Un tempo andavano di moda i “diari di viaggio”, quelli che servivano ad annotare ogni prezioso momento di un’esperienza che si sapeva essere straordinaria e irripetibile.

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Viaggiare non era un fatto abituale, accadeva raramente, non si disponeva di tante risorse e opportunità. Andare a un concerto negli anni 60, 70, 80, era un evento epico, un’impresa eroica, una spedizione alla conquista di una vittoria. Le fotografie, le registrazioni, le videoriprese, erano trofei inestimabili. Dei viaggi che ho fatto da ragazzo, alla conquista di un posto in prima fila sotto il palco dei miei artisti più amati, ricordo ogni dettaglio: il ritardo di un treno; una coincidenza perduta; il pub dove capitava di essersi fermati a mangiare; le musiche irradiate dai grandi amplificatori prima dell’inizio del concerto; l’attesa. Erano eventi più unici che rari, se ne parlava poi per mesi e per anni, come in una perenne commemorazione.

Con la sempre maggiore diffusione di eventi, con il susseguirsi dei tour mondiali di migliaia di artisti,  quindi con l’assuefazione, il popolo della musica è divenuto più equilibrato, forse più freddo, distaccato. La possibilità di vedere e rivedere ovunque quel dato evento, la disponibilità totale di immagini e reperti, la facilità del riascolto, ha reso molte delle nostre antiche pulsioni prive di ogni tensione e intensità. Siamo cresciuti, siamo molto più riforniti di un tempo, non c’è più alcun bisogno di trascorrere una notte insonne per la preoccupazione di non riuscire a introdurre furtivamente una macchina fotografica nel luogo del concerto, né accade più di dover restare sospesi, in fremente attesa che il negoziante sviluppi e stampi il nostro (unico) rullino da 24 o 36 fotografie, con la preoccupazione che quegli scatti non siano come speriamo.

Pigri e indifferenti, sazi di tutto, andiamo a vedere spettacoli che non ci emozionano più, che guardiamo con occhi diversi, consapevoli che quell’evento non è certo unico e irripetibile, anzi, è uno dei tanti. Quando però sai che un evento è davvero unico, e che ciò che sta per accadere non si ripeterà, all’improvviso senti che l’emozione torna, divampa, ti assale. Si ritorna ragazzi, l’emotività ci fa vibrare, ci scuote. Vale la pena di scrivere, allora, come si faceva un tempo. Carta e penna, macchina fotografica pronta come un’arma da guerra carica. Sta per succedere qualcosa di splendido e io sono qui, tante volte in passato non ero riuscito ad esserci, ma stavolta sono qui. Ho lasciato moglie, figli, lavoro, ho dimenticato le solite preoccupazioni economiche, ho persino mandato al diavolo i problemi di salute che a volte mi hanno condizionato e indotto a non esserci, a non fare, a non andare, a rinunciare.

Adrian Janes, Bob Lawrence, The Outsiders (© Photo J.P. Van Mierlo)

Stavolta non rinuncio: andrò a vedere i SOUND, con Mike Dudley alla batteria, con Adrian Janes e Bob Lawrence, ovvero gli originari OUTSIDERS che io non ho mai visto e conosciuto. Incontrerò tutti i loro amici, i musicisti, professionisti e dilettanti, le loro mogli, le fidanzate, e questa volta la vita sarà tutta per me, per tutto il resto c’è tempo, il resto del mondo rimane dov’è, lo ritroverò esattamente come l’ho lasciato, e riprenderò a vivere la mia routine. Ma oggi no. Oggi vado a prendere a piene mani il mondo-tutto-mio, quello che appartiene solo a me, il mio mondo segreto che mi accompagna nella quotidiana routine tra banche, uffici, supermercati, tasse da pagare, amore da rincorrere e da coltivare, dolori e progetti da realizzare. Quel mondo interiore che mi affianca, nella quotidianità del reale, ma che è anch’esso “reale”, non è fantasia, è vera passione, ebbene quel mondo interiore, ora vado a toccarlo con mano. Voglio trascorrere due-tre ore guardando con occhi incantati i musicisti che suoneranno per me la musica che ho amato di più e che ogni giorno, immancabilmente, fa capolino nel silenzio dei miei pensieri, mi riscalda.

Il Meeting del 26 aprile 2019,  tributo in onore di Adrian Borland, cade nel giorno del ventesimo anniversario della sua scomparsa. Lo organizzano a Londra, in un pub chiamato “Cavern”,  Audrey Eade e suo marito Robert Eade, amici storici di Adrian e della band sin dai primi anni ’80. Anche nel 2018 vi è stato un meeting–tributo, sempre al Cavern, ma dall’Italia nessuno riuscì a prendervi parte. Questa volta invece ci muoviamo con grande anticipo. Facciamo i biglietti aerei con tre mesi di anticipo, prenotiamo un albergo nei pressi del Cavern, cerchiamo di far quadrare tutti i nostri impegni. E la sera del 24 aprile, a Bologna, ci incontriamo:  Marina Derosas da Torino, Patrizia Prisciandaro da Firenze, io da Modena, felici e pieni di emozione, andiamo a cena insieme, prendiamo taxi, beviamo vino e attendiamo la partenza in aereo all’indomani a prim’ora. Ci raggiungerà poi Manuela Nessi, da Torino, che parte alla volta di Londra da un altro aeroporto.

Il 25 aprile, a prim’ora, partiamo dall’Aeroporto Marconi e dopo due serene ore di viaggio, in una bella luce chiara e nitida, atterriamo a Heathrow, lo scalo più comodo a sud di Londra per raggiungere le nostre destinazioni, Wimbledon e Raynes Park, nella stessa area. Conosco bene i luoghi: Wimbledon è il quartiere in cui Adrian ha vissuto con la sua famiglia. Dopo il decesso di Robert Borland, padre di Adrian,  la casa è stata ristrutturata e messa in vendita dall’istituto di ricerca scientifica che per testamento ne ha acquisito la proprietà. Il luogo per noi rappresenta qualcosa, mentre Raynes Park, sobborgo situato nella stessa area, a poche fermate di autobus da Wimbledon è un sobborgo  che non conosciamo e che sappiamo solo essere l’area in cui sorge il Cavern e il nostro albergo. Ci tratteniamo un po’ nel gigantesco aeroporto di Heathrow prendendo le misure dei nostri spostamenti, tra metropolitane, treni, autobus, Oyster Card e varie mappe, ci facciamo poi derubare da un cambiavalute poco conveniente, girovaghiamo tra negozi e caffè,  infine ci dirigiamo a Wimbledon.

Alla stazione della metro di Wimbledon potremmo direttamente cambiare binario e salire su un treno che ci condurrebbe in pochi minuti a Raynes Park, le signore lascerebbero i bagagli in albergo e potrebbero poi prepararsi per il primo tour in giro per Londra, ma io insisto nel consigliare una sosta, “affacciamoci fuori dalla stazione, nel piazzale, dai, è bello!”, “Siamo a Wimbledon, diamo un’occhiata, anche solo per respirare l’aria della città, i colori, in fondo sinora siamo stati chiusi in metropolitane, gallerie aeroportuali e treni”, “dai, fermiamoci un attimo, prendiamo un caffè in centro a Wimbledon” …. Patrizia e Marina cedono alle mie insistenze e accettano di sacrificarsi un altro po’ trascinando con sè i rispettivi bagagli a mano, quindi usciamo dalla stazione della metro, ci guardiamo intorno, è una bella giornata.

Marina Derosas, Mike Dudley, Patrizia Prisciandaro

25.04.2019 (©Photo G.Basile)

Siamo con gli occhi al cielo lì impalati, a guardare le insegne dei negozi, i tetti, le auto e le vetrine, quando all’improvviso sento qualcuno alle mie spalle che mi cinge la vita e mi sussurra in inglese qualcosa di incomprensibile nell’orecchio …. salto in aria impaurito ma appena mi volto vedo che il mio attentatore è Mike Dudley, è lì proprio in quel momento, nell’istante in cui noi abbiamo deciso di mettere il naso fuori dalla stazione, mi ha fatto uno scherzo, ridiamo e ci salutiamo tra baci e abbracci mentre vediamo sopraggiungere un ragazzone altissimo e corpulento che con passo veloce,  una falcata, e il dito puntato verso di me si avvicina e mi dice: “you are Giuseppe Basile!”.  E’ Martijn Prins, suonerà al Cavern nei vari set che i musicisti amici stanno preparando. Parliamo e scherziamo, loro in attesa di Kevin Hewick hanno un’auto parcheggiata in divieto di sosta sul piazzale, “lo aspettiamo perché dobbiamo andare a provare in uno studio qui in zona”, ma Kevin comunica loro di essere un po’ in ritardo, ci tratteniamo e continuiamo a conversare per un po’, quindi ci separiamo, Mike e Martijn vanno a provare, noi ci dirigiamo verso Raynes Park per raggiungere l’albergo, non prima di una sosta in un bellissimo pub, classico, in perfetto stile inglese, nel centro di Wimbledon.

Londra è un luogo incredibile per chi ha vissuto alimentandosi di cultura musicale inglese. Girovaghiamo tutto il giorno tra Leicester Square, Piccadilly Circus e Regent Street, ci incontriamo con Manuela Nessi appena arrivata in centro, ci imbuchiamo in un altro pub per cenare insieme, ma nel frattempo la musica scorre nella mente, ci viene rievocata da ogni cosa, dalle insegne luminose, dai nomi delle piazze (“Jeoffrey Goes To Leicester Square”, il brano dei Jethro Tull), “Man on the platform …” canta Marina (pensando a “Red Paint” dei Sound, naturalmente) ogni volta che vede i cartelli segnaletici, Platform five, Platform six, nelle stazioni delle metro.

Audrey Eade (© Photo Robert Eade)

Il giorno successivo è quello del meeting. Si incomincia alle 19, per noi non c’è il tempo delle presentazioni perché appena entrati nel pub vediamo che Audrey Eade è già sul palco: insieme a lei (voce solista), c’è il fido Elliot Wheeler (chitarra), Robert Eade al basso e Adrian Janes alla batteria. Eseguono un brano composto da loro con la formazione che hanno denominato Moon Under Water, il brano si chiama “Lifetime” (https://www.youtube.com/watch?v=Ct0YTAo4h1g). Elliot mi dice che questa band si formò circa un paio di anni fa, “Audrey, Robert, Adrian Janes ed io. Iniziammo a suonare nel periodo in cui venne organizzato  il primo meeting-tributo in onore di Adrian, per il compimento dei suoi 60 anni. “Io scrivo la musica, Jan scrive i testi, Audrey è l’arrangiatrice. Abbiamo registrato diversi brani, ma in modo non ufficiale sinora”. 

Elliot Wheeler, Adrian Janes, Audrey Eade (© Photo Giuseppe Basile)

 

Adrian Janes, Audrey Eade, Bob Lawrence (© Photo Giuseppe Basile)

Robert Eade scende dal palco e cede il basso a Bob Lawrence: vedo per la prima volta nella mia vita i loro volti, Adrian Janes (Jan) alla batteria e Bob al bassso, ovvero gli Outsiders, gli iniziatori assoluti della storia dei Sound. La storia della musica accredita a questa band la realizzazione del primo album autoprodotto della storia del punk, è un fatto ormai acclarato. La loro setlist è tutta incentrata sui brani dei loro due dischi: “Vital Hours”, “Break Free”, “Touch+Go”, “Freeway”, “Start Over”, “Calling On Youth”, quest’ultima risuona davvero come un inno alla giovinezza, con il pubblico di vecchi amici che canta il ritornello punk: siamo ancora qui, sguardi felici, sorrisi. E’ un bel momento. Il set si chiude con una versione acustica e intima di “Winning” cantata da Audrey visibilmente emozionata. Cantò con Adrian nel suo primo eccelso lavoro solista, “Alexandria”, nel 1989, e le è sempre rimasta vicino. Per lei questa è una serata speciale. E per questa formazione, Moon Under Water, è un ulteriore tassello del loro cammino:  “Torneremo in studio di registrazione tra pochi mesi” dice Elliot, parlando del progetto, “Jan e Bob vogliono proseguire”.

Patrick Rowles, singing “Cinematic” (© Photo Giuseppe Basile)

E’ il momento del caro amico Patrick Rowles, che ora sale sul palco accompagnato da Rob Ball. Insieme eseguono un set acustico, solo due chitarre e voce, pochi brani ma che rappresentano qualcosa per Patrick: “The Way You Played Guitar”, “Cinematic”, “Last Train Out Of Shatterville” e infine “When A Star Dies” (la ghost-track contenuta al termine dell’ultimo disco di Adrian, “Harmony & Destruction”, realizzato grazie all’apporto determinante di Patrick, alla sua tenacia).

Patrizia Prisciandaro (© Photo Martin Prijns)

Nella pausa tra il set di Patrick e Rob e l’atteso set successivo, c’è anche il tempo per un esordio: sale sul palco la nostra Patrizia Prisciandaro, ha composto un brano per Adrian, testi e musica, è solo un omaggio, eseguito a sorpresa (neppure noi, suoi compagni di viaggio eravamo al corrente di questa sua intenzione) carico di valori e pensieri e che per lei rappresenta il tanto atteso inizio.

Simon Breed (© Photo Giuseppe Basile)

Si arriva quindi al set con Simon Breed (voce e chitarra), Mike Dudley alla batteria e Martijn Prins al basso. Simon esegue subito “Winter”, da solo, e ci regala poi una versione bellissima di “I Can’t Escape Myself”, con un’interpretazione e delle sonorità punk molto intense. Si prosegue con “Total Recall”, con la successiva “Silent Air” cantata insieme al pubblico senza alcun ausilio di strumenti, solo voci unite (e commosse), e infine con “New Dark Age” che chiude il set in una tensione musicale bellissima. La batteria di Mike, inutile sottolinearlo, è un martello, la sua ritmica è forsennata, implacabile, ti toglie il respiro e lo si vede ancor più nell’ultimo set, quando tocca a Kevin Hewick guidare l’ultimo trio (Hewick / Dudley / Prins) nella cavalcata finale di brani.

E’ la setlist più ampia, e forse anche la più vibrante. Si incomincia con “Plenty”, brano epico del 1983 pubblicato su un EP ormai rarissimo, introvabile, a nome “Kevin Hewick And The Sound”. Questo EP, intitolato “The Cover Keeps Reality Unreal”, difficile da reperire in Italia anche al tempo della sua uscita, suscitò l’attenzione di molti appassionati italiani della band, incuriositi dalla collaborazione con un musicista esterno e autonomo rispetto alla band di Adrian.

Giampaolo Salsi e suo figlio (© Photo Martijn Prins)

“Ero un avido lettore di fanzine e riviste new wave” – scrive il 28 aprile 2019 su Facebook Giampaolo Salsi, altro grande fan italiano giunto da Milano e presente al Cavern con suo figlio di quattordici anni –  “ricordo ancora il senso di incredulità, frustrazione e rabbia quando lessi una recensione dispregiativa di “Heads and Hearts”, sostenendo che i Sound stavano solo annegando nel loro stesso vortice (sarcastico …), intrappolati in una distorsione temporale insieme a personaggi come i Comsat Angels e altri dinosauri della prima scena new wave … ma un giorno mi soffermai sulla recensione di un EP di “un compositore minimalista [!]”, che aveva collaborato con i Sound per pubblicare il suo ultimo lavoro. L’EP si chiamava “This Cover Keeps Reality Unreal”, e  iniziai a cercarlo in tutti i negozi di dischi. Alla fine riuscii a procurarmene una copia da HMV, durante uno dei miei soggiorni a Londra, e corsi a casa per metterlo sul giradischi. La prima traccia, “Plenty”, era un’epifania (in effetti minimalista, ma, ehi, spesso il meno è di più!) ed è ancora una delle mie preferite in assoluto. Venerdì scorso, al Cavern in Raynes Park, ho avuto il privilegio di ascoltarla dal vivo, interpretata dallo stesso “compositore minimalista” accompagnato da Mike Dudley e Martijn Prins. Grazie Kevin Hewick, questo è stato meraviglioso e rimarrà con me per sempre”.

Kevin Hewick, Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

Mike Dudley (© Photo Giuseppe Basile)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Plenty” è un’apertura elegante, di gran stile, degna di questa serata e rappresentativa di una storia importante, come a dire orgogliosamente: “questi eravamo, questi siamo”, Kevin esegue “Plenty” benissimo, e il concerto sale. Si va avanti con brani che non ti aspetti, “Desire”, “Where The Love Is”, persino “Whirlpool”, brano difficile, come anche “Glass And Smoke”, musica immortale. Il pubblico è ormai rapito da queste sonorità celebri che fanno parte della propria essenza, è il momento di lasciar esplodere la gioia collettiva, la pura emozione. Kevin, Mike e Martijn accelerano, il ritmo sale, “Skeletons” ci impedisce di restare seduti, è una versione intensa, bollente. Si arriva quindi a “Party Of The Mind” e immediatamente dopo a “Sense Of Purpose”.  Gli italiani si commuovono, siamo al top, siamo sulla vetta. Mike suona benissimo, la potenza della batteria è emozionante, mai un istante di cedimento, mai un’esitazione: sono brani che diffondono un pathos epico nel locale. Quando li ascolti ti rendi conto che c’è qualcosa di definitivo in questa musica e che a questi livelli non si arriva più.  Ciò che circola ormai da anni nelle radio, nelle televisioni, ovunque, è un concentrato di superficialità senz’anima, senza autentica intensità. Kevin Hewick rallenta, propone ora “I Give You Pain”, brano notturno, oscuro come l’animo travagliato di Adrian in quel difficile 1987, l’anno di “Thunder Up” e dello scioglimento della band. Occorre concentrazione per esprimere questa intensità dolente, unica. Ma occorre anche chiudere in bellezza, in modo trionfale, vincente: siamo qui per condividere la potenza del nostro cuore, e dunque “Heartland” non può che essere la chiusura di una notte perfetta, con la batteria di Mike a pieno ritmo, irresistibile: “Keep it simple and hit it strong”, mi disse tempo fa, in occasione di un altro nostro precedente incontro. Serata gloriosa.

Giuseppe Basile©Geophonìe.
Riproduzione riservata.

Audrey’s Setlist (Watch The Photogallery)

LIFETIME (with Robert Eade on bass)
VITAL HOURS
BREAK FREE
TOUCH+GO
FREEWAY
START OVER
CALLING ON YOUTH
WINNING

Patrick’s Setlist (Watch The Photogallery)

THE WAY YOU PLAYED GUITAR
CINEMATIC
LAST TRAIN OUT OF SHATTERVILLE
WHEN A STAR DIES

Simon’s Setlist (Watch The Photogallery)

WINTER
I CAN’T ESCAPE MYSELF
TOTAL RECALL
SILENT AIR
NEW DARK AGE

Kevin’s Setlist (Watch The Photogallery)

PLENTY
DESIRE
WHERE THE LOVE IS
WHIRLPOOL
GLASS AND SMOKE
SKELETONS
PARTY OF THE MY MIND
SENSE OF PURPOSE
I GIVE YOU PAIN
HEARTLAND