delle soddisfazioni che derivano dal farvi fronte. Di ciò testimoniano le sue fotografie, nitide ed eloquenti, e la sua vita, sobria e coraggiosa. Sempre pronto a sfidare le incertezze del domani, mio nonno era pronto a rimetterci di tasca propria, quando le cose fossero andate male. Era generoso con tutti e, nel lavoro, animato da passione, creatività e inventiva. Era simpatico e gioviale, un po’ mattacchione, proprio come il figlio Lillino, mio zio, che da un ritratto satirico nel negozio di via Di Palma a tutt’oggi cerca, con la lente d’ingrandimento, una città che ancora non riesce a trovare: la nostra città, lontanissima ormai da quella che accolse don Paolo e la sua lunga avventura.
Taranto, e le foto che la ritraggono, si rincorrono nei miei pensieri fino a fondersi in un unico quadro, ricco di bianco e nero, di chiaroscuri e affetto. Ne sono artefici mio nonno e la sua opera, artefici che mi consentono di tuffarmi nel passato mentre guardo al futuro ed all’oggi, senza limiti di spazio e di tempo oltre quelli delle sue fotografie. Sarà anche il conoscerne l’autore, ma osservare una foto di don Paolo è come salire sulla macchina del tempo. Gustarne una raccolta intera, poi, fa andare a cavallo della storia e dominarla. In quelle foto austere e pulsanti c’è tutto Paolo De Siati, le sue giornate, la sua vita. Immagino il suo orgoglio nel constatare il seguito di cui gode l’opera che ci ha lasciato, crescente e ininterrotto nel tempo.
La vitalità delle immagini coincide con la passione di chi riesce a tradurle in fotografie. E queste riflettono l’animo del fotografo. Mio nonno vedeva il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, e viveva pronto a fermarlo con uno scatto, qualsiasi cosa facesse. Si trattasse di momenti futili o importanti, di immortalare persone o vie o piazze, di fissare attimi predisposti oppure colti all’improvviso, don Paolo c’era, sempre. Pronto a regalare qualche frammento di vita vissuta ai posteri.
Sono cresciuta specchiandomi nelle fotografie raccolte nel libro ed in mille altre, ugualmente significative, che non vi hanno trovato posto. Tutte appartengono, senza distinzioni, ai miei sentimenti e ai miei ricordi.
Grazie nonno.
Ringrazio l’Autore Roberto Cofano, Giovanni Acquaviva, Ornella Sapio, l’Editore Schena e quanti hanno consentito la pubblicazione del libro, dallo stesso autore dedicato a mio zio Lillino, per il suo prezioso contributo.
Concludendo voglio ricordare proprio zio Lillino, prezioso sempre, come sanno molti di voi avendolo conosciuto e frequentato. Zio Lillino amava la musica, gli amici e la compagnia non meno della sua vecchia e fedele camera oscura. Amava la vita come nonno Paolo, e così voglio ricordare entrambi. Amava e custodiva gelosamente le raccolte di fotografie paterne, che ben volentieri, però, ha messo a disposizione dell’autore per la realizzazione di questo libro.
Jolanda Pavone
(a nome dei figli di Paolo De Siati: Davida, Giovanna, Erasmo, Elena e Giulia)